A che punto è la notte

A che punto è la notte 13 – OOPArt

Con questa rubrica facciamo il punto sui mysteri di vecchia data, che esercitano ancora tutto il loro fascino pur essendo già stati smentiti e razionalmente spiegati. Oggi parliamo degli oggetti impossibili.

Per OOPArt si intendono quei manufatti che, per tecniche di lavorazione e/o soggetto rappresentato, apparentemente non avrebbero potuto essere creati nell’epoca cui invece risalgono. L’acronimo significa infatti Out Of Place Artifacts, ed è uno degli argomenti cardine della fanta-archeologia, molto amato (ovviamente) dai nostri vecchi amici Peter Kolosimo e Erich von Däniken. Un enorme numero di reperti è stato considerato fuori luogo e fuori tempo, le pagine wikipedia dedicate al tema sono ampie e suddivise per categoria: quelli per cui è stata data una spiegazione valida, quelli che si sono rivelati delle bufale e quelli che secondo gli esperti debbono ancora essere verificati.

Il concetto è abbastanza ampio perché vi si possa ricondurre un po’ di tutto, da piccoli giocattoli funerarii ai giganteschi Moai dell’isola di Pasqua, e – come sempre – a poco servono le spiegazioni razionali o la dimostrazione pratica di come fosse possibile crearli con tecniche e materiali dell’epoca: chi crede nei visitatori delle stelle continuerà a cercare loro tracce ovunque.

Alcuni OOPArt, tuttavia, sono davvero affascinanti e per qualcuno datazione e storia rimangono ancora un po’ incerte; altri sono fra gli esemplari più interessanti di fuffologia applicata che sia dato riscontrare in natura: parliamo infatti di oggetti fuori tempo e fuori luogo che non solo non sono più fisicamente disponibili, ma di cui non esistono neanche prove fotografiche o documentali affidabili, come ad esempio la “vite di Treasure City”, le nanospirali trovate nei pressi dei fiumi Narada, Kozim e Balbanyu, o il celeberrimo “geode di Coso“, divenuto prova inconfutabile delle proprie convinzioni per i creazionisti americani mentre era solo una candela d’auto incastonata in un sedimento d’argilla.

Per moltissimi altri, infine, la natura “inspiegabile” è dipesa spesso e volentieri da una forma di pareidolia, che ha portato gli scopritori e gli studiosi a guardare gli oggetti con occhi troppo contemporanei, e dunque a travisarne l’interpretazione, in maniera non troppo diversa da quanto è accaduto con l’astronauta di Palenque.

1) Il teschio di cristallo

Foto di Rafał Chałgasiewicz, da Wikimedia Commons, licenza CC BY 3.0

Una legge non scritta del cinema afferma che se il primo sequel è stato bello, e magari il secondo pure di più, come minimo il terzo sarà un abominio che griderà vendetta al cielo dei fratelli Lumière. Se poi il sequel l’ha pensato George Lucas, ha a che fare con una delle sue opere migliori e viene interpretato dagli stessi protagonisti ormai anziani e fuori parte, è sicuro che siete disgraziatamente incappati in Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, ultimo (lo speriamo tutti) episodio della serie, film brutto come poche cose al mondo e – come se non bastasse – dedicato a un reperto fanta-archeologico piuttosto scamuffo, niente a che vedere col Sacro Graal o l’Arca dell’Alleanza degli episodi precedenti.

Questa volta, infatti, Indy segue le tracce per l’appunto di un teschio di cristallo, presunto manufatto Maya che nella narrazione filmica tira in ballo un po’ di tutto, dalle piste di Nazca alle astronavi aliene, ma che anche nella nostra realtà è ritenuto oggetto gravido di mistero. Leggenda vuole che la perfetta levigatezza e forma dei teschi di quarzo non potesse essere ottenuta con le tecniche delle culture pre-Colombiane, e si tratti quindi di oggetti dotati di grandi poteri magici, che possono curare il cancro, prevedere il futuro, e, se riuniti in uno stesso luogo, potrebbero portare eventi straordinari (quest’ultimo argomento ebbe particolare successo quando si scatenò il panico da “profezia Maya sulla fine del mondo nel 2012”).

In realtà, nessuno dei numerosi teschi in circolazione è stato mai realmente ricondotto a uno scavo archeologico o al periodo di presunta creazione. Sottoposti ad esami approfonditi, anche quelli più famosi hanno mostrato segni inconfutabili di tecnologie moderne, ed è stato dimostrato come fosse possibile riprodurli in pochi giorni senza particolari difficoltà. Artefice della truffa è stato probabilmente Eugène Boban, antiquario specializzato in arte pre-Colombiana, rivenditore di almeno due dei tre più noti, ma non del teschio per antomasia, quello di Mitchell-Hedeges. Quest’ultimo lo acquistò probabilmente come regalo di compleanno per la figlia Anna, che in seguito ne raccontò il ritrovamento e ne difese la natura extra-ordinaria fino alla morte, impedendo qualsiasi ulteriore analisi del teschio dopo quelle condotte dalla Hewlett-Packard che non ne avevano riconosciuto l’origine moderna. Soltanto nel 2008 uno studio condotto al microscopio da Margaret Sax e Jane MacLaren Walsh ha dimostrato che il teschio era stato levigato a macchina e non poteva essere di fattura precolombiana.

Infine, nessuna delle due culture cui viene attribuita la creazione dei teschi, Maya e Inca, vi fa riferimento, e non è nemmeno chiaro perché mai delle civiltà sud-americane avrebbero dovuto intagliare e lavorare un’opera così mirabile dandole la conformazione dei teschi europei. Tuttavia, specialmente le correnti di pensiero New Age continuano ad attribuire ai teschi poteri sovrannaturali, ritenendoli come sempre portatori di una conoscenza superiore preclusa a noi poveri umani.

2) L’Aliante di Saqqara

Foto di Dawoudk da Wikimedia Commons, licenza CC BY-SA 3.0

Uno degli esempi più significativi di OOPArt reso tale da una pareidolia concettuale: per me, che ho le doti pittoriche di una pallina da baseball e li disegno così da quando avevo due anni, l’oggetto ritrovato nella necropoli vicino a Il Cairo è indiscutibilmente un uccello, ma c’è chi invece ha voluto ravvisarvi di nuovo le prodigiose conoscenze degli Egizi e vi ha invece visto un aereo, al punto da arrivare a costruirne dei modelli in scala per verificarne l’aerodinamicità. E non è l’unico caso di reperto funerario scambiato per un velivolo: anche alcune delle statuine d’oro rivenute nella tomba di Quimbaya secondo alcuni erano l’antichissima raffigurazione di un jet. D’altra parte, l’idea che in un’epoca remotissima l’umanità fosse già stata in grado di spiccare il volo è una delle più amate dagli alternativisti di tutto il mondo: ricordate il caso degli aerei indiani risalenti a 7000 anni fa di cui abbiamo parlato qui?

In buona sostanza, come ci ripeterebbe fino allo sfinimento Occam, spesso la spiegazione a un mistero è quella più semplice: se ci sono decine di altri reperti raffiguranti animali, che dovevano essere oggetti rituali per le sepolture, è estremamente probabile che lo siano anche questi, e nessuno degli indizi in nostro possesso ci induce a ritenere diversamente.

3) La macchina di Anticitera

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Immagine da Wikimedia Commons, licenza CC BY-SA 3.0

Se l’essere fuoritempo di un manufatto è spesso “negli occhi di guarda”, questo è ancora più vero nel caso del meccanismo o macchina di Anticitera, che per lunghissimo tempo ha lasciato sconcertati gli studiosi in quanto davvero non sembrava collocabile nel quadro di conoscenze scientifiche e tecnologiche comunemente attribuite ai greci dell’epoca.

La macchina fu rinvenuta nel 1900 da un gruppo di pescatori che avevano trovato rifugio su un isolotto durante una tempesta, lì dove nel I secolo a.C. era naufragata una nave romana. Fra i molti reperti, emerse appunto anche questo meccanismo, composto di 30 ruote dentate in bronzo e coperto di iscrizioni in lingua greca. Due cerchi concentrici fregiavano la parte frontale: uno riportava i nomi dei mesi ed era suddiviso in 365 giorni, mentre l’altro era suddiviso in 360 gradi e riportava i segni dello zodiaco. Ci vollero circa 70 anni, di cui 20 di lavoro da parte del professor de Solla Price, per decifrare il macchinario e comprenderne la natura di calendario astronomico per predire eclissi e movimenti astronomici, oltre alle Olimpiadi.

Si tratta di un reperto eccezionale, unico nel suo genere (qualcuno dice che è più prezioso della Monna Lisa, molti lo definiscono il primo computer analogico della storia), che ha gettato nuova luce sulla cultura dell’epoca, e che tuttora spinge gli studiosi a effettuare ricostruzioni, esperimenti e ricerche sul luogo del ritrovamento nella speranza di trovare i pezzi mancanti. In molti sono propensi ad attribuire ai Babilonesi le conoscenze usate ad esempio per far muovere i pianeti secondo una corretta orbita ellittica, altri ritengono che si tratti invece principalmente del frutto del grande progresso culturale che aveva trasformato la civiltà greca in civiltà ellenica, costringendoci quindi davvero a ripensare la nostra consueta visione dell’epoca. Non è nemmeno possibile escludere che ulteriori sviluppi possano aprire nuovi scenari.

Nel frattempo, se volete vederne una ricostruzione funzionante, potete deliziarvi con la versione Lego.

Foto di Thomas Griggs da Unsplash

4) L’Isola di Pasqua

Sì, applicare la definizione di artifact a un’intera isola può sembrare un po’ eccessivo, ma in realtà è una sineddoche più che lecita: l’isolotto che misura un’estensione totale di 163,6 km quadrati (meno dell’Isola dell’Elba) per circa 6000 abitanti è veramente uno dei luoghi più misteriosi della Terra e, nonostante i decenni di studi archeologici e storici, molto ancora rimane da decifrare dell’antica popolazione che probabilmente proveniva dalla Polinesia e vi si insediò forse intorno al 1200 o prima, percorrendo fra i 2600 e i 3200 km a bordo di canoe (Rapa Nui è tuttora il luogo al mondo che dista maggiormente dal più vicino insediamento umano). Sono le supposizioni più plausibili, basate su datazioni al carbonio, studio cronogottolici, interpretazioni delle leggende locali, etc., ma vi è pochissimo di certo. La popolazione originale fu sterminata dalle carestie, dall’impoverimento ambientale dell’isola (oggi pianura, ma originariamente boscosa) e dalla tratta degli schiavi che seguì l’arrivo degli europei. Nel 1876 i Rapa Nui superstiti erano 111, di questi solo 36 ebbero figli da cui discendono i 3500 attualmente viventi.

In un contesto così fumoso e remoto, leggenda e storia si mescolano in maniera inestricabile e l’unicità di molti dei reperti rinvenuti sull’isola non può che titillare il senso-alieno degli alternativisti. Innanzitutto, come è noto, ci sono infatti i Moai, le gigantesche statue che ne sono il simbolo, in realtà figure intere e non sono solo teste come siamo normalmente portati a credere, a causa delle prime testimonianze fotografiche giunte in Occidente. Ai tempi, infatti, erano rimaste in piedi solo quelle interrate fino alle spalle, dopo che – per ragioni ancora non chiarite – le altre erano state abbattute, forse dagli abitanti o forse da un terremoto, creando quindi la convinzione diffusa che siano tutte così. In realtà, la maggior parte delle statue ha anche busto e braccia, e guardano all’entroterra, ad eccezione dei sette uomini rivolti verso il mare “in attesa che torni il loro Re”; è stato persino possibile restaurarne una per dare un’idea di come fossero in origine, scoprendo che alcune erano sormontate da un copricapo di pietra lavica rossa (pukao) ed erano dotate di occhi, bianchi con pupille nere o rosse. L’intera conformazione dei Moai, unita alle dimensioni mastodontiche e alla mitologia dell’uomo uccello, porta gli alternativisti a sostenere l’origine ultraterrena delle statue, soprattutto perché non si spiegano altrimenti come possano essere state erette (sì, Erich van Daniken colpisce ancora). In realtà, già nel 1989 Thor Heyerdahl aveva dimostrato come fosse possibile trasportarle dalla cava ove venivano scolpite tramite funi e tronchi; tuttavia, nell’esperimento di Heyerdahl il Moai risultava danneggiato dal trasporto, mentre uno studio su campo del 2012 ha dimostrato un’ipotesi ancora più affascinante: i Moai venivano trasportati già eretti, con un sistema di funi che li facevano oscillare avanti e indietro dando l’impressione che camminassero, proprio come raccontava una leggenda locale.

Ancora più affascinante e per ora ancora irrisolto è l’enigma del rongorongo, un apparente sistema di proto-scrittura trovato inciso su poche decine di tavolette per lo più di legno, di cui sopravvivono solo 26 esemplari (dei quali appena la metà è in buone condizioni e sicuramente originale). Sebbene le leggende raccontino che il padre fondatore dell’isola avesse portato con sé le tavolette iscritte dalla propria terra natia, l’unica datazione al carbonio effettuata ha collocato l’esemplare dopo il 1680. La scrittura è stata decifrata in un unico caso, che è risultato essere un calendario lunare: la studiosa che per prima approfondì la tematica riteneva che fosse appunto un sistema di proto-scrittura, quindi non fonetico ma concettuale, e che i simboli venissero di volta in volta reinterpretati dai diversi scribi. Altri invece suppongono che la scrittura fosse riservata a sacerdoti e nobili, e per questo quasi nessuno dei superstiti o dei loro discendenti è mai stato in grado di tradurre le tavolette.

In Rete potete trovare facilmente blog e siti i cui autori dichiarano di star traducendo il rongorongo (scusate, ma anche la tastiera si rifiuta di copiare e incollare certi link) e di aver quindi scoperto che si tratta di una scrittura – sorpresa! – aliena. Altri, più modestamente, vi ravvisano tratti simili a quelli di scritture di altre parti del mondo che non avrebbero potuto entrare in contatto coi Rapa Nui dell’epoca; qualcun altro vuole riconoscere nel minuscolo spicchio di terra tutto ciò che rimane di Atlantide, o di Mu, o del continente di Lemuria.

A leggere queste teorie viene sempre un po’ da sorridere: banali spiegazioni sempre uguali di alieni col gps rotto e continenti disintegrati da un raggio fotonico quando dall’altra parte, a rispondere al perché qualcuno abbia viaggiato 3000 km a bordo di una canoa o abbia voluto erigere un megalite in onore dei propri déi, c’è la multiforme, sorprendente, grandiosa varietà dell’agire umano.

Immagine di apertura di Enrique Meseguer da Pixabay

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