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Alla scoperta dell’effetto placebo nei bambini

Il placebo è un effetto terapeutico sottovalutato al di fuori dell’ambiente medico, ma che influenza la salute di tutti – tanto gli adulti quanto i bambini. Spesso, quando viene dimostrata la non efficacia di una terapia, ci si sente rispondere che “se funziona anche sui bambini, non può essere placebo”.
Dopo aver affrontato quindi le basi e l’applicazione del placebo in ambito medico sui pazienti adulti, Query Online torna sull’argomento per capire in che modo agisce il placebo nei bambini, e come questo venga affrontato nella ricerca medica: intervistiamo quindi la prof.ssa Maria Luisa Barbaccia, ordinaria di Farmacologia presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”.

In che modo siamo soggetti all’effetto placebo?

È noto da molto tempo che un effetto placebo (dipendente dalle aspettative del paziente e del medico, dall’ esperienza di precedenti trattamenti, da un rapporto fiduciario ottimale tra medico e paziente…) può anche associarsi all’assunzione di farmaci di dimostrata efficacia.

Se l’effetto placebo corrisponde al miglioramento di salute indotto dalle aspettative terapeutiche di un paziente, può spiegarci, in breve, come viene sfruttato l’effetto del placebo nella ricerca farmacologica?

Un placebo è costituito da una preparazione farmaceutica che non contiene principio attivo, ma che è indistinguibile dalla preparazione farmaceutica che lo contiene, sia nell’aspetto che nelle caratteristiche organolettiche. Il placebo è oggi usato negli studi clinici volti a valutare il profilo di efficacia terapeutica e la sicurezza di farmaci nuovi o utilizzati per nuove indicazioni. Qualsiasi beneficio riscontrato anche nel gruppo che riceve placebo è attribuito ad un effetto non specifico o, comunque, non dipendente dal meccanismo biologico su cui agisce il principio attivo.

Questo vale anche per la ricerca pediatrica?

Prodotti per la somministrazione di placebo (immagine di pubblico dominio tratta dagli archivi del governo federale USA)
Prodotti per la somministrazione di placebo (dagli archivi del governo federale USA, via Wikimedia Commons, pubblico dominio)

Mentre nella pratica clinica potrebbe essere positivo un effetto placebo che si aggiunge all’effetto farmacologico vero e proprio, negli studi clinici volti a valutare nuovi farmaci, l’effetto del placebo (così come l’effetto placebo derivante dall’assunzione del farmaco) è un elemento di disturbo alla comprensione delle reali proprietà farmacologiche e terapeutiche del farmaco. Nell’ambito degli studi clinici strutturati come, ad esempio, quelli randomizzati controllati con placebo (nel gergo medico “pc-RCT”, ovvero “placebo-controlled randomized clinical trials”) l’attenzione a questo aspetto nell’età pediatrica si è sviluppata in epoca relativamente recente. Essendo stato riconosciuto come un diritto inalienabile del bambino (nelle varie fasi di sviluppo) quello di ricevere trattamenti medici e farmacologici appropriati che non solo abbiano dimostrato un profilo rischio/beneficio favorevole nelle diverse fasce d’età, ma anche che siano stati testati per identificarne i dosaggi ottimali in ambito pediatrico, da circa 15-20 anni (prima negli USA e poi in EU) sono, infatti, iniziati RCT che includono anche i minori, fino ad allora esclusi dalla ricerca farmacologica perché considerati particolarmente vulnerabili proprio in quanto organismi in via di sviluppo.

Esistono quindi vincoli etici più rigidi nella somministrazione di placebo nei bambini rispetto agli adulti?

Dato che non è considerato eticamente accettabile somministrare placebo a “fini terapeutici”, questa domanda riguarda l’uso del placebo nei RCT, che come già detto è talora indispensabile per determinare la reale efficacia di un farmaco. Premessa la grande utilità degli studi clinici farmacologici in ambito pediatrico, possiamo dire che esistono vincoli etici più rigidi perché il minore è più vulnerabile dell’adulto e non è in grado di essere direttamente coinvolto nel processo decisionale¹. L’uso del placebo è generalmente accettabile se:

  • non esiste ancora un trattamento standard per una data patologia;
  • il trattamento standard non è più efficace del placebo;
  • il profilo rischio/beneficio del trattamento standard non è ottimale;
  • il trattamento standard ha un costo molto elevato o non è disponibile.

Inoltre, secondo quanto affermato dal Consiglio d’Europa “la ricerca (biomedica/farmacologica) può essere condotta sul minore solo se i risultati della ricerca hanno il potenziale di portare beneficio diretto alla sua salute”, quindi, mettendo in secondo piano il consenso a partecipare basato sul principio di altruismo.

Foto di Pavel Danilyuk da Pexels

Quali sono le differenze nell’azione dell’effetto placebo nei bambini rispetto agli adulti?

In generale, sono stati evidenziati due fattori principali in grado d’influenzare la risposta al placebo: aspettative nei riguardi del trattamento e condizionamento, ma anche processi di apprendimento (per associazione o per imitazione) possono entrare in gioco. Data l’elevata capacità di apprendimento del bambino, è presumibile che questi meccanismi possano essere accentuati nell’età pediatrica rispetto all’adulto². Nell’ambito delle patologie psichiatriche, ad esempio la depressione, i meccanismi responsabili del maggior effetto placebo sembrano essere diversi in bambini ed adolescenti. Infatti solo negli adolescenti, ma non nei bambini, il maggior contatto con il personale medico dello studio ed il convincimento di ricevere un trattamento “attivo” sembrano giocare un ruolo importante.

Esistono studi sperimentali che dimostrano che l’entità dell’effetto placebo nei bambini è particolarmente rilevante per specifiche patologie?

Generalmente, come peraltro per gli adulti, l’entità dell’effetto placebo è maggiore in tutte le situazioni che prevedano esiti basati su autovalutazione o risposte soggettive (scale per la determinazione della percezione del dolore, scale per la depressione/ansia), piuttosto che esiti oggettivi (guarigione da un’infezione, riduzione della frequenza di crisi convulsive). È osservazione abbastanza comune che a parità di entità dell’effetto farmacologico, bambini e adolescenti siano più responsivi all’effetto del placebo in studi sulla depressione, emicrania, ADHD (“Attention Deficit and Hyperactivity Disorder”).

C’è una correlazione tra gravità della patologia ed entità dell’effetto placebo?

In particolare nelle patologie psichiatriche, analogamente a quanto accade nell’adulto, anche in età pediatrica l’effetto placebo sembra essere tanto maggiore quanto meno severa è la condizione clinica di base. Un aspetto che, secondo alcuni autori, può derivare dal fatto che talora i genitori diano un quadro peggiore del reale della situazione del figlio, al fine di agevolarne l’inclusione nello studio. Questo tipo di comportamento potrebbe risultare in una maggiore influenza dell’effetto placebo. Altri fattori possono influenzare l’entità dell’effetto placebo, ad esempio la modalità di applicazione dello studio o il tipo di scale utilizzate per valutare gli esiti.

Esattamente come accade negli adulti, i bambini sono soggetti al “nocebo“, ovvero a reazioni o eventi avversi associati all’assunzione di una determinata sostanza inerte?

Sì, ad esempio diversi studi descrivono la presenza di effetto nocebo anche nella popolazione pediatrica arruolata in RCT. Sono stati descritti effetti avversi simili e con simile incidenza nel gruppo con farmaco attivo ed in quello con placebo³. Può, però, non essere facile discriminare un reale effetto nocebo (dovuto, ad esempio, ad aspettative negative sul trattamento da parte del paziente o del genitore, ad esperienze negative di trattamenti precedenti o anche ad un’informazione non bilanciata da parte del medico circa gli effetti positivi e quelli negativi attesi dal trattamento) dall’evoluzione naturale della malattia o dalla mancata risposta al farmaco.

Si può quindi concludere che il placebo nei bambini ha caratteristiche analoghe a quelli in età adulta, e la differenza più rilevante risiede nei vincoli etici verso i pazienti nell’età dello sviluppo.

Note:

1. Di Pietro ML et al., Ital J Pediatrics 41 (11), 2015
2. Weimer K et al., Pediatric Res 74: 96-102, 2013
3. Zaccara G et al., Epilepsy res 108: 1685-1693, 2014; Rojas-Mirquez JC et al., Front Behav Neurosci 8, article 375, 2014

Foto di apertura di Patou Ricard da Pixabay

7 pensieri riguardo “Alla scoperta dell’effetto placebo nei bambini

  • Premettendo doverosamente che l’articolo parla di placebo in pediatria, e non di vaccini omeopatici, tengo a sottolineare che AsSIS (Associazione di studi e informazioni sulla salute) è in realtà un ente molto legato al Dr. Roberto Gava, le cui posizioni antivacciniste di omeopata professionista non lo rendono certo privo di bias. In ambito scientifico, non esiste il principio di autorità, in cui è il parere di una sola persona a sostenere l’attendibilità di una teoria; il processo di applicazione deve seguire i canoni della dimostrazione scientifica. E la comunità scientifica, ad oggi, per la maggior parte sostiene – attraverso la ricerca – l’opposto di quanto sostenuto dal Dr. Gava.
    I vaccini (“tradizionali”) sono privi di rischi? No. I vaccini (“tradizionali”) sono inutili? No: per più ragioni, permettono di arginare (e in alcuni casi debellare) patologie dalle complicanze pericolose, e/o di limitarne la nocività dei sintomi. Ci sono persone che riportano “danni da vaccino”? Sì; per esempio, nel caso del vaccino del morbillo, si tratta di un caso ogni circa 1.000.000 vaccinati. Di contro, l’88% dei casi di morbillo in Italia riguarda persone non vaccinate (con buona pace di chi sostiene che il vaccino non funzioni), e un ammalato di morbillo ogni (circa) 3.000 casi non sopravvive alla malattia o alle sue complicanze.
    Dall’altra parte abbiamo i “vaccini omeopatici”. Dal punto di vista chimico, si tratta al 100% di zucchero (o altro vettore, ma consideriamo acqua “dinamizzata” spruzzata sullo zucchero). L’acqua è una molecola molto semplice, e (prendendo con umorismo una questione ben seria) ben due IgNobel a Benveniste ricordano che è priva di qualsiasi memoria. Quando Hahnemann ne teorizzò le proprietà, ancora non erano chiari la struttura atomica dell’acqua e dei suoi ioni, e soprattutto la fisica nucleare; oggi sappiamo che le teorie di Hahnemann non hanno un fondamento scientifico che le supporti (e che, secondo me, i sostenitori dell’omeopatia dovrebbero spiegare PRIMA, e non dopo, la proposizione di protocolli di preparazione). E non hanno nemmeno troppa evidenza terapeutica, visto che la quasi totalità degli studi fatti con la dovuta perizia continuano a dare risultati paragonabili al placebo. Per cui si torna sempre all’ennesima questione: è meglio sprecare energie immense per dimostrare che dell’acqua spruzzata sullo zucchero dia qualche beneficio, o è meglio continuare a concentrarsi a migliorare progressivamente l’efficacia dei vaccini, il cui funzionamento è ben conosciuto, approvato e assodato, per debellare le malattie?

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  • dinamizzazioni?non significa nulla ,non e’ spiegabile, stregoneria pura.

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  • Io non paragonerei le dinamizzazioni, l’omeopatia annessi e connessi alla stregoneria, ma alla fede. Anche con la fede, la preghiera e i riti religiosi si ottengono cure e guarigioni (anche “miracolose”), dal mio punto di vista semplicemente effetto placebo.

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  • @ 51m0, alla fede per chi crede, per chi non crede rimane la stregoneria.comunque d’accordo con te, effetto placebo 30CH 😉

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  • Ma perché accettate i commenti dei ciarlatani… chi parla di omeopatia….cure dinamiche……… sono disturbati mentali…non meritano di avere voce..

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  • Caro Orazio Panasci, siamo tutti soggetti a bias e ciascuno, in qualche campo, tende a essere più suscettibile degli altri. Inoltre – ed è importantissimo sottolinearlo – lo scopo del CICAP non è “impugnare la spada dei paladini contro la pseudoscienza”, ma garantire una corretta informazione scientifica, anche e soprattutto verso coloro che, per ragioni diverse, non posseggono competenze professionali verticali alla discussione. Per questo motivo, sono bene accetti i commenti di tutti; l’importante è che ciascuno, per sé, garantisca un livello civile di discussione, e che si possa presentare gli argomenti attraverso la verifica del metodo scientifico. Al di là di questo, non esiste autorità alcuna che abbia il diritto di zittire o censurare gli argomenti. Credere nell’omeopatia non significa essere disturbati, ma ignorare le riprove scientifiche a riguardo, selezionando solo le riprove (oggettivamente scivolose) che confermano le proprie teorie. Certo, è un approccio non corretto; ma accade in molti altri campi, e può colpire chiunque, anche fra gli scettici. Gli stessi debunker non sono liberi da bias; l’importante non è censurare le opinioni, ma confrontarle con i dati.

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