Speciale Vittorio Pesce Delfino: il ricordo di Luigi Garlaschelli
Quando iniziai a collaborare col CICAP, nei primi anni Novanta, la mia curiosità fu presto attratta dalla Sindone di Torino, dal dibattito sui recenti risultati (1988) della datazione col radiocarbonio (che la condannava come falso medievale) e sui misteri veri o presunti che tale immagine generava. Raccoglievo frattanto materiale da studiare, leggevo articoli scientifici e libri scritti dai noti sindonologi Emanuela Marinelli, Baima Bollone e altri. Ovviamente, nel grande numero di testi autenticisti, possibilisti o dubbiosi, ne spiccavano due. Uno era “Inquest on the Shroud of Turin”, di Joe Nickell, del 1987. L’altro era “E l’uomo creò la Sindone” di Vittorio Pesce Delfino, del 1982.
Si tratta di due libri che per la prima volta, tra molte altre cose, raccontavano in modo divulgativo i vari retroscena della nascita della Sindone, comparsa in Francia nel 1355 circa – quindi dopo tredici secoli di non-esistenza – e subito bollata come semplice rappresentazione dalla Chiesa stessa. Sulla base dei risultati delle prime approfondite analisi condotte nel 1978 dal gruppo di scienziati americani dello STURP, sia Pesce Delfino che Nickell proponevano metodi semplici per generare un’immagine con le caratteristiche volute, ma che si dicono misteriose e irriproducibili.
Le analisi spettrali dello STURP indicano che l’immagine del corpo ha proprietà estremamente simili a quelle delle bruciature, ancora ben visibili, che la Sindone subì in un incendio nel 1532. Nel suo rapporto finale lo STURP considera sia l’ipotesi di una strinatura che quella di una disidratazione chimica come molto verosimili, pur ammettendo che la reale origine dell’immagine non è risolta.
Vittorio Pesce Delfino, nel 1982, postulava infatti l’uso di un bassorilievo di metallo riscaldato. Appoggiandovi sopra un telo, questo si strina leggermente, permettendo di ottenere automaticamente un’impronta negativa, indistorta, sfumata, indelebile, non pittorica, con informazioni tridimensionali, ecc.
Il docente di Bari, in anni nei quali i computer erano ancora poco diffusi, analizzò con tecnologie digitali l’intensità della luminosità nei punti del volto della Sindone, riportando il tutto in una specie di mappa tridimensionale che servì poi allo scultore Gagliardi per creare un bassorilievo di bronzo, molto piatto.
Il libro e i risultati di Pesce Delfino fecero scalpore, perché per la prima volta venivano ottenute immagini visivamente molto simili alla Sindone di Torino, mostrate anche sui mass media, uscendo dal ristretto dibattito tra gli “specialisti”.
Naturalmente, da anni i sindonologi tentavano di ottenere immagini simil-sindoniche utilizzando vari metodi, diciamo così, non miracolistici, ma con scarsi risultati.
Io stesso ho avuto per le mani una delle tele di Pesce Delfino, che egli aveva regalato (le produceva quasi “in serie”) ad Adalberto Piazzoli, all’epoca vicepresidente del CICAP e mio collega presso l’Università di Pavia; e in seguito lo incontrai anche di persona ad uno degli eventi CICAP. Pesce Delfino, tra l’altro, era divenuto ben presto garante del gruppo regionale CICAP-Puglia.
Dopo che io stesso avevo eseguito la mia riproduzione della Sindone con un metodo diverso dal suo, lo incontrai ad un convegno promosso dall’UAAR a Roma dal titolo “Sindoni a confronto” dove egli illustrò i suoi risultati con la consueta energia.
E ancora recentissimamente mi è pervenuto il gesso originale che lo scultore Gagliardi aveva utilizzato nella fusione del famoso bassorilievo.
Lo storico Andrea Nicolotti, autore del definitivo saggio “Sindone – Storia e leggende di una reliquia controversa”, aveva contattato Pesce Delfino, il quale lo aveva indirizzato a Gagliardi. Grazie alla loro gentilezza, il gesso è ora nel mio laboratorio, in attesa di essere riprodotto in resina per studi futuri.
Benché ingegnosa e ingiustamente trascurata, questa tecnica – recentemente “riscoperta” da uno studioso americano (scettico) della Sindone – presenta ovvie difficoltà nel controllo della temperatura dei due bassorilievi necessari (uno per la parte anteriore, e uno per quella posteriore) e del breve tempo per il quale il telo deve essere premuto su di essi. Il rischio è di non ottenere alcuna immagine, o al contrario di bruciare il telo. Inoltre, le strinature sono fluorescenti alla luce UV, a differenza dell’immagine della Sindone di Torino.
Il secondo metodo, proposto da Joe Nickell nel 1983 e poi ripreso e completato da me, si rifaceva al suggerimento dello STURP sulla possibile origine dell’immagine per degradazione chimica, anzichè termica, della cellulosa delle fibre di lino.
Nickell parte ancora da un bassorilievo (di gesso, o legno, a temperatura ambiente) su cui si dispone un telo. Questo viene poi strofinato con un tampone e del colore in polvere, a secco, per esempio ocra rossiccia. Nel corso dei secoli l’ocra si sarebbe persa, ma tracce di impurezze varie contenute nel pigmento iniziale avrebbero prodotto la debole immagine residua che ammiriamo oggi.
Vittorio Pesce Delfino, ovviamente, si era occupato di innumerevoli altri argomenti e campi di ricerca, e il suo curriculum scientifico è davvero impressionante. Instancabile, immaginifico, combattivo, controcorrente, sempre impegnato socialmente, lascerà un vuoto difficile da colmare.
Luigi Garlaschelli