Pagine Scettiche

Pagine scettiche – I misteri di Udolpho, di Ann Radcliffe

Inauguriamo una nuova rubrica dedicata a libri e film usciti ormai da qualche anno e che trattano il sovrannaturale e lo scetticismo in maniera diversa e inattesa. Naturalmente, gli articoli contengono spoiler e anticipazioni per chiunque non abbia letto o visto le opere trattate.

Durante il secolo scorso ero una giovane studentessa liceale molto appassionata di Jacopo Ortis e Werther, Baudelaire e gli Scapigliati. Tuttavia, un attento osservatore dotato di sguardo pungente avrebbe già potuto notare come in nuce stesse maturando la scettica razionalista che sono poi diventata in vecchiaia, prendendo ad esempio in considerazione quella certa tendenza all’approfondimento dettagliato (e maniacale), per cui dovevo necessariamente leggere tutto ciò che si riteneva dovesse essere conosciuto su un dato argomento. Di conseguenza, quando sono arrivata alla letteratura gotica inglese del ‘700 e ‘800 non potevo accontentarmi di leggere i classiconi (e Dracula è una di quelle esperienze che piegherebbero spiriti molto più indomiti), ma dovevo per forza partire dagli albori del genere e possibilmente proseguire in ordine cronologico. Quindi, dopo essermi avventurata nei meandri de Il Castello di Otranto, per il diploma mi regalai I misteri di Udolpho, che credo si piazzi abbastanza in alto nella classifica di “libri più citati e meno letti” (oltre a fare a gara con il suddetto castello e un altro paio di opere per il titolo di “primo romanzo gotico della storia”).

Ovviamente, in qualità di giovane studentessa con la testa troppo piena di romanticherie, mi avvicinai al testo sacro con la certezza di star per ricevere un’epifania di qualche tipo, la parola ultima e definitiva su quel grandissimo genere letterario che era il gotico. Non sapevo cosa mi aspettava.

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Frontespizio della traduzione francese di Victorine de Chastenay (1798), da Wikimedia Commons, pubblico dominio

Dall’alto delle sue numerosissime pagine, I misteri di Udolpho è uno di quei romanzi con cui il tempo non è stato troppo clemente e gli anni che ha (la prima edizione inglese è del 1794) si sentono tutti: descrizioni lunghissime, linguaggio arcaico, ambiente e paesaggi usati come rafforzativo dei sentimenti del personaggio, trama piuttosto semplice ma tirata molto per le lunghe.

La storia credo sia abbastanza nota: nella Francia di fine ‘500, la giovane Emily St. Aubert rimane orfana ed è costretta ad andare a vivere con una zia che non la ama e che ben presto sposa un (presunto) nobile italiano. Emily deve seguirli nel castello di lui, a Udolpho (tipico nome degli Appenini), lasciando l’uomo di cui è innamorata. Durante la permanenza a Udolpho, Emily subisce la crudeltà di Montoni, la perdita della zia e deve fare i conti con gli inquietanti segreti del castello, tra cui un cadavere lasciato a marcire dietro una tenda nera. Passo passo, il lettore è invitato a condividere la paura costante in cui vive la giovane fanciulla, il terrore provocato dall’isolamento e dalla cupezza del luogo, finché Emily non riesce a scappare e riunirsi con il suo Valancourt.

Proprio perché è una lettura lenta e tutto sommato poco gratificante (intendiamoci: fa abbastanza paura, ma niente che uno Stephen King d’annata non possa battere in due pagine), in pochi sanno che I misteri di Udolpho cela una segreto: al termine delle avventure di Emily, pochissime pagine prima della parola “fine”, Ann Radcliffe offre di colpo una spiegazione razionale dei misteri che tanto avevano terrorizzato la ragazza e che di paranormale non avevano nulla. La svolta fu talmente inattesa da lasciarmi sconcertata: ma come? Nel capostipite di tutta la letteratura gotica inglese la paura è frutto solo del punto di vista della protagonista e non reale? Per mille pagine mi tieni sulle spine con gli orrori del castello e le malvagità di Montoni, e poi in due capitoletti scarni mi smonti tutto quello che avevo creduto di vedere? L’assassina non era veramente tale? Il cadavere era una statua di cera? Non erano fantasmi quelle figure inquiete, ma persone in carne e ossa che entravano da una porticina segreta?

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Ann Radcliffe, da Wikimedia Commons, pubblico dominio

Non avendo ai tempi letto altro della signora Radcliffe, non sapevo che questa era una caratteristica ricorrente della sua poetica: a differenza di altri autori suoi epigoni e successori, infatti, in tutte le sue opere Ann Radcliffe ha scelto una conclusione il più possibile razionale dei misteri descritti, convinta che la malvagità fosse sempre di origine squisitamente umana. Questo sottotesto morale si ritrova di frequente nella narrativa gotica, dove i “cattivi” vengono puniti per i loro misfatti e la giovane eroina può coronare il suo puro e innocente sogno d’amore, ed è sopravvissuto ai secoli e alle mode temporanee, tanto da ritrovarsi ancora oggi in molte opere dell’orrore (per citare di nuovo Stephen King, quanti dei suoi romanzi, a partire da It L’Ombra dello Scorpione, non sono altri che giganteschi apologhi della lotta fra Bene e Male?). Al contrario, invece, la possibilità di una spiegazione razionale è stata spinta sempre più ai margini del genere letterario fino a esserne esclusa quasi completamente, per essere adottata invece dalla letteratura “gialla” e similare.

Eppure, come in tempi recenti alcuni critici stanno riconoscendole, lo scopo principale della Radcliffe sembra proprio essere quello di smontare le interpretazioni sovrannaturali degli eventi, propendendo fin dall’inizio verso una visione poco emotiva della vita, dove la ragione deve farla da padrone sulle emozioni. Non a caso, l’amatissimo padre di Emily in punto di morte le raccomanda di non lasciarsi dominare dai bei sentimenti, perché “we become the victims of our feelings, unless we can in some degree command them” (diventiamo vittime dei nostri sentimenti, se non possiamo in qualche misura governarli): trattandosi del personaggio positivo fra gli adulti che circondano Emily, è facile pensare che l’autrice l’abbia eletto portavoce della propria visione del mondo, per poi guidare l’eroina su un percorso di formazione che la conduce alle stesse conclusioni. Tra l’altro, Emily stessa – proprio come la sua creatrice – ha dei tratti abbastanza emancipati per una donna dell’epoca (non ultimo il fatto che è lei a ereditare il patrimonio ed accettare di sposare l’ormai povero Valancourt).

Insomma, il feilleuton di Ann Radcliffe sembrerebbe essere rimasto vittima del proprio successo, che ha decretato la fama dell’aspetto più “superficiale”, quello di  progenitore di tutti i castelli infestati e gli spettri inglesi dal diciottesimo secolo in poi, e facendone dimenticare la sottigliezza più sofisticata e intrigante per il lettore moderno e scettico.

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