Le palle che cadono. Dal cielo
Nella giornata di ieri, 22 dicembre 2011, una notizia riguardante una “palla caduta dal cielo” è rimbalzata su diversi quotidiani nazionali e no. Una foto dell’oggetto è stata pubblicata nei diversi articoli e riprende un curioso oggetto sferico posato sul terreno di quello che, si legge, è il deserto della Namibia. L’oggetto viene descritto con apparente precisione: una sfera pesante circa 6 chilogrammi, “con un diametro di circa un metro” secondo alcune fonti o di 14 pollici (35.6cm) secondo altre. Al momento del ritrovamento, verso la metà di novembre, la sfera giaceva ad una distanza di circa 18 metri da un cratere profondo 30 centimetri e largo quasi 4 metri. Esaminato dalle autorità locali per fugare ogni dubbio relativo alla sua pericolosità, l’oggetto è stato quindi presentato ai media ed è stato chiesto un consulto alle agenzie spaziali europea (ESA) e americana (NASA).
Ora, si possono tranquillizzare tutti coloro che avessero eventualmente riconosciuto in questo oggetto un segno di chissà quale misteriosa tecnologia di origina umana o aliena. Per quanto esso abbia un aspetto effettivamente misterioso a occhi inesperti, ho avuto modo di venire in contatto diverse volte con oggetti di questo tipo, lavorando nel settore spaziale. Si tratta infatti di un serbatoio pressurizzato adibito all’alimentazione di propulsori per il controllo d’assetto di veicoli spaziali, come satelliti o veicoli destinati al rientro atmosferico. Gli elementi che lo rendono riconoscibile a chi è del settore o ha una minima conoscenza di serbatoi pressurizzati, sono la classica saldatura delle due semisfere che lo compongono – dove trova sede il setto deformabile di separazione tra i due volumi interni di propellente (in genere idrazina o elio) e gas pressurizzante (solitamente azoto) – e le due estremità dove vengono fissati i condotti per il carico e lo scarico di propellente e pressurizzante. Pesi e dimensioni riportati (per quanto imprecisi) sono compatibili con questi componenti: 6 chilogrammi sono un peso ragionevole per taniche in lega di titanio dal volume compreso tra i 60 e i 100 litri (48÷59cm di diametro).
Non è tra l’altro l’unico caso che riguarda simili ritrovamenti. Negli anni diversi serbatoi sono stati recuperati in zone disabitate o desertiche e ciò non è un caso. La spiegazione è semplice e non c’è di che allarmarsi: non si tratta di avvenimenti incontrollati né frutto di leggerezze.
Quando un veicolo spaziale che orbita attorno alla Terra termina la sua vita operativa, se ne dispone il de-orbiting. Viene cioè speso il propellente residuo per “imboccare” una traiettoria di rientro atmosferico, fase nella quale la quasi totalità del veicolo viene disintegrata dall’attrito sviluppato dai gas atmosferici alle altissime velocità. Qualche tempo fa ne abbiamo parlato anche qui, nel caso di UARS.
È una fase necessaria, per evitare che veicoli privi di controllo rimangano in orbita mettendo a rischio gli altri satelliti presenti e futuri. Scegliere il momento esatto per effettuare la manovra di de-orbiting, anziché lasciarlo fare al caso (ciò che si trova a distanze inferiori ai 36000km dalla Terra prima o poi è destinato al rientro per effetto combinato di gravità e resistenza aerodinamica), significa anche scegliere una zona di possibile caduta dei detriti residui in zone disabitate, coperte dalle acque o desertiche.
Le strutture spaziali sono solitamente piuttosto esili, per esigenze di peso al “lancio” (la fase di ascesa che porta il veicolo al di fuori dell’atmosfera e dunque in orbita), ma vi sono alcuni componenti che necessitano di una robustezza particolarmente elevata per la funzione che ricoprono. Le taniche di propellente sono forse l’esempio più eclatante: dovendo resistere a pressioni nell’ordine delle decine di atmosfere, vengono realizzate in materiali robusti (leghe di titanio, di alluminio o acciai, talvolta fasciati in compositi di fibra di carbonio e/o kevlar) e con spessori consistenti.
I componenti più robusti possono sopravvivere al rientro in atmosfera, tra questi in particolare i serbatoi, come nel caso specifico della tanica recuperata – non a caso – nel deserto della Namibia.
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Mistero risolto, allora. Una curiosità: c’è qualche modo per capire quale sia esattamente il satellite (o altro velivolo) che ha “perso” il serbatoio? Si può trovare qualche sigla o segno distintivo che possa identificarlo univocamente?
ma se si tratta della sonda russa che ha fallito la missione, i serbatoi non contenevano idrazina? che sarebbe molto tossica…
Pur nello scetticismo che si possa riuscire sempre ad evitare che questi OVBI (Oggetti Volanti Ben Identificati) caschino in testa a qualcuno, auguro a tutti che, almeno domani e dopodamani, non Vi caschino neppure le palle dall’ Albero di Natale.
Dalle foto e davvero difficile dire di che satellite si tratta. Non è detto che vengano apposti dei simboli di riconoscimento: non si usano targhette, al massimo qualche codice verniciato che però è pressoché impossibile che sopravviva al rientro. La tanica che si vede in foto ha attraversato l’atmosfera raggiungendo temperature notevoli soprattutto in superficie, che è risultata consumata.
Il riconoscimento è perciò fattibile solo conoscendo l’orbita del veicolo. Ci sono siti che tracciano le orbite (come n2yo.com) ma non è detto che seguano le orbite modificate per favorire il rientro dell’oggetto.
Quanto al contenuto, la quota di idrazina residua difficilmente non è esplosa, questo perché a temperature relativamente basse (70-75°C) si ha l’autoiniezione anche con urti o scossoni modesti.
L’idrazina, comunque, è molto tossica e va maneggiata con le dovute precauzioni, ma ad esempio è ben “neutralizzata” dall’acqua e perciò se le taniche cadono in acqua e le valvole hanno ceduto il rischio è davvero minimo.
La sonda Phobos Grunt rientrerà nei primi giorni di gennaio, pertanto la tanica ritrovata in Namibia non fa parte del veicolo russo.
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