Quando i bisonti correvano sulla Luna
Era l’estate di 175 anni fa; il 21 agosto 1835 il New York Sun avvertì i propri lettori che avrebbe presto ripubblicato un estratto dell’Edinburgh Scientific Journal, con le ultime scoperte dell’astronomo più famoso dell’epoca, John Herschel (a sua volta figlio di un altro grandissimo astronomo, lo scopritore di Urano William Herschel). L’annuncio non destò particolare clamore, ma una settimana dopo, quando iniziarono a susseguirsi gli articoli, scoppiò un vero e proprio putiferio.
Il Sun del 25 agosto raccontava infatti di come John Herschel fosse riuscito a montare un gigantesco telescopio al Capo di Buona Speranza, con il quale aveva potuto “stabilire una nuova teoria per le traiettorie delle comete e osservare nuovi pianeti al di fuori del sistema solare”; ma, soprattutto, scandagliare con precisione la superficie lunare, sulla quale aveva trovato segni di vita intelligente! Dopo l’annuncio di un fatto così sconcertante, l’articolo proseguiva con una serie di spiegazioni tecniche sulla costruzione del telescopio, di come si fosse riusciti a fare in modo che gli oggetti ingranditi fossero comunque luminosi tramite l’inserimento di una seconda lente, e di come l’impresa avesse avuto tra i finanziatori lo stesso principe d’Inghilterra. Il tutto si concludeva promettendo, per i giorni successivi, ulteriori novità.
Nelle edizioni seguenti le rivelazioni si succedettero, sempre più strabilianti. Il secondo articolo raccontava dei mari e delle praterie lunari, con la loro flora. Nel terzo si descriveva la fauna, fra cui alcune specie di bisonti, e degli strani unicorni azzurri. Nel quarto fecero la comparsa gli uomini intelligenti, dal pelo arancio come quello degli oranghi, che vivevano in palafitte e conoscevano l’uso del fuoco. A fianco di questi si descriveva una specie più evoluta di “uomini pipistrello”, denominata “Vespertillo Homo”, dai modi più raffinati e dalle alte costruzioni. Nel quinto e nel sesto articolo si analizzava ulteriormente la civiltà degli uomini pipistrello, descrivendo un anfiteatro color zaffiro abbandonato, e il loro stile di vita, decisamente “bucolico”.
Tutti gli articoli erano firmati dal Dr. Andrew Grant, sedicente assistente dell’illustre astronomo. Inutile dire che non esisteva nessun Dr. Grant, e che John Herschel – che in effetti all’epoca si trovava davvero al capo di Buona Speranza, per osservare il transito di Mercurio sul disco solare – era all’oscuro di tutta la vicenda. I lettori però ci credettero, e l’impressione e i dibattiti suscitati dagli articoli furono enormi. La notizia travalicò persino i confini nazionali, arrivando in Europa: fra le vittime illustri ci fu François Arago, presidente dell’Accademia delle Scienze francese. Anche in Italia uscì un opuscolo con le traduzioni degli articoli del Sun; la cosa interessante è che, nella migliore tradizione delle leggende metropolitane, il libello italiano aggiungeva dettagli e particolari originali.
Fra i “debunkers” che cercarono di smontare la notizia ci fu anche Edgar Allan Poe, all’epoca giornalista, che pubblicò un’analisi punto per punto delle affermazioni del Sun, accusandoli di aver copiato un suo precedente racconto di fantascienza. Ma – cosa che forse dovrebbe fare riflettere – sembra che i cittadini di New York preferissero ascoltare le improbabili storie del Sun piuttosto che dare retta ai ragionevoli argomenti esposti da Poe. Il diretto concorrente del Sun, il New York Herald, accusò Richard Adams Locke, un giornalista appassionato di ottica e di astronomia, di aver orchestrato la bufala con il solo scopo di aumentare la tiratura del suo giornale; e in effetti il Sun, che allora era solo un piccolo giornale, aumentò a dismisura la propria tiratura, rimanendo stabilmente a un numero maggiore di copie vendute anche quando divenne evidente la natura “bufalina” degli articoli. Insomma, tutta l’operazione potrebbe essere definita come un esempio di “marketing virale” ante litteram.
Lo stesso Herschel si dimostrò dapprima divertito dalla vicenda, quindi contrariato, infine decisamente scocciato di dover ripetere in ogni occasione pubblica la sua estraneità ai fatti. A poco a poco la storia si sgonfiò, e la “Great Moon Hoax” rimase a lungo la più riuscita burla mediatica della storia giornalistica.
Probabilmente il suo successo si deve anche al fatto che la possibilità di vita sulla Luna era, a quei tempi, un tema molto dibattuto: se da un lato la chiarezza della forma lunare durante le eclissi faceva pensare al fatto che non ci fosse atmosfera, e quindi neanche la vita, dall’altro schiere di astronomi e filosofi erano più che convinti dell’esistenza di abitanti sul nostro satellite. Lo stesso matematico Fredrich Gauss aveva proposto la costruzione di un enorme triangolo nella tundra, in modo da segnalare ai lunari la nostra presenza. La verifica di ciò che c’era effettivamente sulla Luna sembrava allora una sfida lontana e impraticabile: una sfida che però l’umanità, con l’epoca eroica della conquista spaziale, ha vinto, permettendoci finalmente di sapere molte cose sulla natura del nostro satellite, che 175 anni fa, all’epoca degli “uomini pipistrello”, ancora ignoravamo.
Immagine da Wikimedia Commons, pubblico dominio.
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Una burla simpatica e poco nota la fece un paio d’ anni fa una trasmissione di Mediaset (scusatemi se non ricordo il titolo) concorrente di Voyager ma con un taglio più scettico (c’era Cecchi Paone tra i redattori) sul ritrovamento dei resti di un drago, con tanto di vescica in grado di produrre gas infiammabili da espellere per via orale. Il tutto presentato in modo abbastanza credibile e con la complicità di un paleontologo anglo-americano, mi pare. Io, da credulone quale sono, ci sono cascato per metà durata, poi mi insospettii per la troppa abbondanza di prove scientifiche prodotte (troppe per non essere stata segnalata prima da riviste specifiche) e, soprattutto, perché credo nei draghi, ma come creature non appartenenti al nostro mondo, e, quindi, non soggette a lasciare traccie del corpo. A fine trasmissione i conduttori rivelarono di aver fatto lo scherzo per dimostrare quanto sia facile bufaleggiare e pseudoscientificheggiare. Il problema è proprio questo: riuscire a far durare le bufale per anni o, addirittura, per decenni.
Se non erro su un numero di LeScienze del 2004 o 2005 c’era un articolo dettagliato sulla vicenda.
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