A che punto è la notte

A che punto è la notte 25 – Giganti, fate e altri scheletri misteriosi

Con questa rubrica facciamo il punto sui mysteri di vecchia data, che esercitano ancora tutto il loro fascino pur essendo già stati smentiti e razionalmente spiegati. Oggi parliamo di strani ritrovamenti archeologici.

In una reminiscenza dei miei vecchi amori di giovinezza, quelli che puoi coltivare solo perché da giovane hai davvero TANTO tempo libero, avrei voluto intitolare questo articolo “Care salme”, nella speranza che qualche lettore un po’ più agée (o dai gusti musicali terribili quanto i miei) riconoscesse l’incipit del celebre brano di Garinei e Giovannini tratto dalla commedia musicale Alleluja brava gente.

Tuttavia, uno scappellotto in testa dalla mia personalissima fatina del buonsenso (che tende a essere leggermente assertiva e poco dialettica) mi ha ricondotto a più miti consigli: di qui il titolo che mi pare discretamente auto-esplicativo.

Di casi in cui ricerche archeologiche, scavi per altri scopi o la mera casualità abbiano portato alla luce tombe e scheletri dalle caratteristiche uniche e anomale se ne danno parecchi, ad esempio tutti quelli che hanno trasposto nella sepoltura il legame sentimentale delle persone decedute, come la madre che abbraccia il neonato da più di 4000 anni a Taiwan, o quelli che vengono definite le coppie di innamorati, perché trovati seppelliti abbracciati, di cui l’esempio forse più celebre (quantomeno, il primo ad essere stato rinvenuto) è quello degli amanti di Valdaro, a Mantova. Chiaramente, si tratta sempre e solo di interpretazioni ex post: è impossibile dire perché quei due scheletri siano stati sepolti in quel modo, magari erano fratelli, genitori e figli, o magari chi li ha seppelliti ha voluto comunicare un messaggio di altro tipo. E anche la madre con bambino, per essere davvero definita così, dovrebbe prima essere sottoposta ad un esame del DNA (per esempio, un ritrovamento analogo in quella che viene chiamata la Pompei cinese, sottoposto al test del DNA mitocondriale ha svelato che i due scheletri, seppure nella stessa posizione di quelli di Taiwan, non sono madre e figlio.)

Al di là di questi casi, che pur passibili di interpretazioni diverse, possono comunque essere ricondotti a ciò che sappiamo del nostro passato, esistono altri ritrovamenti archeologici che hanno dato molto da discutere agli studiosi, e per alcuni c’è voluto persino un po’ per rivelarne la natura di bufala.

1 – L’uomo di Piltdown

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Foto di Anrie, da Wikimedia Commons, licenza CC BY-SA 3.0

Talmente famoso che diventa quasi pleonastico parlarne, e tuttavia impossibile lasciarlo fuori da una lista di ritrovamenti archeologici storici.

Il dibattito intorno alla teoria darwiniana dell’evoluzione era nel 1912 nel pieno del suo fulgore, e vedeva contrapporsi principalmente coloro che ritenevano che il cervello si era evoluto prima del corpo e gli studiosi che sostenevano invece l’esatto contrario. In quell’anno, quindi, un paleontologo dilettante offrì al British Museum il suo straordinario ritrovamento, avvenuto in una cava del Sussex: il cranio di un ominide, dotato di una mascella ancora scimmiesca.

In pratica, l’anello mancante, che dimostrava senza ombra di dubbio che l’evoluzione era stata spinta dallo sviluppo cerebrale dell’uomo e non il contrario. Chiaramente, trattandosi del ritrovamento di un reperto del Pleistocene non sorprendeva la mancanza di alcuni frammenti, quale ad esempio l’osso di congiunzione fra il cranio e la mandibola: sebbene qualcuno nutrisse dei dubbi, l’uomo di Piltdown venne inserito nella catena evoluzionistica e tutti lo accettarono come parte del percorso che l’uomo ha fatto per arrivare fin qui.

Tuttavia, col passare degli anni e l’aumentare dei ritrovamenti archeologici che in nessun modo supportavano l’ipotesi di un “anello Piltdown”, sempre più scienziati cominciarono a sospettare il trucco e finalmente, negli anni ’50, la possibilità di svolgere analisi più avanzate rispetto a quelle del 1912 (non ultimo il metodo del carbonio 14) permise di dimostrarne definitivamente la natura di frode. Si trattava infatti di ossa provenienti da un uomo e da una scimmia di poche centinaia d’anni prima entrambi (in un caso 500 e nell’altro 600), che erano state invecchiate ad arte, così come i denti – che tanta rilevanza avevano nella dimostrazione della tesi sostenuta – erano stati limati per assumere la conformazione di quelli tipici di un ominide.

Insomma, era tutto falso, creato ad hoc… ma da chi? e a che scopo? Sono passati sessant’anni e queste due domande non hanno ancora avuto risposta: i possibili indiziati sono diversi, a partire da Charles Dawson, l’autore del “ritrovamento”, e gli studiosi continuano ad effettuare analisi sui reperti nella speranza che i risultati li aiutino a trovare il colpevole. Personalmente, e se avete letto gli episodi precedenti di questa rubrica sapete anche perché, la mia ipotesi preferita è quella che identifica l’autore della bufala in niente meno che Sir Arthur Conan Doyle. Certo, di indizi a suo carico ce ne sono diversi: fra tutti, le strane coincidenze narrative che si ritrovano fra la vicenda di Piltdown e il suo romanzo Il Mondo Perduto, uscito nel 1910, due anni prima il ritrovamento di Dawson. Di cui, guarda un po’, Doyle era anche amico.

Purtroppo, prove concrete a sostegno della teoria non ce ne sono, ed è altamente improbabile che le cose siano andate in una maniera così romanzesca: in attesa di nuove informazioni, però, io continuo a crogiolarmi nell’ipotesi, immaginando per una volta il geniale creatore di Sherlock Holmes trasformarsi non più nel credulone che chiunque riusciva a beffare, ma nel sottile ideatore di una burla che ha ingannato tutti per più di 40 anni.

Foto di acblobo da Pixabay

2 – Le tombe dei giganti

E’ inverosimile e sorprendente la quantità di sostenitori che la teoria dei giganti continua ad avere. Ci sono decine e decine di pagine su Internet i cui autori si lanciano in dotte disquisizioni volte a dimostrare che, anzi, è più probabile che siano esistiti che non il contrario, portando a riprova foto sgranate di documentazioni secretate e di scheletri più finti di quello che appendo alla porta la notte di Halloween (e nei 15 giorni precedenti, ma perché ho il feticismo delle decorazioni, tutte.) E, inoltre, naturalmente, tutti i teorici dei progenitori giganti ci tengono a sottolineare che di giganti parla sia la Bibbia sia un enorme numero di tradizioni e culture del passato, di conseguenza non può non essere vero.

Su quest’ultimo punto, oggettivamente, non è possibile liquidare l’affermazione come se niente fosse, perché una narrazione che attraversi orizzontalmente epoche e culture ha alte probabilità di avere un fondamento nella realtà, ma la spiegazione, ancora una volta, potrebbe essere più semplice di quelle proposte dagli alternativisti: ad esempio, potrebbe essersi trattato di individui affetti da gigantismo, che in tempi in cui l’altezza media era inferiore a quella attuale dovevano sembrare ancora più spaventosi, oppure, come spiega Massimo Polidoro, potrebbe essere stata la risposta che ci si dava di fronte a reperti archeologici di dimensioni imponenti.

Al contrario, i fautori dell’esistenza dei giganti non sanno spiegare come mai, a parte i presunti scheletri, non siano mai stati rivenuti artefatti di sorta che potessero avvalorare l’esistenza di queste creature: avranno pur cacciato, o mangiato, o dormito sotto un riparo? E dunque come mai non si danno punte di frecce giganti, o insediamenti anomali? Né tantomeno gli alternativisi sono disposti a tenere in considerazione l’impossibilità fisica di una struttura corporea come quella che avrebbero dovuto avere i presunti giganti. Cioè, in realtà una spiegazione ci viene fornita, ma è sempre la solita: i documenti sono stati nascosti, le prove sono state eliminate, non ce lo vogliono far sapere, sveglia!!111!! (Per inciso, l’articolo sulla presunta distruzione da parte dello Smithsonian Institute era satirico.)

La maggior parte delle foto che attesterebbero questi ritrovamenti, ovviamente, sono state smentite più e più volte: le più celebri vengono da alcuni contest che si tennero in passato su un sito specializzato (oggi chiuso), una addirittura fu mostrata durante una trasmissione sull’emittente Coast to Coast AM, che noi ben  conosciamo per una storia di pozzi senza fondoaltre sono frutto di ritocchi Photoshop che non sembrano nemmeno particolarmente difficili da fare.

Visto il clamore della faccenda, che periodicamente torna a circolare in Rete, con dislocazioni geografiche sempre diverse e però quasi sempre le stesse foto, il National Geographic ha pubblicato un articolo in cui smentisce categoricamente l’esistenza di ritrovamenti anomali di tal genere.

3 – I teschi di Paracas

Anche questa vicenda ha inizio diversi decenni fa, negli anni ’20 del secolo scorso, quando l’archeologo Julio Tello porta alla luce i resti di un’antica civiltà andina (700-100 a.C.), tra cui alcuni bizzarri teschi dalla forma molto allungata.

Gli studiosi e gli scienziati ammirarono come doveroso i manufatti, senza però rimanere sconcertati: la pratica di deformare volutamente il cranio è nota e diffusa in molte culture antiche, pertanto non si trattava di niente che un qualsiasi antropologo non conoscesse già. Ma se nell’universo alternativista le cose fossero così semplici noi con cosa riempiremmo le pagine di questa rubrichetta?

Infatti, e ovviamente, per tutti coloro che credono in un contatto primordiale fra uomini e alieni, i teschi di Paracas sono sempre stati la prova provata evidente e inconfutabile che entità diverse dall’uomo hanno anticamente popolato questo piccolo pianeta ai confini dell’Universo, venendo addirittura a morirvi. Grande sostenitore di questa ipotesi è Brien Foerster, definito “un’autorità” in materia, che è stato anche il portavoce degli straordinari risultati ottenuti un paio d’anni fa dai test del DNA condotti su alcuni resti. Si noti che Foerster è vicedirettore del museo di Paracas, di cui è proprietario uno dei membri del team di ricerca, se aveste bisogno di farvi mettere una pulcetta nell’orecchio. Chi abbia esattamente condotto i test non è dato sapere: il museo ha affidato alcuni reperti a Lloyd Pye, scrittore alternativista celebre per essere stato convinto per tutta la vita che il cranio di bimbo morto per idrocefalo appartenesse in realtà a un ibrido uomo-alieno, il quale a sua volta li ha passati alla genetista che avrebbe campionato il DNA di Bigfoot, ma nessuno dei due è effettivamente l’autore dell’analisi. Secondo Foerster, infatti, quest’ultimo vuole rimanere anonimo.

Quando avete finito di ridere riprendiamo, eh.

Sì, è tutto estremamente improbabile, a partire dallo studioso che scopre del DNA alieno (mitocondriale, occhio, siamo specifici) e non corre a Stoccolma a prendere il Nobel, ma la storia ha avuto enorme successo fra i vari siti di sostenitori delle teorie alternative e degli antichi astronauti: nel frattempo sono passati due anni dalla “scoperta” e noi siamo ancora in attesa degli sviluppi e aggiornamenti promessi da Foerster.

“Deformazione cranica”, cultura Proto-Nazca. Foto di Didier Descouens, da Wikimedia Commons, licenza CC BY-SA 4.0

4 – I reperti di Thomas Merrylin

Nel 2006 a Londra fu effettuata una scoperta sorprendente: sotto un orfanotrofio abbandonato, si celava infatti un seminterrato dimenticato da tutti ed ermeticamente chiuso. La stanza era piena di casse, il cui interno celava l’enorme collezione che lo zoologo Thomas Theodore Merrylin aveva raccolto nel corso dei numerosi viaggi che avevano costellato la sua lunghissima vita, condotta sempre in maniera un po’ appartata, forse anche per evitare le strane dicerie sul proprio conto: correva infatti voce che Merrylin sembrasse non invecchiare mai, un po’ come Dorian Gray, di cui Oscar Wilde aveva raccontato nel romanzo pubblicato un secolo dopo la nascita dello studioso. Lo stesso edificio dove poi fu rivenuta la collezione è stato donato nel 1942 alla città di Londra da un uomo la cui identità è rimasta sconosciuta, ma che somigliava molto a Merrylin, tanto da far sospettare quantomeno una parentela.

Ma cosa aveva collezionato esattamente e cosa fu ritrovato nelle casse? Semplice: reperti, scheletri e teschi appartenenti a numerosi esemplari di criptidi, ossia animali e creature leggendarie. Fate, vampiri, demoni, draghi, licantropi, sono tutti ordinatamente descritti ed etichettati oggi nel museo che prende il nome dallo scienziato, ma che è sfortunatamente chiuso al pubblico: tuttavia, potete osservare i diversi esemplari sul ricchissimo sito dell’organizzazione che lo gestisce. Per chi scrive, che come ormai saprete ha una certa predilezione per la criminologia, è particolarmente interessante la cassetta contenente i resti legati agli omicidi di Jack lo Squartatore.

Vi pare bizzarro che scoperte di questa portata non siano state nemmeno preliminarmente esaminate da studiosi e scienziati che potessero confermarne l’autenticità? Non siete strani voi, è proprio ben più che bizzarro, e forse potrebbe dipendere dal fatto che colui che si definisce il curatore della collezione altri non è che il creatore dell’intera storia e di tutti gli  esemplari proposti, noto in Rete come Alex CF.

Solo una bella storia virale, ma che merita uno sguardo, perché gli esemplari sono davvero ben realizzati.

5 Capitolo bonus – Il vampiro di Venezia

Questa è una storia tutta italiana, che inizia quando uno scavo archeologico riporta alla luce uno strano teschio: nella bocca è stato infatti saldamente conficcato un grosso mattone. Ma da chi e perché? Un’equipe italiana, guidata dall’antropologo forense Matteo Borrini, ha studiato i resti della sepoltura per un intero anno, scoprendo età, dieta, e anche la ragione per cui era stata sottoposta a quella strana offesa post-mortem: si trattava infatti di un’anziana donna fra i 60 e i 70 anni morta durante l’epidemia di peste nera a Venezia e che era stata probabilmente ritenuta un vampiro. Anzi, non proprio un vampiro, ma più precisamente un Nachzehrer, masticatore di sudari, che si riteneva suggesse energia vitale da chiunque passasse nei pressi della sua tomba, per poi risorgerne come non-morto. L’unico modo per impedirglielo era di conficcargli qualcosa fra i denti e spiccarne la testa dal corpo. Così è stata ritrovata la vampira veneziana, ma la storia di come sia stata ricostruita l’intera vicenda – sebbene l’ipotesi “vampiresca” non sia unanimemente accettata fra gli studiosi, –  di come alla donna ormai manchi solo il nome perché tutto il resto è tornato alla luce dalle nebbie del passato è una vicenda avvincentissima che vi consiglio di recuperare nel caso ve la foste persa (esiste anche un bel documentario del National Geographic Channel).

Foto di apertura di Travis Grossen da Unsplash

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