recensioni

Il matematico lucreziano

Come stanno le cose
Piergiorgio Odifreddi
Rizzoli, 2013
pp. 311
€ 20,00

Il professor Odifreddi ci ha abituato alle sorprese e questa, inutile negarlo, lo è stata senz’altro. La mia prima reazione alla notizia dell’uscita di una sua traduzione commentata del De rerum natura di Lucrezio è stata, lo confesso, di perplesso stupore. Appartenendo a quella specie in via d’estinzione che sono gli studiosi di filologia classica, ho sempre associato l’atto del tradurre dal latino alla competenza linguistica e filologica, che non sapevo, fino a questo momento, di poter associare a Piergiorgio Odifreddi. Ho deciso, però, di accostarmi all’ultima opera del matematico piemontese sgombrando la mente dai pregiudizi, memore di quanto possa essere ingannevole il principio d’autorità: poco importa, infatti, quando si dicono cose corrette, che alle spalle vi sia un titolo di studi specifico.

Una piccola nota sulla struttura del libro. Il volume, dalle ampie pagine corredate di belle illustrazioni a colori, presenta, a destra, la traduzione di Odifreddi e, a sinistra, il suo commento. I rimandi sono chiariti attraverso un gioco di colori che sostituisce il classico sistema delle note numerate.

Il De rerum natura di Tito Lucrezio Caro è un poema didascalico (con lo scopo, perciò, di trasmettere conoscenza) scritto nel tipico verso dell’epica classica, l’esametro dattilico. Il fine di Lucrezio era quello di farsi divulgatore, a Roma, del pensiero filosofico e scientifico di Epicuro, spiegando al suo lettore la vera “natura delle cose”, dissolvendo le nebbie del pregiudizio e della superstizione. Lucrezio fu coinvolto, già nell’antichità e poi nell’era cristiana, nella diffusa condanna dell’epicureismo e il suo geniale contributo alla divulgazione scientifica è stato riconosciuto solo a partire dall’Umanesimo, grazie al rinvenimento, da parte di Poggio Bracciolini, di un manoscritto del poema in Germania (a Murbach oppure a Fulda).

Venendo al mio parere sul lavoro di Odifreddi, trovo che la scelta migliore sia dividere il discorso in due tronconi: ciò che ho apprezzato e quello che mi ha lasciata perplessa, fornendo per ogni aspetto alcuni esempi chiarificatori. Una disamina estesa di ogni singolo discorso comporterebbe la compilazione di un mortifero contro-Lucrezio, che mi guardo bene dal proporre. Ma cominciamo con ordine.

 

Quello che mi è piaciuto.

Ho apprezzato l’idea di fondo che soggiace al lavoro di Odifreddi: riprendere Lucrezio e consegnarlo all’uomo di oggi, mettendone in luce i meriti scientifici accanto a quelli letterari e filosofici. D’altra parte, quello che era chiaro per gli antichi, ovvero il fatto che la cultura umanistica e quella scientifica fossero un tutt’uno inscindibile e che il sapiens (quello che i greci chiamavano sophós) si muovesse attraverso i due ambiti con disinvoltura, risulta purtroppo estraneo al mondo attuale. Curiosamente Odifreddi, scegliendo di fare un’operazione manichea di cernita tra cultura seria (l’ambito scientifico) e favole (quello umanistico), pur inserendo a forza Lucrezio solo nella prima, mette in evidenza, suo malgrado, anche i suoi meriti di letterato. Ben venga, dunque, la rilettura scientifica di Lucrezio, che gli è connaturata come la dimensione poetica.

Approvo anche la scelta di tradurre in prosa, che oggi ha la stessa funzione della poesia al tempo di Lucrezio. Quest’ultimo affermò (I, 935-950) di aver adoperato la forma poetica per rendere meno indigesta al lettore la filosofia epicurea: una funzione simile, per certi versi, avevano le canzoni inserite da Dante nel Convivio. Per l’uomo del passato, insomma, la poesia era il veicolo della divulgazione. Oggi, però, per spiegare una poesia ne facciamo una parafrasi in prosa e molti hanno difficoltà a comprendere il linguaggio poetico: ecco che la scelta della prosa da parte di Odifreddi risulta perfettamente funzionale agli scopi divulgativi del poema lucreziano.

Piacevole l’ampiezza di rimandi eruditi e la possibilità che viene data al lettore di approfondire questioni scientifiche e culturali che coprono ambiti diversi. Interessante il rilievo dato ad autori poco noti al grande pubblico, come, ad esempio, Cecco d’Ascoli o Le Sage. Una volta chiuso il libro il desiderio di saccheggiare biblioteche reali e virtuali è senza dubbio presente e questo è un ottimo effetto collaterale dei libri che danno da pensare.

Nulla da eccepire, nel complesso, anche nei riguardi dell’interpretazione di Venere in un senso affine al Deus sive natura spinoziano, anche se in ciò non scorgo nulla di particolarmente originale. Come i critici lucreziani sottolineano da tempo, l’inno a Venere all’inizio del poema richiama certamente la forza di aggregazione che, secondo la filosofia greca, determinava la combinazione delle sostanze e la generazione delle varie cose. Concezioni simili a questa fanno parte di quell’interpretazione razionale dei miti che era molto diffusa tra gli intellettuali greco-latini. Peraltro non si comprende perché tale affermazione debba per forza implicare una negazione delle ragioni letterarie: l’invocazione di Venere risponde certamente anche all’esigenza di rispettare la tradizionale struttura del proemio, distinto in protasi e, appunto, invocazione. All’uomo contemporaneo, che ignora i vincoli che il genere letterario imponeva nell’antichità classica questo potrà sembrare anche strano, ma l’analisi dei testi in nostro possesso ci insegna che il genere è qualcosa dal quale molto difficilmente l’autore antico sceglieva di staccarsi, al punto che è proprio per generi che diverse storie letterarie latine e greche sono strutturate.

 

Quello che non mi è piaciuto.

Il discorso sul ruolo di Venere è un’ottima introduzione a quello che ritengo essere il difetto più grave del lavoro di Odifreddi: la totale assenza di prospettiva storica, causa delle forzature che caratterizzano il testo. Cerco di spiegarmi bene. Lo scopo, non certo nascosto, del libro di Odifreddi è dimostrare l’attualità di Lucrezio e il suo anticipare buona parte delle conquiste della scienza moderna; consegnare ai posteri un autore la cui attualità, alla luce di questa traduzione, appare davvero formidabile. Ma dove sta il problema in tutto ciò? Non è forse sempre un’operazione positiva quella di riconoscere l’attualità di un autore antico?

Naturalmente non c’è nulla di male nel cogliere nella letteratura classica quegli universali del pensiero che trascendono i tempi e le culture; d’altra parte, è noto come molti autori geniali siano stati in grado di precorrere i tempi. Ma ciò non deve distoglierci dal tenere presente la distanza temporale e culturale tra il testo e noi, che stempera la nostra visione attualizzante. Leggendo Quintiliano si può restare meravigliati dal fatto che scrive cose che sembrano uscite da un moderno trattato di pedagogia; andando più a fondo è, però, sempre possibile mettere in evidenza le enormi differenze che esistono tra il suo modello di retore e, più in generale, di intellettuale e il nostro. Al lettore di Dante che, nel XXVI canto dell’Inferno, si trova di fronte alla celebre terzina: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» può sembrare di scorgere un inno al desiderio di ampliare i propri orizzonti per conoscere sempre di più. Si stupirebbe, forse, di scoprire che per Dante essi rappresentavano l’essenza del bieco inganno che, secondo la mentalità medievale, Ulisse aveva ordito ai danni dei compagni. Guardare a un testo antico con gli occhi dell’uomo di oggi può essere un’operazione gratificante, ma “non fa scienza”, perché si basa su un errore simile a quello, assai comune, di chi antropomorfizza il comportamento animale.

Conseguenza immediata dello specchio deformante al quale viene sottoposto il testo di Lucrezio è una traduzione che appare spesso decisamente forzata, al fine di sottolineare tutti i presunti legami del De rerum natura con la scienza moderna. Ecco che dove Lucrezio dice  «per te quoniam genus omne animantum / concipitur» (I, 4-5) (letteralmente «poiché attraverso di te è generata ogni tipologia degli esseri viventi»), Odifreddi traduce «tu sei l’origine delle specie», dove è difficile non scorgere un chiarissimo rimando al titolo del capolavoro di Charles Darwin. Ma se, da una parte, è certamente possibile tradurre il latino genus con “specie”, ben diverso è lasciar credere al lettore che Lucrezio vedesse in Venere l’origine del meccanismo evolutivo e del processo di speciazione, come l’ammiccante traduzione sembra implicare.

Allo stesso modo, tradurre il lucreziano «quapropter bene cum superis de rebus habenda / nobis est ratio» (I, 127-128) – che vuol dire «perciò come dobbiamo avere ben chiara la norma delle cose celesti» – in questo modo: «se vogliamo fondare su “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni” le cose supreme», vuol dire forzare non poco il testo per individuare una corrispondenza con il pensiero di Galileo.

Scorrendo la traduzione odifreddiana si rimane sorpresi dalla sintesi che Lucrezio sembrerebbe rappresentare dell’intero scibile scientifico, spaziando dalla medicina alla biologia, dalla fisica all’astronomia, il che può anche avere un nucleo centrale di verità. Nessuno – io in primo luogo, che lo apprezzo tantissimo – desidera, in questa sede, negare la genialità di Lucrezio. Ciò che però dispiace è constatare come Odifreddi sembri presentarlo come mente isolata, del tutto avulsa dal panorama scientifico greco-latino. Il che è senza dubbio fuorviante.

Dove, poi, Lucrezio continua, inevitabilmente, a rimanere uomo del suo tempo e dove non c’è forzatura che riesca a piegare il suo verso alla scienza moderna, Odifreddi sembra stupirsene, restandone quasi deluso. È il caso, per esempio, del fenomeno dell’arcobaleno, riguardo al quale il matematico si stupisce che Lucrezio non si sia dimostrato un acuto osservatore; oppure dello svarione fatto sulle dimensioni del Sole e della Luna, messo in evidenza da Schrödinger.

Ho trovato anche piuttosto fastidiosa la tendenza di Odifreddi a considerare alla stregua di idioti o perversi tutti coloro che propugnano teorie che non condivide. È il caso di William Blake così come di Eraclito, di Girolamo come di Dante. Parlando di quest’ultimo in rapporto a Cecco d’Ascoli dice: «Francesco Stabili, alias Cecco d’Ascoli: un altro poeta maledetto, contemporaneo di Dante, ma umanamente e intellettualmente più coraggioso e più sfortunato. La sua opera L’Acerba rimase infatti incompiuta, interrotta dal rogo appiccato a Firenze dall’Inquisizione». Il professor Odifreddi non ha mai nascosto la propria antipatia per il teocentrismo tipico di Dante, del quale sembra apprezzare solo i riferimenti alla matematica. Però la sua visione di un Dante servo della Chiesa e dei potenti solo perché profondamente cristiano è del tutto fuorviante. Solo per fare qualche esempio, immagino che Odifreddi non ignori l’aperto contrasto tra Dante e Bonifacio VIII, causa diretta del suo esilio. Come pure immagino che sappia che il canto XIX dell’Inferno pullula di papi definiti senza mezzi termini simoniaci o della sua posizione in merito al potere temporale della chiesa e alla donazione di Costantino, sostenuta nel Monarchia. Che si condivida o meno la visione cristianocentrica dantesca, è indubbio che il poeta avrebbe avuto molti problemi in meno se si fosse allineato al pensiero dominante, cosa che non fece mai, né in politica né in ambito religioso.

Con argomentazioni analoghe sarebbe possibile smontare buona parte degli ingenerosi giudizi espressi da Odifreddi, ma il discorso diventerebbe lungo.

In generale si ravvisa, poi, una certa tendenza all’approssimazione, particolarmente fastidiosa in un testo che ha pretese di rigore. Un paio di esempi renderanno il discorso più chiaro.

A p. 28 il ritmo dell’esametro (il verso latino in cui è stato scritto il De rerum natura) è indicato come quello di «un valzerino in tre quarti, di sei battute, di cui l’ultima tronca»: suonerebbe cioè come «um-pa-pa um-pa-pa um-pa-pa um-pa-pa um-pa-pa um-pa». Questo perché «consiste di sei trisillabi con gli accenti sulle prime sillabe». Peccato che i trisillabi diventino spesso bisillabi, perché il cosiddetto “dattilo” (un piede di tre sillabe) viene di frequente sostituito dallo “spondeo” (che di sillabe ne ha due): cioè alcuni degli um-pa-pa diventano  um-paa (le due sillabe brevi sono sostituite da una lunga). Il lettore che provasse a leggere a ritmo di valzer proprio i versi citati da Odifreddi come esempio se ne renderebbe subito conto.

A p. 78 si dice che Kamasutra significa «canto dell’amore», quando il sanscrito sūtra indica più propriamente la norma, la breve sentenza e, collettivamente, la raccolta di aforismi, di precetti, il trattato (su Kama, dio dell’amore). Ancora: si sottolinea che il nome di Afrodite «ne richiama la nascita dalla spuma del mare (aphros)», mentre, in realtà, l’accostamento etimologico popolare è rigettato unanimemente dagli studiosi. Per capirci: è un po’ come riproporre l’antica etimologia che faceva derivare il nome della Pasqua – in realtà di origine ebraica, da Pesach – dal verbo greco páscho, che significa “soffrire”. Accettabile al tempo dei Padri della Chiesa, ma non certo oggi.

Fastidiose imprecisioni di questo tenore, sparse un po’ per tutto il libro, lasciano l’amaro in bocca e danno l’impressione di un lavoro forse frettoloso o di una revisione approssimativa.

Tirando le somme, immagino che vi interessi sapere se consiglierei oppure no la lettura del Lucrezio di Odifreddi. La risposta è sì, perché, pur con tanti limiti, Odifreddi riesce davvero a insegnare qualcosa. La giusta dose di scetticismo e senso critico aiuterà il lettore a individuare errori e forzature, che potrà correggere verificando le fonti. Si tratta di un ottimo esercizio, che rimarca l’inconsistenza del sophisma auctoritatis.

10 pensieri riguardo “Il matematico lucreziano

  • Stimo Odifreddi, ma a volte si lancia troppo a discutere di argomenti che non padroneggia. Come la filologia. Ad esempio, a pag.38 del suo libro “Le menzogne di Ulisse”, scrive : «…Al ciclope egli aveva detto di chiamarsi non Odisseus, “Odisseo”, ma Oudeis, “Nessuno”: un bel gioco di parole, che in greco suonava quasi come un anagramma…».
    E davvero sarebbe un bel gioco di parole, se non fosse che il testo greco presenta “Outis” (Od. 9, 366, peraltro sinonimo di Oudeis: nessuno) e non Oudeis. Perché tale violenza nei confronti del testo originale?

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  • Complimenti, Anna Rita. Si vede che è il Tuo campo

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  • Odifreddi si è diplomato ai geometri e non ha studiato il latino: E’ autodidatta? Mi fa ricordare il Foscolo che definì il Monti (che tradusse l’Iliade senza conoscere il greco) il traduttor dei traduttor d’Omero. Odifreddi: il traduttor dei traduttor di Lucrezio. Quali traduttori ha utlizzato Odifreddi?

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  • Sicuramente tutti. Per alcuni aspetti sembra apprezzare la traduzione di Marchetti, della quale vengono sottolineati, però, anche i difetti.

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  • caro marco,

    per quanto possa interessare, lo scambio “outis/oudeis” era un miglioramento del testo: sappiamo tutti che, come diceva orazio, “ogni tanto anche il buon omero dormicchia”, e questo è uno di quei casi. ma in edizioni successive del mio libro è stato comunque corretto, per soddisfare i “puristi”.

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  • caro pietro melis, 
    il suo commento è ridicolo, tanto quanto dire che poiché uno ha fatto le elementari, allora non ha può parlare di niente che non fosse nel programma d’esame della quinta. forse la sua cultura si è fermata alla sua laurea, ma altri continuano a studiare e imparare anche dopo. 
    a proposito di foscolo, anzitutto dovrebbe sapere che parlava per gelosia: ce l’aveva col monti perché era innamorato (respinto) di sua moglie. e poi, lasci perdere: fu proprio il foscolo a volgere per primo in prosa una parte della traduzione di lucrezio del marchetti. evidentemente, poiché questo non gliel’avevano insegnato al liceo, lei non lo sa…

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  • Non sapevo di questo libro.
    Non ho mai stimato molto Odifreddi perchè troppo showman e troppo ‘fideista’. Cioè mi sembra un bigotto delle sue idee: non lo giudico, perchè penso che abbia avuto esperienze tali da maturare certe posizioni, ma proprio perché non va oltre la sua esperienza personale e non affronta un discorso razionale, le sue posizioni sono soltanto sue, o di chi per altre vie è giunto alle stesse conclusioni, ma sono “incomunicabili”: cioè manca la fase dialettica. Quindi i suoi sono i tipici discorsi ascoltando i quali non cambierai posizione, cioè discorsi inutili.
    Invece questa recensione mi affascina: è bellissimo, innanzi tutto questa posizione “culturale” che scavalca gli angusti steccati della cultura scientifica ed umanistica.
    Leggerò il libro? non solo so, lo metto nella lista dei libri interessanti e vediamo se riuscirò a smaltirla velocemente 

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  • Gentile professor Odifreddi,
    la ringrazio per l’attenzione che ha mostrato nei riguardi della mia recensione. Nel rispondere ai suoi rilievi, affronterò prima la questione sollevata nei commenti all’articolo e poi quelle messe in evidenza nel suo blog. Per comodità procederò per punti.

    1) Riguardo a outis/oudeis, non comprendo la questione del presunto miglioramento del testo. I due termini sono varianti adiafore. Il primo è decisamente più raro, ma non deteriore. E’ una forma tipica del lessico poetico (che si ritrova poi nella tragedia).

    2) Lei scrive: <<naturalmente, alcune delle critiche a me, sono in realtà critiche a lucrezio: ad esempio, quella di considerare eraclito un idiota. e infatti, nel libro (a p. 48) riporto, nell’originale in latino, gli insulti che lo chiamano “vano”, “demente”, “delirante” e “demenziale”.>>

    E’ vero. Ma nel commento lei conferma tutte le accuse di Lucrezio a Eraclito.

    3) Lei scrive: <<sull’origine delle specie, è chiaro che non mi riferivo a venere (la dea), ma alla natura (dopo aver appunto detto che la prima è una metafora della seconda). e chi altro avrebbe creato le specie, secondo un poeta materialista, se non la natura>>

    Questo è chiarissimo e io lo condivido. Come può riscontrare, infatti, io ho affermato di non condividere la sua ammiccante traduzione, troppo simile al titolo dell’opera di Darwin, non l’identificazione tra Venere e la natura. Tra le varie possibilità di resa è stata scelta l’unica che poteva dare origine a tale dubbio.

    4) Lei scrive: <<e sulle “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni”, le ho messe appunto tra virgolette nel testo, per allertare il lettore alla “forzatura” della traduzione. con successo, visto che la cosa salta agli occhi, ed è stata subito notata nella recensione>>.

    Sì, è chiarissimo. Ma la logica conseguenza dell’assimilazione del pensiero di Lucrezio e di Galileo mi lascia perplessa. Ovviamente lei è liberissimo di avere un parere diverso dal mio. Non sono e non mi ritengo infallibile.

    5) <<mi pare anche strano che si pensi che io presenti lucrezio “come mente isolata, del tutto avulsa dal panorama scientifico greco-latino”, quando ho fatto (o, almeno, cercato di fare) l’esatto contrario. ad esempio, a p. 252 ricordo che non si deve attribuire a lucrezio l’intuizione dell’accelerazione di gravità, ma a ipparco, e spiego pure perché.>>

    Nel complesso a me sembra che si sottolinei a ogni piè sospinto l’atipica genialità di Lucrezio e la sua alterità rispetto ai pensatori del mondo antico, ma ovviamente qui riferivo una mia impressione.

    6) <<a proposito di dattili e spondei, a parte il fatto che li ho citati a p. 28 (i primi) solo per dire che bisognava appunto dimenticarsene, lei ha ragione: parlare di queste cose a un ragazzo, è il modo migliore per spingerlo a disinteressarsene. o, nel caso sia sveglio, a farsi domandare: “ma um-pa-pa e um-pa-a si contano diversamente?”. eh, eh >>

    Ovviamente non posso condividere il suo giudizio sulla scarsa importanza della metrica. Sarebbe lo stesso errore –  che io non mi sognerei mai di fare – del letterato che snobba la scienza. Ma veniamo al conteggio: io non separo le due A di um-paa, lei sì. Il lettore così può pensare che il conteggio non muti. Invece cambia. Le sillabe sono due, non tre. Ovviamente le profonde ragioni della metrica (che non riguardano solo il conteggio delle sillabe) vengono illustrate a lezione agli studenti. Un bravo insegnante non imbottisce i suoi allievi di nozioni da ritenere. Sembrerà strano, ma ci sono anche bravi docenti di lettere e non tutti ignorano le ragioni della scienza.

    7) Lei scrive: <<se una professoressa non vede la magia delle parole, il problema è suo… in particolare, “sutra” significa in realtà “filo, collana, cucitura”… forse avrei dovuto tradurre meglio “kamasutra” come “il rosario dell’amore”, così sarebbe stato filologicamente più corretto… eh, eh>>

    Può darsi che sia un mio limite non vedere la magia delle parole. In effetti personalmente sono poco incline al pensiero magico. Dunque le risponderò sull’etimologia, che è più vicina alle mie competenze. “Sutra” ha come valore originario quello di “filo”, ma in senso traslato viene, sin dai tempi più antichi, adoperato per indicare la breve sentenza e, quindi, un ben determinato genere letterario. Ritengo pertanto che la traduzione “canto dell’amore” sia approssimativa. La boutade sul rosario mi sembra piuttosto distante dal senso della parola.

    8) Lei scrive: <<tradurre “de rerum natura” con “la natura delle cose” è un tradimento molto maggiore di quanto i dizionari e gli umanisti non farebbero supporre.>>

    Personalmente a me la sua traduzione “Come stanno le cose” appare condivisibile e corretta, ma non capisco per quale motivo il titolo “La natura delle cose” venga presentato come un tradimento del testo. A me sembra una valida alternativa, da intendersi in un senso molto vicino a quello del titolo da lei adoperato.

    9) Lei scrive: “quanto a dante, qui ne abbiamo parlato abbastanza: che non fosse un “papista”, non lo rende meno religioso e superstizioso. il problema è suo, non mio. e visto ciò che lucrezio pensa della religione, si può immaginare cosa avrebbe pensato di dante”

    La mia osservazione riguardava solo il fatto che Dante fosse coraggioso. La superstizione e la religiosità non lo escludono.

    Cordiali saluti e grazie per gli spunti di riflessione.
     
     
     

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