21 Settembre 2024
Dal mondo

Una piramide di 27.000 anni in Indonesia?

di Matteo Boccadamo e Archeomilla

Gunung Padang è la più antica piramide mai scoperta al mondo e risalirebbe a ben 27mila anni fa!

Almeno, questo è quello che sostiene una ricerca pubblicata a fine ottobre 2023 sulla rivista scientifica Archaeological Prospection. Nell’articolo “Geo-archaeological prospecting of Gunung Padang buried prehistoric pyramid in West Java, Indonesia”, gli autori, guidati dal geologo D. Hilman Natawidjaja, fanno una dichiarazione molto forte, evidente già dal titolo: Gunung Padang è una piramide preistorica.

Partiamo dunque dalle conclusioni: 

“Lo studio suggerisce fortemente che Gunung Padang non è una collina naturale, bensì una costruzione piramidale. Il cuore della piramide è costituito da andesite meticolosamente scolpita (unità 4), ricoperta da strati di costruzioni rocciose (unità 3, unità 2, unità 1). Le analisi del radiocarbonio supportano ulteriormente la lunga storia della costruzione stratigrafica, lungo periodi successivi di tempo”.

Un’affermazione straordinaria che dovrebbe essere sostenuta da altrettanto straordinarie evidenze. Vediamole.

Quali sono le evidenze?

Nell’articolo i ricercatori sostengono di aver riscontrato l’esistenza di un nucleo originale di questa struttura megalitica, scolpito direttamente nella lava solidificata (giacché si tratta di un vulcano estinto), che con le datazioni al C14 risalirebbe in un intervallo compreso tra i 27mila e 16mila anni fa. Poi ci sarebbe uno iato temporale di circa 6mila anni, dopodiché la struttura sarebbe stata seppellita intenzionalmente tra il 7.900 e il 6.100 a.C. La seconda fase costruttiva risalirebbe al 6.000-5.500 a.C. e infine, dopo altri 3mila anni di pausa, la terza fase costruttiva tra il 2.000 e il 1.100 a.C.

Queste datazioni sono state ottenute dalle analisi radiocarboniche su campioni di suolo, ricavati, per gli strati più antichi, da carotaggi penetrati fino a 36 metri di profondità nella montagna.

Nell’articolo si dichiara che si tratta di suolo con componente organica, come è normale che sia, ma senza esplicitare l’eventuale presenza di tracce di attività antropica, come ad esempio la presenza di frammenti ceramici, ossa, carboni, terra concottata, ossa umane o animali con tracce di lavorazione e così via. Insomma, niente di ciò che ci si aspetterebbe per determinare l’antropizzazione di uno strato. Dal punto di vista del metodo archeologico queste datazioni al radiocarbonio sono semplicemente inutili.

Un’altra evidenza, secondo questo articolo, sarebbero i cosiddetti giunti colonnari, presenti anche negli strati più profondi e antichi, che compongono le strutture artificiali che caratterizzano l’intero sito, sui quali ci sarebbero palesi tracce di lavorazione

Ma dovremo fidarci, perché tali tracce non sono state documentate, e dovremmo altresì ignorare che si tratta di formazioni naturali compatibili con la presenza di un vulcano (neanche a farlo apposta!). Quando in realtà sono gli stessi autori a dirci come si sono formate queste rocce, essendo tutti geologi tranne uno (il dottor Akbar è l’unico archeologo del team).

Infine abbiamo i risultati delle analisi geofisiche: vari metodi prospettici sono stati integrati per giungere a delle conclusioni il più affidabili possibile, come spiegano gli stessi ricercatori. Purtroppo però anche in questo caso non si capisce come si passi dall’osservare delle anomalie, all’interpretarle come cavità (quindi dei vuoti), per identificarle successivamente come camere o tunnel artificiali. Certo, se si intendesse camere magmatiche e tunnel di risalita della lava, ancora una volta, tutto avrebbe perfettamente senso dal momento che ci si trova all’interno di un vulcano. Ma per qualche motivo, forse fin troppo palese ormai, tutto è automaticamente associato all’opera dell’uomo senza necessità di ulteriori approfondimenti.

Nonostante l’articolo si concluda con l’auspicio di proseguire le ricerche e gli studi per acquisire sempre maggiori informazioni e avere un quadro sempre più dettagliato del sito, il lavoro del team di Natawidjadja sembra essere già balzato in maniera definitiva alle conclusioni meno attendibili.

Il ritiro

Sorprendentemente (o forse no) a marzo 2024 l’articolo è stato ritirato. La rivista ha avviato un’indagine interna, al termine della quale i capi di redazione, in accordo con esperti in geologia, archeologia e datazione al radiocarbonio, hanno accertato che l’articolo proponesse evidenze e conclusioni errate, decretandone l’immediato ritiro. È ancora disponibile e consultabile sulla Wiley Online Library, quindi si può interamente leggere e analizzare in ogni sua parte, ma insieme al titolo campeggia la dicitura RETRACTED

La nota, che motiva pubblicamente tale scelta, evidenzia la fallacia metodologica delle datazioni al C14: i campioni organici presi in esame provenivano da suoli a cui non era associato alcun reperto antropico. Quindi in sostanza non si applicano in alcun modo all’ambito archeologico, perché sarebbe come datare un po’ di terra presa a caso da qualunque giardino. Viene inoltre aggiunto che interpretare il sito come “una piramide costruita più di 9000 anni fa o oltre” sia semplicemente “non corretto”.

La questione che apre tale vicenda ha davvero grande impatto e rilevanza nella comunità scientifica e nel suo dibattito, dal momento che pone inevitabilmente una serie di interrogativi.

Come hanno fatto degli esperti del settore a commettere errori metodologici e interpretativi così grossolani? Com’è possibile che affermazioni tanto straordinarie, sulla base di metodi e dati tanto errati, abbiano trovato spazio in una pubblicazione scientifica? O forse Archaeological Prospection è una di quelle riviste predatorie che pubblicano dietro pagamento qualunque contenuto senza verificarlo?

Come è stato possibile?

Innanzitutto sarebbe opportuno valutare in quale settore scientifico si inquadrino gli esperti in questione: i firmatari del paper sono quasi tutti geologi, con solo un archeologo all’appello. Va da sé che, per quanto le metodologie applicate siano valide al fine dell’acquisizione di dati geologici, non permettono di formulare interpretazioni e trarre conclusioni da un punto di vista archeologico, come invece è avvenuto. Con una “invasione di campo” in pratica, dei geologi hanno svolto (inopportunamente) il lavoro degli archeologi.

Va in secondo luogo considerato l’impatto socio-politico che avrebbe generato una notizia di tale portata (qualora fosse stata vera) per l’Indonesia. Conservare all’interno del proprio territorio la struttura che detiene il record mondiale di antichità non sarebbe cosa da poco per nessuna nazione. Qualunque Paese vedrebbe favorevolmente un’attenzione di tal senso da parte del mondo, in quanto incrementerebbe il prestigio culturale e le capacità di attrattiva turistica. Ma è soprattutto in termini di “orgoglio nazionale” che si presentano i maggiori rischi di strumentalizzazione storica, ai quali non sono immuni nemmeno gli stessi addetti ai lavori nel momento in cui si presenta la possibilità di costruire e narrare un’identità in grado di ingenerare fierezza e senso di “riscatto” culturale. È infatti facile immaginare come le istituzioni indonesiane abbiano supportato e salutato con favore lo studio, dal momento che, sebbene gli autori specifichino di non aver ricevuto finanziamenti pubblici, nei ringraziamenti vengono inclusi i nomi di personalità di spicco dell’esercito e di un ministro.

…Mentre un ringraziamento speciale viene riservato a Graham Hancock, uno dei personaggi mediatici associati alle pseudoscienze più in vista del globo. Qual è stato il suo ruolo in questa vicenda? Il giornalista, che durante il confronto dal vivo con l’archeologo Flint Dibble ha criticato duramente il ritiro del paper giudicandolo un attacco personale al proprio lavoro, avrebbe revisionato la bozza dell’articolo. Non solo, viene anche ringraziato dagli autori per aver portato all’attenzione internazionale il sito di Gunung Padang, includendolo nella prima puntata del suo controverso show Ancient Apocalypse, distribuito da Netflix nel 2022. 

Anche da questo particolare emerge quanto l’orgoglio di veder “nobilitato” un pezzo del proprio passato possa far slittare in secondo piano il corretto approccio scientifico. Affidare la correzione della stesura di un paper archeologico a un personaggio noto al grande pubblico per le sue affermazioni pseudo-archeologiche è quanto di più anti-scientifico possa accadere. A questo punto è legittimo interrogarsi sull’affidabilità e sulla serietà della rivista in questione.

A onor del vero Archaeological Prospection rappresenta una realtà di tutto rispetto: una rivista scientifica specializzata nell’ambito archeologico e storico, ben accreditata presso la comunità scientifica e con un buon ranking. Gli articoli che pubblica vengono ampiamente citati nel settore e risultano regolarmente sottoposti a revisione paritaria. Anche il paper sulla “piramide” di Gunung Padang naturalmente ha dovuto affrontare questa fase. Infatti, proprio nella motivazione connessa al ritiro, gli editori aggiungono che gli errori di cui sopra “non sono stati identificati durante la peer review”.

La scienza è salva?

Se nemmeno il metodo della revisione paritaria mette al riparo da rischi di errore o addirittura di derive anti-scientifiche, può sorgere il dubbio circa l’efficacia del metodo scientifico in generale e sull’attendibilità delle dichiarazioni delle comunità scientifiche nei vari ambiti. Come si può dare del ciarlatano a chi promuove visioni “alternative” se poi anche gli esperti commettono sbagli clamorosi e anche le riviste più accreditate pubblicano studi controversi?

Innanzitutto occorre sempre ricordare che la scienza non è depositaria di verità assolute, ma procede per aggiornamenti costanti, derivati da nuovi dati e dalle interpretazioni condivise di questi. Le pubblicazioni prevedono tra l’altro delle tempistiche abbastanza dilatate, portando talvolta alla divulgazione di risultati, pur corretti, ma quando questi appaiono in qualche misura già obsoleti. Ma per quanto episodi come quello di Gunung Padang rappresentino esperienze poco felici che possono minare la fiducia nei confronti della scienza, va tenuto conto che la correzione, il rifiuto e addirittura la ritrattazione di uno studio fanno parte integrante del gioco. È questo che in fondo costituisce il dibattito propriamente detto. La storia del procedere della conoscenza è fatta di idee proposte e messe in discussione e in seguito accettate, rifiutate o ritirate.

D’altro canto va sottolineato che il fenomeno del ritiro di articoli scientifici è in forte crescita negli ultimi anni e si estende a moltissimi ambiti della ricerca. Proprio una filiale di Wiley (la casa editrice di Archaeological Prospection) ha contato nel 2023 il numero di ritrattazioni più preoccupante (Gunung Padang dunque ne è solo un esempio). Alla base di tale problematica si celano ragioni di tipo economico. Le case editrici di riviste open access hanno sostanzialmente bisogno di mantenere in piedi l’attività, quindi sono costrette a pubblicare tanto e a stretto giro. Ciò collide appunto con le tempistiche normalmente previste per i processi di stesura, revisione paritaria e correzione bozze dei paper, che come detto sarebbero molto più dilatati di quanto richiesto dal mercato. Ecco dunque che si predilige la quantità a scapito della qualità, come spesso accade laddove sussistano ingenti spese da fronteggiare per garantirsi un introito.

Per quanto riguarda il caso Wiley, bisogna ribadire che è stata la stessa casa editrice a portare avanti le indagini interne. Moltissimi articoli analizzati, come accennato, sono risultati incongruenti e basati su dati scorretti, incompleti ed elaborati attraverso metodologie errate. Al termine della procedura, la ritrattazione dei paper è stata solo la conseguenza minore per la casa editrice, che ha provveduto, tra l’altro, anche a rimuovere centinaia di figure dal proprio sistema. Anche il caso della “piramide indonesiana di 27.000 anni fa” si inserisce dunque in questo macro-fenomeno. E se da un lato ha costituito una minaccia all’integrità della ricerca archeologica, dall’altro quanto meno consola l’esistenza e l’applicazione di meccanismi di tutela e autocorrezione. Insomma, meglio un errore ammesso e rimosso, che tenuto nascosto.

Foto di apertura di Ade lukmanul Haki/iStock