Il terzo occhio

Le rocce erratiche della Racetrack Valley

C’è un luogo al mondo dove si verifica un fenomeno apparentemente semplice e tangibile, al quale però nessuno scienziato è riuscito a dare una spiegazione definitiva. Si tratta della Racetrack Playa, una pianura che trova posto tra i rilievi della Death Valley (la Valle della Morte), in California. L’arida pianura è “popolata” da numerose rocce che, a dispetto della loro apparente immobilità, hanno tracciato negli anni inconfondibili scie (da cui prende il nome il luogo) che ne testimoniano spostamenti ben visibili. Il fenomeno ha da sempre destato l’interesse di svariati scienziati e cultori, incuriositi ed affascinati dal carattere erratico delle Sailing o Walking Rocks (letteralmente, le rocce che veleggiano, o camminano), caratteristica fino ad oggi non del tutto spiegata eppure imputata a condizioni naturali difficili da individuare.

La variabilità nelle forme delle tracce lasciate sul terreno, talvolta convergenti o zigzaganti in modo non coerente tra loro, ha generato un’autentica caccia alla spiegazione più logica e plausibile. Si tratta di un fenomeno i cui effetti sono ben visibili, ma il cui sviluppo è irregolare nel tempo; le rocce si muovono infatti ogni due o tre anni e si è stimato che ogni traccia richiede alcuni anni per formarsi nella sua lunghezza (che in alcuni casi raggiunge diverse centinaia di metri), senza alcun intervento umano o animale e in assenza di pendenza. Quali teorie hanno prodotto gli studiosi del fenomeno nell’arco degli anni e perché sono state reputate come spiegazioni insoddisfacenti?

La prima teoria che ha goduto di un certo credito è da attribuirsi a George M. Stanley, geologo del dipartimento di geologia e geografia del Fresno State College, California, che nel 1955 pubblicò un articolo nel quale l’evento veniva spiegato come una conseguenza delle particolari condizioni meteorologiche del luogo. Secondo tale teoria, infatti, le piogge invernali e primaverili che investono la Racetrack Playa – scarse su scala annuale, ma capaci di allagare la zona per brevi periodi – portano alla formazione notturna di lastre di ghiaccio che, sospinte dai venti di notevole intensità che nello stesso periodo spazzano la pianura da Sud-Est, trascinano le rocce. Di fatto, nella stagione invernale e nei primi mesi di primavera, la temperatura scende sensibilmente sotto lo zero mentre la velocità raggiunta dal vento al suolo supera le 90 miglia orarie (circa 145 chilometri orari). Stanley non trovò evidenza dell’azione diretta del vento sulle rocce, concludendo che, nonostante l’elevata intensità, le raffiche non sarebbero state capaci di spostare le rocce più pesanti, che superano i 300 chilogrammi.

Circa dieci anni più tardi, nel 1976, Bob Sharp e Dwight Carey, rispettivamente geologi del California Institute of Technology di Pasadena e della University of California di Los Angeles, discussero la teoria di Stanley. Lo studio delle tracce di circa 30 rocce effettuato nell’arco di sette anni confermò la bontà delle ipotesi di Stanley per alcune delle rocce, ma si rivelò insufficiente per spiegare il movimento delle altre. I movimenti incongruenti di queste ultime, con vistosi cambi di direzione e di distanza raggiunta nei medesimi tempi, suggerì infatti che lo spostamento non potesse essere sempre e solo imputabile all’azione del ghiaccio. Quest’ultimo aspetto, insomma, lasciò aperto il problema dello spostamento delle rocce in assenza di ghiaccio. Secondo i due scienziati, in assenza di ghiaccio in grado di imprigionare e sospingere le rocce, l’argilla depositata dopo il ritiro delle acque piovane avrebbe favorito lo scivolamento delle rocce ad opera del vento. I geologi stimarono una velocità di spostamento di 0,5-1 metri al secondo. I risultati della ricerca di Sharp e Carey sono ben riassunti da questa dichiarazione:

Si è concluso che il vento muove le rocce quando le condizioni sono opportune, che questo accade nella Racetrack Playa almeno una volta ogni tre anni, e che la presenza di strati di ghiaccio non è necessaria.

Vent’anni dopo, nel 1994, la teoria di Stanley ritrovò stima nelle considerazioni di John B. Reid, geologo dell’Hampshire College. Sperimentando le condizioni di spostamento delle rocce sul terreno, Reid concluse che l’attrito prodotto sarebbe stato troppo elevato per giustificare lo spostamento delle rocce ad opera del solo vento. Di fatto, le prove sul campo dimostrarono che per muovere una pietra cubica di 20 chilogrammi è necessario un vento di 180 miglia orarie al suolo (circa 290 chilometri orari), un’intensità improbabile e comunque insufficiente per produrre lo spostamento delle rocce più grandi. Venne dunque riaccreditata l’ipotesi delle rocce imprigionate e trascinate dalla lastra di ghiaccio. L’orientamento irregolare delle tracce delle rocce più piccole venne giustificato con l’ipotesi della frantumazione a lungo termine della lastra di ghiaccio in pezzi di minor dimensione, in grado di deviare il percorso dei monoliti più leggeri. A supporto di questa teoria, infatti, Reid osservò come le tracce fossero sempre parallele in principio, per poi curvare nel tempo.

Nei due anni successivi, Sharp e Carey ripresero la ricerca di Reid, sostenendo però le loro tesi iniziali. Alla fine, i tre ricercatori convennero che la soluzione più plausibile doveva tenere in considerazione tutte le ipotesi formulate – compresa quella in cui era contemplata la presenza di limo argilloso in luogo delle lastre di ghiaccio – ammettendo che potevano esservi altri meccanismi responsabili del fenomeno, oltre a quelli spiegati:

Detto ciò, siamo d’accordo con le asserzioni di Sharp e Carey per cui due meccanismi separati spiegano lo scivolamento nella Racetrack. Ve ne sono degli altri?

Questo è l’interrogativo rimasto aperto fino ad oggi. Dal 1996 molti dati sono stati raccolti, monitorando lo spostamento delle rocce grazie alle tecnologie che si sono evolute nel frattempo. Nel 1997, ad esempio, l’intera zona è stata mappata con strumenti GPS.

Recentemente il problema delle rocce della Racetrack Valley è stato esaminato anche da un team costituito dal Goddard Space Flight Center (GSFC) della NASA. L’equipe è composta da un gruppo di diciassette laureandi e dottorandi coordinati dalla ricercatrice Cynthia Cheung. Con l’ausilio di sensori interrati e apparecchiature GPS, il gruppo di ricercatori ha effettuato dei rilievi ortografici e ambientali. Nessuna anomalia magnetica è stata rilevata, tantomeno sono stati rilevati segnali di radioattività. Curiosamente, è stato rilevato che il verso di percorrenza delle tracce è spesso in salita, sebbene la pendenza del terreno sia quantificabile in circa un pollice su un’estensione di 4.5 miglia (equivalente ad un centrimetro ogni 2.85 chilometri circa). Sono state inoltre individuate tracce prive di rocce al loro termine, caratteristica già osservata e spiegata in passato con lo sprofondamento del monolite nell’argilla fangosa (si stima che lo spessore dello strato argilloso raggiunga i 300 metri).

Riprendendo i risultati degli studi precedenti, i ricercatori del GSFC ritengono improbabile che lo spostamento delle rocce avvenga senza l’aiuto del ghiaccio, sebbene la riduzione di attrito ad opera del fondo fangoso giochi un ruolo importante. La teoria originariamente proposta da Stanley è stata accreditata come plausibile spiegazione dello spostamento coordinato di più rocce. Per le rocce il cui tracciato è più irregolare e incoerente, invece, è stata ipotizzata una nuova teoria.

Secondo i ricercatori, l’inerzia termica delle rocce manterrebbe un collare di ghiaccio attorno ad esse al momento dello scioglimento delle lastre di ghiaccio. Tali collari di ghiaccio permetterebbero alle rocce di galleggiare parzialmente sullo strato d’acqua (risultato dello scioglimento dello strato di ghiaccio circostante), potendo – sospinte dal vento – tracciare le caratteristiche scie. Il meccanismo ipotizzato spiegherebbe anche come mai alcune tracce diventano progressivamente più larghe lungo il loro sviluppo: lo scioglimento del collare di ghiaccio abbasserebbe via via il punto di galleggiamento.

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Attività di rilievo effettuate dal team del Goddard Flight Space Center della NASA, da Flickr, licenza CC BY 2.0.

In base ai dati raccolti dai sensori interrati, quest’ultima teoria è in corso di affinamento ed i risultati verranno pubblicati prossimamente. Gli studiosi hanno anticipato che la teoria dei collari di ghiaccio è coerente con i dati raccolti e che la velocità del vento necessaria è meno elevata di quanto sia stato ipotizzato fino ad ora; inoltre le tracce prive di rocce sarebbero state create da formazioni prevalentemente costituite da ghiaccio.

In base ai test condotti dal GSFC, la ricercatrice Leva McIntire della Seattle Pacific University ha proposto un’ulteriore teoria per spiegare lo spostamento delle formazioni rocciose più pesanti. L’ipotesi della ricercatrice si basa sul concetto del rigelo, solitamente associato al movimento dei ghiacciai. Il rigelo è un fenomeno fisico secondo cui il ghiaccio si fonde se sottoposto ad una determinata pressione (che abbassa la temperatura di fusione). Nella fattispecie, la pressione non uniforme applicata al ghiaccio dalla roccia ne determina lo scioglimento; l’acqua defluisce quindi verso il lato opposto della pietra, passando nuovamente allo stato di ghiaccio ed esercitando l’azione di spostamento. Il fenomeno porta alla caratteristica formazione di bolle d’aria nella zona di ricongelamento, bolle che sarebbero state in effetti rilevate nell’argilla in prossimità delle rocce di maggiori dimensioni.

Le moderne tecniche di studio e l’utilizzo di risorse più adeguate, insomma, hanno dato riscontri promettenti alle ipotesi che spiegano questo dilemma scientifico.

La storia fuori dagli schemi di queste rocce e l’ingegno delle persone che hanno concentrato i loro sforzi per comprendere la natura dei loro movimenti continuerà ad affascinare anche dopo che tutte le ipotesi saranno state vagliate e le soluzioni trovate. L’apparente semplicità del problema ci mette di fronte a quali siano gli ostacoli che si incontrano quando dobbiamo mettere in pratica il metodo scientifico per capire e giustificare razionalmente un fenomeno.
Quando le condizioni ambientali sono difficilmente riproducibili, le risorse limitate, ma soprattutto l’osservazione e la documentazione diretta del fenomeno sono rese complesse dall’imprevedibilità con la quale esso si verifica, possiamo farci un’idea del perché molte persone si arrendano ad una spiegazione sovrannaturale di fenomeni ancor meno tangibili.
Le rocce della Racetrack Valley si muovono in un campo relativamente limitato, approssimativamente bidimensionale, in tempistiche apprezzabili da un essere umano. Ciò nonostante più di 50 anni di teorie geologiche non hanno ancora completamente spiegato la fisica che rende così suggestivo il loro movimento, pur essendo nota la sua origine naturale.

Foto di Tahoenathan da Wikimedia Commons, licenza CC BY-SA 3.0.

4 pensieri riguardo “Le rocce erratiche della Racetrack Valley

  • Wow che discussione interessante!  Credevo di essere su un sito di scienza e non su Novella 2000

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  • Gianni, lo sei. Quello a cui ti riferisci è un thread su FriendFeed, partito dall’articolo in questione e finito in cazzeggio, come la maggior parte delle discussioni che si fanno fra amici.

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  • Ok, in effetti dopo ho capito che si trattava di un feed esterno e non dei commenti all’articolo 🙂
    Però mi sarebbe piaciuto qualche parere un pò più costruttivo.

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  • ogni volta che succede una cosa del genere  parlati dei alieni…ma come fatte….

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