Il Tredicesimo apostolo tra storia e fanta-storia
A partire da mercoledì 4 gennaio, Canale 5 trasmetterà una nuova fiction liberamente tratta dal Tredicesimo apostolo, thriller scritto dall’ex monaco benedettino Michel Benoît. Riproponiamo di seguito la recensione che a suo tempo facemmo del romanzo, sottoponendo al vaglio della critica alcune affermazioni sostenute dall’autore nell’appendice “storica” alla sua opera. Non è, quindi, nostro scopo criticare un’opera di fantasia quale può essere un romanzo o una fiction, ma solo porre l’accento su ciò che viene presentato come dato storico senza prove a sostegno di tale affermazione.
La trama contiene tutti i classici ingredienti del genere, che possono piacere oppure no, ma questo non è in discussione: protagonista della storia è padre Nil, amico e compagno di studi di padre Andrei, studioso dei testi sacri morto nel corso di un viaggio in treno dal Vaticano a Parigi e dichiarato ufficialmente suicida. Nel corso delle indagini su tale misteriosa morte, Nil scoprirà che Andrei era venuto a conoscenza di una verità contraria alle convinzioni ufficiali della chiesa, che aveva, pertanto, disposto che lo scomodo studioso venisse fatto fuori. Il nucleo centrale della sensazionale scoperta di padre Andrei era un uomo dimenticato dalla storia, un tredicesimo apostolo, che ha subito nei vangeli una “damnatio memoriae”, ma che era il discepolo prediletto di Gesù e il suo successore designato: nel tentativo di riportare alla luce la storia del tredicesimo e più importante tra i componenti del seguito di Gesù, padre Andrei aveva trovato la morte, perché diventato improvvisamente scomodo per la chiesa ufficiale.
Il plot non è particolarmente originale perché si inserisce in un filone già affermato, di cui fanno parte, ad esempio, i romanzi fanta-storici di Dan Brown, ma non è tanto questo che ha appassionato i lettori di Benoît. In calce al romanzo l’autore, che è uno studioso della letteratura cristiana antica, ha inserito un’appendice nella quale dimostrerebbe come buona parte di quanto scritto nel proprio libro in merito al fantomatico “tredicesimo apostolo” rappresenti una verità storica, volutamente occultata, dai vangeli prima, e dalla chiesa cattolica poi. Ma si tratta della verità? Proviamo a rispondere a tale domanda esaminando una per volta le varie questioni.
L’inganno di Benoît: l’incerto dato per certo.
Si sa che la verità storica è, per sua natura, parziale e in divenire e che lo storico non può porsi altro obiettivo che quello di avvicinarsi ad essa senza mai raggiungerla pienamente. I resoconti storici sono pieni di “probabilmente” e di “forse”, parole che di certo non sembrano piacere a Benoît e, in generale, agli autori di instant-books che hanno lo scopo di attrarre l’attenzione del pubblico. Il tono dell’autore del romanzo è, pertanto, sempre perentorio, deciso, come se nulla si potesse obiettare alle sue conclusioni. Di seguito esamineremo, a titolo puramente esemplificativo, alcune affermazioni contenute nell’appendice “storica” del romanzo di Benoît, per metterne in evidenza la debolezza.
Le citazioni dal Tredicesimo apostolo sono tratte dall’edizione economica Piemme, Casale Monferrato 2008.
Quindici apostoli o quindici nomi?
A proposito del numero degli apostoli, Benoît afferma: «Sono giunti sino a noi quattro elenchi dei più vicini collaboratori di Gesù. Quando li si confronta, ci si accorge che essi fanno menzione di quindici apostoli: Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni di Zebedeo, Filippo, Bartolomeo, Tommaso, Matteo, Giacomo d’Alfeo, Lebbeo, Taddeo, Giuda di Giacomo, Simone e Giuda, ai quali si deve aggiungere Natanaele» (p. 350) . La tesi dell’autore è che la riduzione del numero degli apostoli a dodici sia dovuta ai «baroni» della chiesa, che li avrebbero resi un simbolo del potere del nuovo Israele che si sostituisce a quello vecchio (e ne può giudicare le dodici tribù). Se il collegamento tra il numero degli apostoli e le tribù di Israele è facile e intuitivo, non lo è l’interpretazione di questa circostanza in chiave così tendenziosa. In ogni caso, Benoît fa a meno di dire che non è affatto certo che dietro a questi quindici nomi si nascondano altrettanti apostoli. La posizione ufficiale della chiesa identifica Bartolomeo con Natanaele, Levi con Matteo, e Giuda di Giacomo con Lebbeo / Taddeo. Le identificazioni sono tutt’altro che sicure, ma, in ogni caso, assumere per certo che siano tutte erronee è ingannevole quanto accettarle acriticamente. L’identificazione di Levi con Matteo è sostenuta sulla base di alcuni passi dei vangeli sinottici (quelli di Matteo, Marco e Luca) nei quali è presentata la scena di Gesù che chiama un pubblicano (ossia un esattore delle tasse) a seguirlo. La scena è identica, ma i vangeli di Luca e Marco, invece del nome di Matteo, inseriscono, appunto, quello di Levi, il che ha fatto pensare che si tratti della medesima persona. Alcuni antichi autori, tra i quali Origene, sembrano essere, invece, contrari a questa identificazione. Il caso di Giuda di Giacomo è ugualmente di dubbia soluzione: vi è chi ritiene che Lebbeo e Taddeo siano suoi soprannomi, perché il loro significato sarebbe quasi sinonimico in aramaico. I due nomi deriverebbero da “taddajja” (=petto) e “libba” (=cuore), venendo, perciò, secondo taluni, ad indicare un “Giuda dal cuore grande”, “Giuda il generoso”, in opposizione al traditore Giuda Iscariota. Nessuna certezza neppure riguardo a Natanaele, citato da Giovanni, e alla sua identificazione con Bartolomeo. Quest’ultimo nome potrebbe essere, infatti, non il vero nome dell’apostolo, ma un patronimico, derivante da “bar Tolmay” (=figlio di Tolmai), per cui Natanaele ne sarebbe, invece, il nome personale. Altri rilevano come i nomi Matteo e Natanaele siano sinonimi (significando entrambi “dono di dio”), pertanto sarebbe questa la corretta identificazione.
Quello che appare certo è che parlare di quindici apostoli a fronte dei quindici nomi consegnatici dalla tradizione è da considerarsi quanto meno approssimativo.
Gesù “nazoreno”?
Ovvero come liquidare in poche, discutibili affermazioni una tra le più complesse questioni filologiche relative al Nuovo Testamento.
Afferma Benoît che il tredicesimo apostolo protagonista del suo libro sarebbe, così come Gesù, membro di una setta di origine essena chiamata dei “nazoreni”; l’appartenenza di entrambi alla medesima setta sarebbe stata, per i due, ulteriore motivo per cementare la propria amicizia e alleanza, oltre a costituire una ragione in più per vedere nel tredicesimo apostolo il successore designato di Gesù.
Per sostenere tale tesi, Benoît, che ritiene il tredicesimo apostolo il vero autore del vangelo di Giovanni, fa osservare che: «Il tredicesimo apostolo, nella parte del quarto vangelo del quale è l’autore, è il solo a menzionare chiaramente l’appartenenza di Gesù ai nazoreni. A due riprese fa dire alle guardie del tempio (inviate per catturare Gesù) che cercano Gesù il nazoreno, re dei Giudei [nota dell’autore a piè di pagina: In greco Nazoràios (Gv 19,19)]» (p. 358). Aggiunge poi: «Nei vangeli sinottici, nazoreno è stato trasformato in nazareno – vale a dire abitante di Nazareth – o anche nazireno, ossia che ha fatto il voto di nazirato. È una delle più sottili manipolazioni degli evangelisti. Era necessario che l’identità nazorena di Gesù non giungesse alla posterità» (p. 358). L’autore continua dicendo che non vi sono prove storiche dell’esistenza della città di Nazareth nel I secolo e che Flavio Giuseppe (storico romano di origine ebraica), che descrive la Galilea, non cita il nome della città.
Poche parole, ma tante inesattezze e molta approssimazione. Ma procediamo con ordine.
Benoît parla di «insistenza» (p. 358) da parte dell’autore del quarto evangelo (quello tradizionalmente attribuito a Giovanni e che lui ascrive al tredicesimo apostolo) sul termine greco nazoràios, che lui interpreta come “membro della setta essena dei nazoreni” (altrimenti detti “nazareni”). I vangeli sinottici avrebbero, invece, manipolato la realtà sostituendo al termine nazoràios il termine nazarenòs, cioè “proveniente da Nazareth”. Questo porterebbe il lettore di Benoît a pensare che nei sinottici sia presente solo la forma nazarenòs e non quella nazoràios, ma questo non è assolutamente vero: oltre che nell’evangelo giovanneo, nazoràios è presente anche nei vangeli di Matteo (2,23 e 26,71) e Luca (18,37). Nazoràios ricorre anche in ben 7 passi degli Atti degli apostoli (in 6 dei quali riferito direttamente a Gesù), che sono strettamente collegati ai vangeli sinottici, perché attributi al medesimo circolo che ha prodotto il vangelo di Luca. È, comunque, vero che in Matteo 2,23 l’epiteto di nazoràios viene semanticamente collegato alla città di Nazareth («e, appena giunto, [Giuseppe] andò ad abitare in una città della Galilea chiamata Nazareth, perché si adempisse ciò che era stato detto dai profeti: “Sarà chiamato Nazareno”»), ma il fatto di parlare di insistenza su tale appellativo solo da parte del vangelo di Giovanni non appare provato sulla base dei testi. Quanto poi alla trasformazione di nazoràios in un termine che faccia riferimento al voto di nazirato o nazireato (di cui parleremo sotto), vorrei sottolineare che non ve n’è traccia nei vangeli, né sinottici né in quello di Giovanni: gli unici termini attestati sono nazarenòs e nazoràios. Ci troviamo, dunque, ancora una volta, di fronte a una grave imprecisione da parte dell’autore del romanzo.
Ma andiamo avanti: siamo del tutto sicuri dell’interpretazione che Benoît fornisce dell’appellativo nazoràios? È provato che si riferisca alla setta essena dei nazoreni o nazareni? In realtà l’interpretazione di nazoràios è una tra le più difficili e controverse della storia del greco cristiano e liquidare la questione come fa l’autore del romanzo, non appare molto onesto nei confronti del suo lettore. Di seguito esaminiamo le principali posizioni a riguardo:
- Vi è chi sostiene con decisione (non solo nell’ambiente cattolico) l’interpretazione dell’appellativo come derivante dal nome della città di Nazareth, nonostante il fatto che la sua forma, in greco, non sembri adatta a esprimere un tal senso. Si ricorda, per inciso, che buona parte degli storici, anche laici, vede oggi in Gesù un nativo di Nazareth o, comunque, della Galilea (l’indicazione di Betlemme, in Giudea, sarebbe solo un modo per collegarlo alla casa di Davide).
- Nazoràios potrebbe, poi, stare ad indicare il voto di “nazireato”, una particolare forma di consacrazione a dio di cui parla l’Antico Testamento (per una descrizione puntuale degli obblighi imposti da questo voto si veda Numeri 6,1-21). La parola sarebbe, pertanto, un tentativo di translitterare in greco un termine ebraico intraducibile: naziyir. La presenza della Y (yod) nella parola ebraica rende, però, praticamente obbligatoria in greco la presenza di una “i” (iota) dopo la “z”. A riprova di ciò, nel testo dei Settanta (la più antica traduzione greca dell’Antico Testamento), il termine naziyir è reso in greco come nazir o naziràios e non come nazoràios. Quest’ultima osservazione farebbe ritenere improbabile il riferimento al voto di nazireato in rapporto a Gesù.
- Nazoràios è stato, altresì, interpretato in chiave messianica, con riferimento alla parola ebraica netser, cioè “virgulto, germoglio”. Come testimoniato dal brano del vangelo di Matteo 2,23 sopra citato, nel quale si parla di una profezia messianica, il termine nazoràios farebbe, quindi, allusione al celebre passo in cui Isaia (11,1) annuncia la nascita di un messia: «Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse». Attribuire a Gesù il titolo di nazoràios, tecnicamente compatibile con la radice di netser, vorrebbe dire identificarlo con il messia di cui parla il passo dell’Antico Testamento.
- Due passi (logion 19 e 47) del vangelo apocrifo di Filippo metterebbero in relazione il termine nazoràios con la parola aramaica che indica la “verità”, che contiene la radice NZR.
- Nazoràioi (plurale di nazoràios) venivano anche definiti i primi cristiani, come attesta un passo degli Atti degli apostoli (24,5), nel quale Paolo è definito «capo della setta dei ‘nazareni’», forse chiamati così proprio con riferimento al senso messianico del termine. Non è, però, chiaro se si distinguessero vari tipi di nazareni, ortodossi e settari.
- Infine vediamo l’unica interpretazione accettata da Benoît, che sorvola su tutte le altre: Gesù è definito nazoràios perché membro della setta dei nazoreni/nazareni. È da rilevare che l’esistenza di tale setta non è altrimenti nota che attraverso Epifanio di Salamina, scrittore del IV secolo (Contro le eresie, 29, 7,9), che usa, però il termine Nasaràioi e non Nazoràioi.
Le spiegazioni possibili sono, quindi, tante e spesso è difficile separarle l’una dall’altra. Benoît non ha, però, alcun dubbio e al suo lettore lascia l’erronea impressione che non ve ne siano.
Sottilineiamo, per inciso, che, nel parlare del complotto anti-nazoreno nel mondo cattolico, Benoît afferma che il Corano parla spesso di naz’ra, che lui intende come i membri della setta essena, lamentando il fatto che la parola venga tradotta come “cristiani”. Forse nell’impeto dell’illustrazione della tesi del complotto, il Nostro dimentica che tale traduzione deriva proprio dal fatto che è noto che nell’ambiente giudaico i primi cristiani erano chiamati Nazoràioi, come ci attesta il passo degli Atti di cui abbiamo detto.
Dalla pseudo-storia alla fiction.
L’ultima parte dell’appendice “storica” è pervasa da un clima che, già dalla prima lettura, mi è parso simile a quello che si respira nelle popolari fiction che la televisione spesso ci propina. L’autore propone la propria ricostruzione della passione di Cristo e del ruolo che vi ebbe il tredicesimo apostolo, giungendo a conclusioni le cui fonti storiche sono quanto meno evanescenti.
Prima di addentrarci nel racconto, è opportuno precisare che Benoît non dice il falso quando smentisce l’identificazione del discepolo prediletto da Gesù con Giovanni detto l’evangelista (Giovanni figlio di Zebedeo). Molti studiosi sono d’accordo nel considerare erronea l’attribuzione del quarto vangelo a Giovanni e nello smentire la sua identificazione con il “discepolo beneamato” più volte citato nel testo stesso: l’errore sta sempre nel dare per certo quello che non lo è, ma, in questo caso, si tratta soltanto di un peccato veniale.
Semplicemente spettacolare è, però, il ruolo che l’autore attribuisce a questo discepolo nell’ultimo tratto della vita di Gesù. Il tredicesimo apostolo sarebbe stato, infatti, il vero mandante dell’arresto di Gesù (Giuda è una semplice pedina nelle sue mani), ma il suo scopo sarebbe stato, in realtà, nobile: proteggere il suo Maestro da una fantomatica insurrezione dei suoi apostoli accecati dal fanatismo (p. 374 ss.). Il suo piano era astuto, ma ha avuto la conseguenza, da lui non prevista, dell’uccisione di Gesù. Le prove di questa complessa ricostruzione storica? Inutile cercarle nel racconto di Benoît e tanto meno nel testo del quarto evangelo.
Tra l’altro, l’autore parla continuamente di “verosimile” e il lettore del suo romanzo, travolto dal suo entusiasmo, legge automaticamente “probabile”, il che non è assolutamente giusto. Le tesi di Benoît possono essere considerate verosimili solo in quanto non parlano di draghi o asini volanti, ma la probabilità storica è ben altra cosa.
La ricerca delle inesattezze storiche nell’appendice del romanzo di Benoît potrebbe durare a lungo, ma credo che gli esempi sopra riportati siano sufficienti a dimostrare il livello della sua ricostruzione storica. Concluderei, invece, sottolineando un’altra astuta strategia adoperata dall’autore per sedurre l’inesperto lettore. Nell’ultima pagina dell’appendice storica (p. 382) parla di risultati «sconosciuti al mondo cristiano», «confidenziali» ai quali la sua ricerca e quella di altri fantomatici studiosi sarebbe pervenuta e che lui, generosamente, condivide con i lettori del suo libro, accecati dalla furia inquisitoria di un establishment cattolico che li avrebbe occultati. I risultati tanto rivoluzionari sono una tesi notoria (e condivisa da molti) nel campo degli studi cristiani, ossia il fatto che Gesù non avrebbe desiderato dar vita a un’altra religione, ma riformare quella ebraica, di cui si sentiva parte. Anche il lettore comune ne potrà avere le prove leggendo i due volumi di Corrado Augias (redatti in collaborazione con Mauro Pesce e Remo Cacitti): Inchiesta su Gesù e Inchiesta sul Cristianesimo, editi entrambi per i tipi di Mondadori e oggi disponibili anche in edizione economica.
Davvero una fortuna che Benoît sia giunto a squarciare il velo di Maya di secoli di oscurantismo e a farci partecipi delle sue ricerche rivoluzionarie!
In ultima analisi, che cosa suggerire agli amanti del genere fanta-storico? Di ricordarsi, semplicemente, che la storia è fatta di progressive approssimazioni e non di certezze, quindi chi parla per assiomi quasi sicuramente sbaglia. E di dubitare sempre, perché il dubbio è la molla per la ricerca.
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