Il trillo del diavolo: “Goliath”
In questa rubrica di Query Online raccontiamo, un brano alla volta, la musica intrisa di scienza e misteri: è il turno di Capossela.
“Un’opera ciclopedica, una marina commedia fuori misura“: è così che Vinicio Capossela ha definito il suo ottavo album, Marinai, profeti e balene (2011): un concept album ispirato al mare e alla morte, diviso tra una prima parte “oceanica e biblica” e una seconda “omerica e mediterranea”.
Ma soprattutto, nell’album compaiono tutte le creature del folklore marino, tra leviatani, sirene, abissi, balene bianche, leggende epiche, fuochi fatui (o meglio fuochi di Sant’Elmo) e foche barbute. E così, in un’alternanza continua di registri e generi musicali, si passa dalle canzoni sguaiate della sirena “Pryntyl” (che canta in sirenese) alle note blues di “Billy Budd” (basato su un romanzo di Melville).
Numerosissimi i riferimenti letterari: dalla Bibbia all’Odissea, da Lord Jim all’immancabile Moby Dick. Ma tra tutte le storie raccontate dal Capitan Capossela, quella più curiosa è forse quella di Golia, la balena della CIA.
La canzone si dipana al ritmo di un semplice organetto a manovella, mentre il cantante-imbonitore invita a visitare la carcassa della balena Goliath, che assurge a totem e simbolo cosmico degli istinti più bassi dell’animo umano, “nella santa anarchia del caos primordiale”. Fino a quando lo spettacolo finisce e ci si accorge finalmente che era tutta finzione, e anche la carne della balena cola via, lasciando solo il biancheggiare delle ossa.
L’ispirazione arriva da una storia vera: Goliath (poi italianizzata in Golia) era era lunga 22 metri, pesava 68 tonnellate e nel 1954 era stata pescata al largo di Trondheim, in Norvegia, insieme alle “compagne” Hercules e Jonah (ma potrebbe esserci stato anche un Eric, in tour per la Gran Bretagna). I tre cetacei erano stati quindi svuotati delle interiora e trattati con formalina, dando vita a delle insolite “attrazioni ambulanti” che potevano essere portate di città in città su grossi automezzi: per una modica cifra i visitatori potevano sperimentare il brivido di stare nel ventre di una balena.
Golia arrivò in Italia grazie all’impresario torinese Giuseppe Erba, che la trasportò fortunosamente attraverso il confine (Erba racconterà perfino di aver attaccato un motore alla coda del cetaceo per ingannare la polizia frontaliera, che non vedeva di buon occhio l’importazione di quel gigantesco animale morto; ma potrebbe essere una boutade dell’istrionico impresario, e una verifica è ormai impossibile).
Nel luglio del 1954 la balena fu esposta nel centro di Torino, in un grosso tendone circondato da un recinto con i colori della bandiera norvegese, per la gioia di grandi e piccini. C’era però un piccolo particolare che l’impresario non aveva valutato: ebbene sì, la balena puzzava. Forse era il fatto che si era a luglio, forse i 7000 litri di formalina non erano bastati; fatto sta che l’odore era evidente e la gente protestava. La Stampa del 22 luglio ne faceva un ritratto impietoso:
Golia puzza. E’ una constatazione elementarissima e inequivocabile. Sarà il suo naturale odore di cetaceo (un po’ stantio, eh sì), sarà un’incipiente putrefazione, sarà la formalina; ne risulta un miscuglio che nessun profumiere accetterebbe nel suo campionario.
Forse la Stampa aveva esagerato un po’, e la putrefazione non era così incipiente: fatto sta che il tour del cetaceo proseguì. Golia viaggiò per anni in tutta Europa passando da impresario a impresario, da città a città, e le fu concesso di passare anche oltre cortina; fino a quando, nel 1969, venne danneggiata irreparabilmente durante un trasporto via mare. Il proprietario dell’epoca, Gustavo Cottino, decise allora di sostituirla con una riproduzione in cartapesta, risolvendo così anche il problema dell’odore. Ma prima della sua fine ingloriosa, Goliath ebbe modo di arrivare in Ungheria e trasformarsi in leggenda metropolitana: nel clima paranoico da guerra fredda, infatti, cominciarono a girare voci sul fatto che si trattasse di un espediente ideato dalla CIA per testare il trasporto di un missile sulle dissestate strade ungheresi. Perché altrimenti portarsi in giro un camion da 22 metri, con un peso che poteva benissimo essere paragonabile a quello di un ordigno nucleare? Insomma, per gli ungheresi la storia puzzava. E forse non solo quella.
TESTO |
Venite, vedrete, è arrivata la balena: si porta sulla schiena tutta la storia del cosmo. E’ la più grande del mondo, ma viaggia sulle ruote e si chiama Goliath. |
Ha perso la vita ma ha salvato la pelle: entrateci in bocca e vedrete le stelle; il grande meccano dell’universo sovrano perché la balena è un cannone puntato sull’abisso del cielo, un telescopio vivente tra la vita e il niente. |
Venite, vedrete, è arrivata la balena e io la cavalco sul cocchio della schiena perché sono il cavaliere nano dell’Apocalisse. |
Vedrete anche Ulisse che si affanna a tornare, le sirene, i ciclopi e le creature del mare, dimenticate da Noè nell’arca della pancia. |
Non badate all’odore dell’artista ambulante: è pur sempre una carcassa di taxidermista, la carne imputridita gli cola sulla pista. |
La balena è un totem, è il nostro sacrificio, il suo occhio vacuo e spiaggiato che ancora si ostina a guardare innocente come madre, come i fanciulli di Erode. |
E io la porto a voi affinché possiate liberarvi e brutalmente desiderare e selvaggiamente uccidere e picchiare e stuprare e sbranare nella santa anarchia del caos primordiale finché tutta la carne sia colata di dosso. |
E restino lustre e di sasso le ossa e ritorni l’ordine del silenzio iniziale. |
Foto di Gordon Johnson da Pixabay