IntervisteSpeciale 2012

21/12/2012: intervista allo psicologo sociale Luca Pietrantoni

Ci sono studi sulla diffusione degli allarmismi per la fine del mondo nel 2012?

Ci sono vari studi che hanno correlato caratteristiche di personalità o sistemi di credenze con la tendenza al cosiddetto pensiero apocalittico. In generale le persone religiose e con sistemi di credenze superstiziose tendono a produrre cognizioni apocalittiche così come le persone con tendenze paranoidi tendono a aderire a teorie della cospirazione. Ma ci sono anche ricerche sul ruolo delle esperienze passate. La fascinazione per la morte e la distruzione dell’umanità può essere anche un tipico sintomo del disturbo da stress post-traumatico in persone che hanno vissuto un’esperienza traumatica. Alcune persone con malattie terminali sono attratte dalle distruzioni collettive come modalità per gestire l’ansia di morte, per ricordare a se stessi che la finitezza riguarda tutti gli esseri viventi, umanità, animali, cose.

In una prospettiva più generale, la preoccupazione dell’apocalisse riflette la più fondamentale e viscerale delle nostre paure: la paura della nostra stessa mortalità, la fine dell’umanità, l’estinzione della nostra specie. Facciamo fatica ad accettare che il flusso è la natura del mondo e il termine è un’inevitabile parte della vita. L’attrazione umana per i disastri sarebbe intrinsecamente legata alla consapevolezza della nostra esperienza di esseri finiti. Alla base c’è il bisogno di sentirsi speciali. Ci piace credere che viviamo in tempi eccezionali, in momenti critici e cruciali della storia dell’umanità. Forse questo ha a che fare con il nostro antropocentrismo.

E’ possibile confrontarli con fenomeni analoghi avvenuti in passato e dire se il fenomeno del catastrofismo è in aumento oppure no?

Possiamo rintracciare anche nel passato eventi sociali o tendenze collettive al catastrofismo, ma non ci sono dati per poter sostenere che sia un fenomeno in aumento. Può essere un fenomeno più frequente in alcuni periodi storici in cui prevale l’incertezza verso il futuro. Molti miti, leggende o sistemi di credenze si basano sulla previsione di eventi catastrofici. Ma anche più recentemente ci sono stati casi di gruppi, per lo più con convinzioni “a circuito chiuso”, che hanno temuto la catastrofe e hanno compiuto gesti anche estremi in vista di questa ipotetica apocalisse.

Un caso storico di annuncio di fine del pianeta avvenne nel 1960 in Italia. Un pediatra italiano annunciò di essere in contatto diretto con le potenze celesti, le quali lo avevano informato che il mondo sarebbe stato distrutto esattamente il 14 luglio 1960 olle ore 14.45, da un’arma segreta americana e disse che l’apocalisse avrebbe risparmiato solo il Monte Bianco. Questo profeta aveva costruito un’arca da 15 stanze direttamente sul Monte Bianco, dove lui, assieme ad altre persone, si sarebbe rifugiato per salvarsi. Centodieci adepti si recarono per tempo a Courmayeur in attesa che si compisse la distruzione finale. Passato il 14 luglio senza che nulla fosse accaduto, il fratello Emman disse semplicemente di aver sbagliato il calcolo, ma che comunque la fine del mondo era solo rimandata.
Come ha studiato lo psicologo sociale Festinger, le persone non sempre cambiano idea sulla base delle evidenze dei fatti, perché prevale la tendenza a percepirsi “coerenti”. Ogni persona si sforza di giustificare il proprio comportamento in modo retroattivo in modo da continuare a pensare di essere intelligente e responsabile. Così a fine anno ci ritroveremo i profeti che ci diranno che “era solo una prova per metterci in guardia”, “era un test”, “è tutto parte di un piano”. Tutte idee consonanti pur di non sembrare irresponsabili e ammettere: “mi spiace, abbiamo capito che abbiamo sbagliato e ci siamo fatti influenzare da convinzioni e ideologie errate”. Ma già prima della data fatidica circolano i semi per poi poter articolare le giustificazioni. Per esempio, qualcuno già dice che i Maya non hanno profetizzato la fine del mondo, ma dei cambiamenti per l’umanità che possono essere anche positivi e meno eclatanti.

La letteratura scientifica dà una spiegazione per la diffusione di questi allarmismi? Va considerato un dato “patologico” oppure indica una normale dinamica sociale?

Può essere il frutto di processi disfunzionali di singoli individui, ma risponde anche a bisogni normali e a processi comuni e frequenti di influenza sociale.

In fin dei conti, alcuni tra i più convinti teorici dell’apocalisse sono anche scienziati. Bill Joy, cofondatore e scienziato di Sun Microsystems, mette in guardia sul fatto che in futuro nanorobot auto replicanti fuori controllo potrebbero distruggere la Terra. L’astronomo Martin Ree ha scommesso che una catastrofe biologica ucciderà almeno 1 milione di persone entro il 2020. Numerosi climatologi hanno lanciato l’allarme di una possibile riscaldamento globale rapido (runaway). Ma già nel secolo scorso l’economista britannico Malthus aveva previsto che l’aumento della popolazione avrebbe portato a carestie e catastrofi, e nel 1969 il biologo Ehrlich nel libro “la bomba della sovrappopolazione” stimava una carestia globale nel giro di qualche decennio.

Come esseri umani abbiamo la tendenza di fronte ad un mondo complesso e caotico a ritrovare dei pattern, un modello, una configurazione negli eventi intorno a noi, a scoprire delle tendenze nel mondo naturale. Cerchiamo di tessere una storia semplice a partire da un complesso insieme di dati. La tendenza ad amplificare la possibilità di prevedibilità e controllabilità sulla realtà è una dimensione umana e comune. Le nostre paure apocalittiche soddisfano l’ansia collettiva riguardo a eventi che sono fuori dal nostro controllo.

Quali strategie consigli per costruire un’adeguata comunicazione scientifica su questi temi?

Penso che più strategie siano opportune. Alcune persone con credenze apocalittiche particolarmente radicate potrebbero adottare comportamenti rischiosi per sé o per la famiglia. Ci sono persone che sono convinte più dalle argomentazioni e dai fatti. Possono quindi abbandonare un pensiero apocalittico tramite l’acquisizione di informazioni, dati, evidenze che introducano la problematicità e la non fondatezza di alcune credenze. Altri persone, invece, sono convinte a rivedere le loro credenze apocalittiche più da aspetti periferici e non contenutistici. Quindi occorre considerare che la loro percezione inaccurata dei rischi può essere legata ad aspetti emotivi, come la vividezza o salienza di alcuni rischi o altre ansie e preoccupazioni. La comunicazione scientifica su questi temi dovrebbe quindi incorporare tali dimensioni emotive per poterle dosare e maneggiare.

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