Sport: la superstizione aiuta. O no?
Abbiamo già accennato su queste pagine al fenomeno della superstizione nello sport. A colpo d’occhio, sembra evidente che presunti riti tribali e semplici amuleti non hanno condizionato le prestazioni di coloro che ne avrebbero fatto uso durante gli ultimi mondiali di calcio. Tuttavia chi segue i più svariati sport, anche fuori dall’ambito calcistico, è abituato a vedere strani comportamenti di alcuni personaggi di spicco. Pensiamo a Valentino Rossi, che si accovaccia sempre e solo alla sinistra della propria moto prima di ogni gran premio, o a Michael Jordan che indossava come portafortuna la maglietta della squadra del college sotto l’uniforme ufficiale della propria squadra. Tiger Woods indossa una maglietta rossa nelle gare di domenica, in genere l’ultimo e il più importante giorno dei tornei. Personaggi che hanno dominato o dominano a tutt’oggi nei rispettivi sport, al punto che il solo nominare quegli sport fa subito pensare a loro.
Bene, sono quei riti e quelle superstizioni ad averli consacrati nella Hall of Fame del motociclismo, del basket o del golf? E anche se tali comportamenti non fossero stati determinanti, è possibile che abbiano avuto qualche influenza positiva o il successo è un frutto esclusivo del loro talento straordinario?
Negli anni la psicologia ha tentato di dare risposte a quesiti di questo genere, anche in ambito diverso da quello sportivo. Infatti, i primi studi mirati a categorizzare la diffusione di riti e superstizioni sono dei primi decenni del secolo scorso, per arrivare a quelli degli anni ’70-’80-’90 volti a determinare più precisamente l’influenza di determinate credenze e comportamenti sulle prestazioni degli atleti.
Fin dagli anni ’40 un famoso esperimento dello psicologo americano Burrhus Frederic Skinner della Indiana University ha gettato le basi per definire l’origine della superstizione. Skinner dispose una serie di piccioni in una gabbia dotata di meccanismi automatici in grado di distribuire cibo ad intervalli regolari, del tutto sconnessi dal comportamento degli uccelli. Osservando il comportamento dei pennuti, scoprì che associavano l’evento di distribuzione del cibo alle azioni compiute al momento stesso in cui la macchina forniva il becchime e quindi ripetevano lo stesso comportamento. L’esperimento di Skinner è ben riassunto dalla definizione di Stuart Vyse, docente di psicologia dell’Università del Connecticut, che nel libro Believing in Magic: The Psychology of Superstition (Oxford, 1997) afferma:
“una verità universale in quanto alla superstizione è che i comportamenti superstiziosi emergono come risultato di un’incertezza di circostanze intrinsecamente casuali o incontrollabili.”
È bene specificare che la distinzione tra rituali e superstizioni è sottile e talvolta ambigua. Una definizione calzante di J. L. Bleak e C.M. Frederick C. M. descrive la superstizione nello sport come:
“azioni ripetitive, formali e sequenziali distinte dalle performance tecniche e che gli atleti credono conferiscano il potere di controllare la fortuna o altri fattori esterni.”
Introducendo un recente studio sugli effetti della superstizione nello sport, la psicologa Lysann Damisch dell’università di Colonia ha affermato che gesti di routine (come i classici tre palleggi che spesso i giocatori di basket eseguono prima di un tiro libero, oppure lo swing a vuoto dei golfisti prima di colpire la pallina) possono migliorare le prestazioni, ma rimangono distinti dalle superstizioni propriamente dette. Secondo la dottoressa, infatti, i rituali funzionano perché aiutano a concentrarsi sul proprio obiettivo e a rendere più naturali certe sequenze motorie, senza necessariamente incrementare la fiducia nelle proprie capacità. Le superstizioni hanno qualcosa di diverso: un attributo magico conferito loro da parte di chi ci crede. Lo studio condotto da Lysann Damisch è stato recentemente pubblicato sulla rivista Psychological Science e, a detta dell’autrice, dimostra i miglioramenti nelle performance atletiche legati alle superstizioni, identificando i meccanismi psicologici che li causano. Per cercare di provare tale ipotesi, con l’aiuto dei colleghi Barbara Stoberock e Thomas Mussweiler, la psicologa tedesca specializzata in ambito sportivo ha organizzato quattro diverse prove cui sono stati sottoposti 36 volontari.
La prima prova prevedeva dieci tiri con una mazza da golf. Alcuni dei concorrenti venivano dotati di palline descritte come “fortunate”, ai rimanenti era sottolineato che le palline erano tutte uguali. Il primo gruppo di partecipanti ha ottenuto una media di 6,42 successi, da confrontarsi con la media di 4,75 buche centrate dal secondo gruppo. In media, insomma, le palline spacciate per fortunate hanno aumentato la performance del 35% rispetto al campione di controllo.
La seconda prova era un test di abilità motoria. Ciascun partecipante era invitato a far rotolare dentro opportuni fori 36 palline contenute in un cubo di plastica trasparente da maneggiare. Ad alcuni partecipanti veniva detto “premo i pollici per te” (l’equivalente tedesco di ”incrocio le dita per te”). Questi hanno impiegato in media poco più di 3 minuti per portare a termine la prova, mentre i soggetti del campione di controllo hanno impiegato in media circa 5 minuti e mezzo.
Il terzo test era rappresentato dal tipico “memory” o gioco delle coppie. I partecipanti erano incaricati di cercare la corrispondenza tra coppie su un totale di 18 carte. A tutti i soggetti coinvolti veniva chiesto di portare un amuleto o portafortuna, ma solo a metà di loro veniva restituito prima delle prova. Inoltre, a tutti si chiedeva di esprimere il proprio stato di tensione e di fiducia nelle proprie capacità di portare a termine la prova. I volontari dotati di portafortuna hanno ottenuto risultati migliori, confermati dalla maggior fiducia espressa. Per quanto riguarda i partecipanti del gruppo di controllo, su di essi è stata verificata l’assenza di effetti da “ansia da separazione”, dal momento che nessuno dei partecipanti ha dichiarato uno stato di ansia legato alla mancanza del portafortuna.
Il quarto esperimento si svolgeva in condizioni simili al terzo, ma su un diverso campione di volontari. Ai volontari era chiesto di esprimere il maggior numero possibile di parole avendo otto lettere a disposizione. Prima, però, si chiedeva di definire la propria fiducia nella possibilità di successo e di stimare quante parole avrebbero potuto ottenere. Le persone dotate di portafortuna hanno dimostrato una maggiore caparbietà (12 minuti prima di “arrendersi”, contro i 7 del campione di controllo) e hanno trovato circa il 50% di parole in più. Analisi statistiche hanno dimostrato che il risultato migliore è legato alla maggior fiducia nelle proprie capacità e non alle migliori aspettative di successo. Quest’ultimo test è stato condotto per dimostrare che le persone che credono alla fortuna sono motivate a battersi di più e a fissare obiettivi più ambiziosi.
La dottoressa Damisch è decisa a continuare i suoi studi sull’influenza della superstizione sulle performance degli atleti, cercando di chiarire il meccanismo psicologico alla base dell’incremento prestazionale. L’ipotesi da provare è che rituali e superstizioni siano capaci di incrementare la fiducia nelle proprie capacità creando l’illusione del controllo, secondo il concetto noto in psicologia come locus of control.
Di primo acchito, dunque, al di là delle motivazioni che spingono una persona a credere in gesti ed abitudini di tipo superstizioso, lo studio sembra provare l’efficacia di tali comportamenti. Significa che la superstizione ha effetti benefici sulle prestazioni di uno sportivo? È bene che un atleta – al pari di un allievo alle prese con gli esami o una persona a un colloquio di lavoro – sia convinto dei poteri di amuleti o portafortuna? Secondo le ricerche della dottoressa Damisch sembrerebbe di sì. Nonostante i dati paiano inconfutabili, sorge spontanea una semplice considerazione, che ha più a che fare con la logica che con lo scetticismo o la psicologia: perché si deve considerare l’incremento di prestazioni legato alla presenza di portafortuna come un di più e non si considera, invece, il contrario come un di meno?
Si tende, insomma, a vedere il proverbiale bicchiere mezzo pieno, quando il miglioramento di prestazioni legato a una convinzione potrebbe essere un vantaggio fittizio, pronto a tramutarsi in uno svantaggio reale qualora la propria convinzione fosse disattesa. Sicuramente nella storia dello sport ci sono stati campioni capaci di eccellere soltanto con il talento e la preparazione, senza ricorrere a questi stratagemmi. Al contrario, è possibile che gli atleti superstiziosi abbiano avuto delle difficoltà nei casi in cui si sono visti mancare la forza delle convinzioni superstiziose. Insomma, per richiamare uno degli esperimenti della dottoressa Damisch, viene naturale chiedersi se quei golfisti, per esempio, abbiano ottenuto il 35% di successi in più grazie ai portafortuna oppure se quelle non siano altro che le loro normali capacità, che possono crollare del 26% quando viene a mancare la convinzione in un portafortuna.
Possiamo, infine, fare un parallelismo con un argomento ben noto alla comunità scientifica. Le conclusioni di questa ricerca descrivono l’effetto della superstizione come qualcosa di molto simile all’effetto placebo osservato in medicina. Se non classifichiamo come farmaco una pillola di zucchero che ha dato riscontri sperimentali positivi grazie all’effetto placebo, allo stesso modo non c’è motivo di considerare le superstizioni come un aiuto oggettivo per gli atleti.
Foto di Michal Jarmoluk da Pixabay
Bell’ articolo. Per la prossima Giornata della Superstizione consiglierei di dotare di un porta fortuna metà dei gruppi CICAP impegnati per vedere se la loro giornata riesca meglio della metà di gruppi CICAP privati del portafortuna. I portafortuna devono essere solo quelli provati scientificamente: ciondoli con il 13 dorato, cornetti di corallo napoletani, ferri di cavallo.
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Ottima idea Aldo, noi abruzzese faremo la parte di quelli privi…