La maschera funeraria di Napoleone ritrovata a Napoli? No, è una copia
Quando si parla delle reliquie di Napoleone Bonaparte, probabilmente il più famoso dei personaggi storici, vengono in mente gli ironici commenti di Calvino ed Erasmo, secondo i quali, raccogliendo tutti i frammenti della croce su cui Gesù fu crocifisso ospitati nelle chiese di mezzo mondo, si potrebbe riempire una nave, portando a suppore che Cristo sia stato crocifisso a un’intera foresta. Di Napoleone sono conservate ciocche di capelli, bicorni indossati durante le battaglie, stivali, fazzoletti e molto altro ancora. La categoria forse più interessante di “reliquie” è quella rappresentata dalle maschere funerarie, una moda risalente almeno all’epoca dell’antica Roma e che esplose nel XVIII e nella prima metà del XIX secolo, prima di essere sostituita dalle fotografie post-mortem (usanza anch’essa scomparsa poi intorno alla metà del secolo scorso). Nel novembre 2014 viene data notizia della scoperta, a Napoli, di una maschera funeraria di Napoleone (fig. 1 in apertura): a ritrovarla è lo scultore ottantenne Luigi Mazzella, allievo dell’eclettico artista futurista Ennio Tomai (1896-1969), a cui la maschera sarebbe appartenuta. Una scoperta casuale, avvenuta durante la ristrutturazione dell’enorme studio di lavoro di Tomai nella storica Villa Haas, nel quartiere napoletano del Vomero. La notizia riempie un’intera pagina del Corriere del Mezzogiorno (l’edizione locale del Corriere della Sera) del 5 novembre 2014, venendo poi ripresa da altre testate. Si tratta di un calco in gesso che riproduce le fattezze di Napoleone sul letto di morte a Sant’Elena, dove, come tutti sanno, spirò il 5 maggio 1821 dopo un esilio di sei anni. La peculiarità è la firma, riportata alla base del collo sul lato destro, di Francesco Antommarchi, l’ultimo medico di Napoleone, italiano, mandato sull’isola dalla madre dell’ex imperatore, Letizia Ramolino, per assistere il figlio malato. Come ricorda giustamente Filiberto Passananti, autore dell’articolo, Antommarchi non realizzò un’unica maschera funeraria dell’illustre defunto, ma almeno «tre o quattro», di cui però, si legge ancora, quella «ritrovata a Napoli, probabilmente recuperata da Ennio Tomai in uno dei suoi frequenti viaggi in Francia, Svezia e Russia, potrebbe essere una delle copie realizzate dal medico francese, se non proprio l’originale». Asserzione consolidata dal fatto che «l’esemplare partenopeo è identico a quello custodito nel Musée de l’Armée di Parigi e riporta, in basso a destra, anche la firma di Antommarchi»[1]. Il 5 maggio scorso, in occasione dell’anniversario della morte di Napoleone, la maschera è stata esposta per la prima volta al pubblico all’Institut Français “Grenoble” di Napoli, in un evento presentato dal console Christian Timonier, che sul Corriere del Mezzogiorno commenta che «potrebbe trattarsi di uno dei calchi originali presi dal medico di Bonaparte»[2].
Ma cerchiamo di capirne di più. La storia delle maschere funerarie di Napoleone è infatti complessissima e la bibliografia sull’argomento è molto più vasta di quanto si potrebbe, in un primo momento, immaginare. Come nel caso di Gesù, abbiamo da un lato i documenti degli evangelisti – di “prima mano” – e poi quelli secondari. Louis Marchand, primo cameriere ed esecutore testamentario di Napoleone, scrive nelle sue memorie che Antommarchi eseguì il calco il 7 maggio, un giorno e mezzo dopo la morte dell’ex imperatore, perché era stato necessario raccogliere sufficiente gesso sull’isola per realizzare il rilievo: «Il dottor Burton si era procurato il gesso necessario; il dottor Antommarchi, aiutato da lui e da Archambault, che sosteneva la testa dell’imperatore, ricavò in nostra presenza la maschera, che riuscì molto bene»[3]. Antommarchi, nelle sue memorie, scrisse di aver eseguito egli stesso il rilievo, prima di procedere all’autopsia[4]. Già qui sorgono controversie, dal momento che storici successivi hanno ricostruito, con sufficiente accuratezza, che il calco fu realizzato in realtà da Burton e dopo l’autopsia. Perché Antommarchi mentì? Perché, stando a quanto scriverà poi lo stesso Burton, in sua assenza Antommarchi e Madame Bertand, la moglie del generale Bertrand che aveva accompagnato Napoleone nell’esilio, staccarono il calco dal volto, in modo maldestro, lasciando attaccata alla testa la parte posteriore e quella delle orecchie[5]. I due si rifiutarono di consegnare la maschera a Burton e dall’originale fecero, ancora a Sant’Elena, poco prima di ripartire per l’Europa, almeno una “mezza dozzina” di riproduzioni[6].
La questione non è di lana caprina per ricostruire la provenienza di quella che definiamo qui la “maschera Tomai” ritrovata a Napoli. È accertato che in effetti a Sant’Elena vennero realizzate sicuramente sei copie del calco originale ed è possibile ricostruire che la “maschera Tomai” non è tra quelle. Prima di spiegare perché, è fondamentale chiedersi se allora non possa essere addirittura l’originale, il calco eseguito direttamente sul volto di Napoleone, il cui valore storico sarebbe inestimabile. Tuttavia, nonostante diversi musei che oggi conservano maschere funerarie dell’imperatore dei francesi sostengano di possedere il calcolo originale di Antommarchi-Burton, è pressoché certo che in realtà esso sia andato distrutto, o durante la realizzazione delle prime copie a Sant’Elena, come sostengono alcuni[7], o intorno agli anni ’30 dell’Ottocento, per azione volontaria e inspiegabile dello stesso Antonmarchi, come sostengono altri[8]. Dove sono finite le sei maschere di Sant’Elena, realizzate – queste sì certamente – da Antommarchi (dopo che un artista locale, Joseph William Rubidge, ricostruì parte della fronte, del mento e delle orecchie che erano andate perse staccando il calco dal volto)? Ricostruire tutta le loro vicende richiederebbe un libro intero, ma possiamo sintetizzarle qui:
- La maschera appartenuta alla famiglia Bertrand, passata poi negli anni ad altri membri della famiglia ed ereditata agli inizi del Novecento dal pretendente bonapartista al trono francese, il principe Victor Napoléon; i suoi discendenti l’hanno poi donata al museo della Malmaison, residenza privata di Napoleone poco fuori Parigi, dove attualmente si trova[9].
- La maschera donata a Letizia Ramolino, rimasta in possesso della famiglia Bonaparte per le generazioni successive e infine donata al Museo degli Invalides (dove riposa anche il corpo di Napoleone)[10].
- La maschera donata a Giuseppe Bonaparte durante il suo esilio negli Stati Uniti, poi donata dagli eredi al museo della Malmaison[11].
- Una delle due maschere di proprietà di Sir Hudson Lowe, governatore di Sant’Elena durante l’esilio di Napoleone, realizzata da Alfred Gilley sul calco di Antommarchi, ora al Museo Bonaparte di Ajaccio[12].
- L’altra delle due “maschere Gilley”, anch’essa al Museo di Ajaccio[13].
- Una maschera che Antonmarchi donò (o cercò di vendere) a Maria Luisa, la moglie di Napoleone, a Parma, ma che andò distrutta per incuria[14].
Non è il caso qui di trattare anche della vastissima querelle secondo cui tutte queste maschere, dette “maschere Antommarchi” o “maschere Eleniane” (perché realizzate a Sant’Elena), siano in realtà false. Esistono numerose altre presunte maschere funerarie di Napoleone con fattezze diverse dalle maschere Antommarchi, che pretendono di essere quelle vere, o perché realizzate di nascosto (e non dal medico italiano) subito dopo la morte di Napoleone, o perché addirittura le maschere Antommarchi riprodurrebbero le fattezze del fedelissimo servitore di Napoleone, Cipriani, prestatosi a un incredibile complotto che avrebbe visto Napoleone fuggire da Sant’Elena e rifugiarsi in America, mentre Cipriani, prendendone il posto, ne avrebbe finto la morte, e sarebbe suo il corpo sepolto agli Invalides[15]. Le teorie sulla morte di Napoleone s’intrecciano con la complessa vicenda della sua maschera funeraria, come in tutte le storie che trascendono nella leggenda.
Quello che importa qui è che la “maschera Tomai” ritrovata a Napoli e senz’altro del tipo Antommarchi, perché riproduce le stesse fattezze delle sei maschere di cui abbiamo sopra riepilogato il destino. Dunque, nessuna di quelle maschere realizzate a Sant’Elena sarebbe la “maschera Tomai”, a meno di non voler credere che Antommarchi ne realizzò altre, ipotesi che non può essere scartata. Ma proprio l’elemento che, secondo i primi esperti che hanno valutato la “maschera Tomai”, ne confermerebbe l’autenticità, ossia la firma di Antommarchi (fig. 2), rappresenta in realtà l’indizio che ci consente di smentirla. Se infatti osserviamo sia la maschera degli Invalides, “identica”, secondo l’articolo del Corriere del Mezzogiorno, alla “maschera Tomai”, notiamo che non riporta, al lato, la firma del medico di Napoleone (fig. 3). La firma non è presente neanche sull’altra maschera conservata alla Malmaison (fig. 4): sul lato posteriore di quest’ultima, Antommarchi scrisse invece una dedica al generale Bertrand. Inutile dire che le firme di Antommarchi mancano anche nelle altre maschere.
Dunque, da dove esce fuori questa firma? Per capirlo bisogna entrare nella psicologia di Francesco Antommarchi. Il medico che Letizia Ramolino invia al figlio a Sant’Elena sperando di fargli un favore – la donna non si fida dei medici inglesi, che crede vogliano avvelenare Napoleone – è in realtà un mezzo imbroglione, fanfarone e di modestissime capacità. Napoleone stesso se ne rende subito conto e cerca di avere quanto meno possibile a che fare con lui, secondo quanto ricostruito da diversi biografi e memorialisti. Solo nelle ultime settimane, davanti al progredire del male che lo ucciderà (un cancro allo stomaco), accetta di farsi seguire dal medico italiano. Antommarchi ha perfettamente capito che, alla morte di Napoleone, potrà fare una fortuna con il merchandising legato all’ex imperatore.
Qualche mese dopo essere rientrato in Europa e aver sistemato i suoi affari, Antommarchi si reca in Italia, dove bussa prima alla porta di Maria Luisa, la seconda moglie di Napoleone, divenuta arciduchessa di Parma, che però non lo riceve (e a cui lascia un altro calco della maschera funeraria, poi andato distrutto, come si è detto), e poi a quella della stessa Letizia Ramolino a Roma, a cui racconta con abbondanza di lacrime e di particolari la morte del figlio, ricevendo in cambio un “brillante”[16]. Nel 1825 pubblica le sue memorie, che ottengono qualche fortuna (e nel quale, oltre a guardarsi bene dal citare la riottosità di Napoleone nel frequentarlo, tace sul fatto che a realizzare il calco funerario sia stato il dottor Burton); ma intanto già nel 1822 ha convinto Bertrand a fargli realizzare una copia della maschera funeraria in suo possesso, intuendo la possibilità di guadagnarci qualcosa. Quando apprende della morte di Burton, nel 1828, Antommarchi si rende conto che il suo momento è arrivato: fino ad allora, qualsiasi tentativo di commercializzare la maschera di Napoleone si sarebbe scontrato con la possibilità che Burton lo trascinasse in tribunale. Ora non è più possibile. Inoltre, i tempi sono cambiati: la Rivoluzione di luglio, nel 1830, abbatte il regime dei Borbone e cessa la persecuzione dei bonapartisti. La nuova monarchia orleanista si riconosce nell’esperienza della Rivoluzione francese e dell’Impero, tanto che nel 1840 organizzerà l’imponente operazione di recupero del corpo di Napoleone da Sant’Elena, che verrà tumulato agli Invalides. Così, nel 1833, dopo aver organizzato una affollatissima presentazione al Salon di Parigi della maschera mortuaria in suo possesso, e avendo constatato l’enorme interesse dei tantissimi bonapartisti per quel cimelio, Antommarchi decide di intraprendere una curiosa operazione commerciale.
Il 15 luglio del 1833 pubblica l’Annuncio di una sottoscrizione nazionale per la maschera originale del volto dell’Imperatore Napoleone: calco fatto a Sant’Elena dal dottor Antommarchi. Nell’Annuncio pubblico, «dietro richiesta dei più eminenti uomini dell’Impero»[17], Antommarchi mette in vendita copie della maschera in bronzo a 100 franchi e in gesso a 20 franchi, costi di imballaggio e spedizione a carico degli acquirenti[18].A garanzia dell’originalità della maschera, e per evitare il moltiplicarsi di copie false, Antommarchi precisa nell’Annuncio che «gli acquirenti devono notare che ogni esemplare in gesso o in bronzo porta il mio sigillo e la mia firma in facsimile»[19]. Quindi, la firma posta dal medico in calce alla maschera rappresenta una garanzia del fatto che l’esemplare sia effettivamente quello prodotto dalla sottoscrizione del 1833, realizzata dai fonditori parigini Richard e Quesnel. Anche se l’anno dopo, probabilmente deluso dagli scarsi ricavi dell’affare, Antommarchi parte per Cuba, dove si trova il fratello, e dove morirà nel 1838, sono numerosi gli esemplari prodotti dalla sottoscrizione del 1833 giunti fino a noi. Da una veloce ricerca su Internet è stato possibile individuarne più di una decina, alcuni dei quali venduti recentemente all’asta e altri posseduti da musei, tra cui l’Auckland Art Gallery, l’Art Institute di Chicago, il Museo Fesch ad Ajaccio o il Museo napoleonico di Cuba. La maggior parte di questi esemplari è in bronzo, probabilmente perché la maggiore consistenza ha permesso alle copie di questo materiale di arrivare più facilmente fino ai giorni nostri, oltre al fatto che le copie in gesso hanno un valore molto più basso. Le maschere della sottoscrizione del 1833 possiedono due elementi distintivi: il sigillo che riporta la loro provenienza (“Souscription Antommarchi 1833”) e la firma “Dr. F. Antommarchi” alla base del collo.
Ora, la domanda è: la “maschera Tomai” appartiene è un esemplare della sottoscrizione del 1833? Lo possiamo stabilire confrontandola con due riproduzioni in gesso provenienti da quell’operazione commerciale, una posseduta nei suoi magazzini dal museo del Louvre (fig. 5) e una posseduta da un privato di Miami, che mi ha gentilmente fornito delle foto (fig. 6). Come si nota, la firma di Antommarchi alla base del collo, sul lato destro, ha esattamente le stesse dimensioni e lo stesso rilievo presente sulla “maschera Tomai”, anche se in quest’ultima della firma resta solo la parte finale. Proprio quest’ultimo elemento – l’assenza della prima parte della firma – ci porta a spiegare anche perché, a differenza degli altri esemplari del 1833, la “maschera Tomai” non possieda anche il marchio di fabbrica. Gli esemplari in gesso riportano il sigillo sul supporto realizzato al di sotto del collo, come si nota nei particolari in fig. 7 e fig. 8. Nella “maschera Tomai”, invece, è evidente che il supporto non c’è (fig. 9). Probabilmente, quindi, il lato inferiore della maschera è andato perduto per usura o incidente – lo stesso Mazzella, nell’intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno, racconta che un giorno fece cadere sull’oggetto alcuni pesanti volumi, danneggiandola leggermente – se non addirittura volontariamente.
Per concludere la questione, vale la pena ricostruire il destino successivo dell’affare Antommarchi: in seguito alla sua morte, una compagnia di fonditori francesi, i fratelli Susse, acquistarono i diritti di riproduzione della maschera. Il fratello del medico italiano, Dominique, intentò causa giudiziaria contro i Susse, sostenendo che essi non avessero il diritto di effettuare la riproduzione. Nel settembre 1839, come riporta una copia della Gazzette des Tribunaux di Parigi[20], i Susse vincono la causa e proseguono la riproduzione delle maschere mortuarie di Napoleone, sottolineando inoltre – si legge nel testo dell’articolo che riepiloga la querelle – che l’assenza della firma di Antommarchi alla base di queste riproduzioni (e del marchio di fabbrica) ne inficia “l’originalità”. Quindi, lungi dall’essere una prova di autenticità, la firma di Antommarchi posta sulla maschera serviva semplicemente a distinguere le riproduzione “originali” da quella “false”, ossia non autorizzate al commercio. Non possiamo nemmeno stabilire, essendo mancante il marchio di fabbrica, se la “maschera Tomai” appartenga alla sottoscrizione del 1833 o a una riproduzione successiva. Tuttavia, senza ombra di dubbio, possiamo confermare che, lungi dall’essere uno dei calchi realizzati da Antommarchi a Sant’Elena, se non addirittura l’originale, come è stato scritto dai media, la “maschera Tomai” non è che una copia, priva di valore storico e al massimo di modesto valore economico (sulla base delle quotazioni delle case d’asta, che però si riferiscono alle sole copie in bronzo, vendute tra i 5.000 e i 20.000 dollari, il valore può essere stimato grossolanamente intorno ai mille euro). Ed Ennio Tomai, ingegno multiforme, doveva certamente saperlo, se è vero che, dopo averla a lungo studiata, forse per interesse legato alla sua professione di scultore, la dimenticò in un angolo del suo studio, dov’è rimasta fino a oggi.
Note [1] Filibero Passananti, Dopo 50 anni spunta nello studio di Tomai la maschera funeraria di Napoleone, “Corriere del Mezzogiorno”, 5 novembre 2014. [2] Marco Molino, La maschera di Napoleone esposta al Grenoble. “Quel calco testimonia il legame con la Francia”, “Corriere del Mezzogiorno”, 6 maggio 2015. [3] Louis Marchand, Napoleone dall’isola d’Elba a Sant’Elena, Rizzoli, Milano, 1957, p. 500. [4] Francesco Antommarchi, L’ultimo medico di Napoleone, Librario Editore, Roma, 1944, p. 173. [5] Chantal Prévot, L’affaire des masques mortuaires de Napoléon, “Napoleonica. La revue”, n. 3/2008. [6] Jacques Macé, Napoleon’s Body is Definitely at Invalides!, “Revue du Souvenir Napoléonien”, febbraio-marzo 2003. [7] George Leo de St. M. Watson, The Story of Napoleon’s Death Mask, Told from the Original Documents, Londra, 1915, pp. 104. [8] Chantal Prévot, Les masques mortuaires de Napoléon. Résumé des problématiques, “Napoleon.org”, aprile 2014, http://www.napoleon.org/fr/salle_lecture/articles/files/484883.asp. [9] Prévot, L’affaire des masques, cit.; cfr. anche Albert Benhamou, Le masque mortuaire dit “Malmaison”, http://www.lautresaintehelene.com/autre-sainte-helene-articles-malmaison2.html. [10] Prévot, L’affaire des masques, cit. [11] Prévot, Les masques mortuaires de Napoléon, cit. [12] Michel Dancoisne-Martineau, Les masques mortuaires de l’Empereur, “Revue du Souvenir Napoléonien”, aprile-giugno 2011. [13] Ivi; cfr. anche http://bonespirit.provincia.lucca.it/fr/censimento/21/masque-mortuaires.html [14] «La duchessa non lo aveva ricevuto e un segretario gli aveva fatto lasciare il calco in anticamera. Il dottor Hermann Rollet, impiegato al Palazzo Ducale, giurava di aver visto i bambini dell’amministratore dell’arciduchessa giocare in un giardino trascinando con una fune, come se fosse un carrettino, “un oggetto di gesso che pareva la metà di una testa”». Edgarda Ferri, Letizia Bonaparte, Mondadori, Milano, 2003, p. 155. [15] Sulla teoria, che ritorna periodicamente sui media francesi, si veda la ricostruzione dettagliata – che la smentisce – di Dugue Mac Carthy, Les cendres de l’Empereur sont-elles aux Invalides?, “Revue de la Société des Amis du Musée de l’Armée”, n. 75, 1971, nonché quella di Jacques Macé, cit.; per un’analisi “complottista”, si può consultare il sito www.empereurperdu.com. Il tema è stato oggetto anche di un film, Monsieur N. (2003) di Antoine de Caunes, uscito anche in Italia. [16] Ibid. [17] Watson, cit., p. 25. [18] Chantal Prévot, Masque en plâtre de l’Empereur Napoléon, souscription Antommarchi, 1833, su http://www.napoleon.org/fr/collectionneurs/objet/files/484885.asp. [19] Watson, cit., p. 28. [20] Il numero della Gazzette è consultabile all’indirizzo http://data.decalog.net/enap1/Liens/Gazette/ENAP_GAZETTE_TRIBUNAUX_18390919.pdf.
Articolo molto interessante, posso aggiungere che anche al Vittoriale di Gabriele D’Annunzio, nella sala del mappamondo vi è esposta una maschera di Napoleone in gesso del tipo Antonmarchi, non molto visibile ma da me notata perché ne possiedo una uguale a mia volta ereditata da uno zio scultore, F. Paonessa.
All’isola d’Elba e più precisamente a Portoferraio, accanto alla Chiesa della Misericordia, si trova un piccolo museo che custodisce cimeli storici dell’epoca napoleonica: paramenti, vasi, ostesori e calici sacri.
Tra gli oggetti di maggior valore troviamo la Bandiera con le tre api ricamate in filo d’oro che Napoleone donò all’Elba il 4 maggio 1814, la maschera in bronzo di Napoleone morente donata dal principe Anatolio Demidoff e il calco bronzeo della sua mano destra donato dal Museo dell’Armée de Paris.
Hello. I now own the mask from Miami referenced in your article. The mask also has a paper label on it signed by antommarchi, I can not find any mask with this!! Didn’t know if that would be of interest to you as a researcher. Regards Richard