Stamina, provare per credere
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Se la fine della storia di Stamina è quella che è, l’inizio è da manuale. Siamo a Torino nel 2004, Davide Vannoni, capelli ricci e occhiali tondi da intellettuale, è un uomo di marketing e si divide tra le lezioni di psicologia all’Università e un’attività di sondaggi e consulenza. A quarant’anni è già ben inserito nell’ambiente culturale torinese, è membro di istituzioni e associazioni, ha una bella parlantina, le conoscenze giuste e sa come muoversi per ottenere finanziamenti. La storia di Stamina inizia qui, una mattina di quasi dieci anni fa, quando il nostro protagonista si sveglia e si ritrova con la metà sinistra del viso bloccata.
Quella mattina è iniziato il viaggio di Davide Vannoni alla ricerca di una spiegazione e di una cura per quel che gli era successo. Ha girato mezza Italia e ha speso decine di migliaia di euro, ma alla fine il responso pare chiaro: la paresi è stata provocata da un virus che ha danneggiato un nervo facciale. C’è poco da fare, se non una lenta e costante riabilitazione che migliorerà un po’ la situazione senza però risolverla. Vannoni non accetta il verdetto, viene a conoscenza di una terapia sperimentale a base di cellule staminali messa a punto da una coppia di biologi ucraini, Elena Schegelskaya e Vyacheslaw Klymenko, e poco tempo dopo, nel 2005, lo ritroveremo in Ucraina dove, a Karkhov, si sottoporrà al trattamento.
Dopo un carotaggio osseo e cinque infusioni si sente rinato e decide di portare il “metodo” in Italia. Chi lo conosceva da prima del viaggio dice di non aver visto miglioramenti significativi e, a guardare questi video, rispettivamente del 2004 (l’anno della paresi), del 2005 (l’anno del viaggio in Ucraina) e del 2013 non sembrano esserci poi grandissime differenze (a parte i capelli, la barba e otto anni in più).
Vedete, quello della prova su di sé è un punto fondamentale, perché dà il senso a tutto quello che succederà dopo. Nel 2002, in un documento presentato alla Regione Piemonte nell’ambito di un progetto sulla comunicazione “persuasiva” della prevenzione in campo medico, Vannoni scriveva che
«l’esperienza mostrata del mittente sembra avere un notevole peso sulla credibilità, soprattutto in rapporto alle intenzioni di comportamento, più di quanto ne abbia l’attraenza o l’essere degni di fiducia».
Nella narrativa di Stamina, l’aver provato su di sé il trattamento dà a Vannoni quella credibilità che altrimenti non avrebbe avuto. Davide Vannoni non è un medico, lo sappiamo tutti ormai, non è un biologo, non ha mai lavorato con le cellule staminali, non ha mai prodotto lavori scientifici nel campo delle neuroscienze sperimentali. Diventa credibile nel momento in cui si mette in gioco in prima persona, perché «l’ha provato anche lui ed è guarito».
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Foto di Inzmam Khan da Pexels
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