Arsenico e vecchi decotti: quando la tradizione è miope sulla tossicologia delle piante
Articolo di Renato Bruni (Professore Associato in Biologia Farmaceutica, Università di Parma e autore di Erba volant. Imparare l’innovazione dalle piante [Codice, 2015])
Per risolvere i contenziosi familiari, l’aristocrazia ha spesso usato sistemi di avvelenamento lento che, dai Borgia in poi, prendevano eufemisticamente il nome di poudres de succession, ovvero polveri di successione.
Il loro scopo era quello di sciogliere senza tracce i nodi gordiani delle eredità, eliminando gli aventi diritto e spianando la strada ai rami dotati di genealogie meno favorevoli. Si trattava infatti di sostanze con doti tossicologiche ben chiare agli appassionati di libri gialli: agire senza dare nell’occhio rivelando la propria natura letale solo dopo lungo tempo, quando ogni rimedio era tardivo. La tossina vegetale che ammazza stecchiti al primo sorso, ad esempio, restringe presto la cerchia dei sospetti e offre la speranza di un antidoto (talvolta curiosamente rappresentato da un’altra tossina derivata da piante, come nel caso dell’atropina). Al contrario un veleno cronico, che indebolisce progressivamente l’organismo a basse dosi portando lentamente a morte certa, assicura più garanzie mortali. Modiche ma regolari quantità di arsenico e piombo nei cibi chiedevano infatti solo la pazienza di attendere un decorso caratterizzato da sintomi collegabili a normali malesseri eppure capace di garantire dopo un certo tempo un decesso “per cause naturali”.
Questi piccoli omicidi tra amici, oltre a dare lavoro agli storici, si applicano bene alla modesta affidabilità del sapere tradizionale legato alle piante. Mentre infatti è relativamente facile associare la tossicità acuta di una pianta al suo consumo, quella a lungo termine resta più imperscrutabile se gli strumenti di analisi sono basati sulle sole percezioni umane.
Un caso recente, che conclude una serie di indagini pluridecennali, illustra bene come l’effetto poudre de succession possa riguardare alcune piante usate anche oggi dall’uomo.
Quando scienza unisce i puntini, si rivela il disegno
Popolazioni separate o residenti in luoghi diversi possono soffrire di patologie renali un tempo distinte e note come nefropatia endemica dei Balcani e chinese herbal nephropathy (CHN).
La prima è diffusa nel basso corso del Danubio ed è legata all’alimentazione, mentre la seconda colpisce persone che hanno assunto alcuni prodotti derivati dalla medicina tradizionale cinese, in genere dimagranti o per il trattamento dell’artrite. L’esito finale più evidente in ambedue i casi consiste in una grave insufficienza renale a cui fa seguito un elevatissimo rischio di carcinoma delle vie urinarie, fenomeni che nella versione balcanica si manifestano solo dopo 10 anni (durante i quali non si manifesta alcun sintomo) e che nella CHN emergono prima, ma comunque in un arco variabile tra tre mesi e due anni. Minimo comune denominatore tra i due casi, il coinvolgimento di piante in grado di produrre una sostanza chiamata acido aristolochico, ingerite inconsapevolmente in quantità minime nel caso balcanico e in quantità più elevate nel secondo caso, cosa che giustificherebbe il diverso tempo di risposta. Solo le valutazioni fitochimiche e tossicologiche degli ultimi decenni hanno permesso di collegare tra loro come punti di un disegno queste due patologie ritenute un tempo indipendenti, di individuare la causa scatenante comune e di sollevare la criticità di un sistema che tende a demandare al sapere tradizionale la definizione della sicurezza a lungo termine.
L’acido aristolochico deve il suo nome al genere botanico Aristolochia e vanta una struttura simile a quella di molte molecole mutagene. La sua metabolizzazione nel fegato crea composti capaci di indurre un’alta probabilità di generare cellule tumorali maligne a reni, uretra, vescica. Le piante che producono questo acido non sono molte, ma diverse di esse sono infestanti nei prati o usate come piante medicinali in vari continenti rientrando in rimedi ipotensivi, antireumatici e per turbe gastrointestinali. Come la polvere di successione, l’acido aristolochico agisce in modo subdolo, senza offrire segnali misurabili con le normali analisi delle urine o del sangue fino a che l’insufficienza renale non diviene irrimediabile. Questo avviene nei Balcani, quando i cereali sono contaminati da tracce di Aristolochia non eliminata da un attento controllo in campo o da accurate selezioni del raccolto e quando si assumono in modo continuativo prodotti contenenti acido aristolochico in grandi quantità, come nel caso della CHN e in nessuno dei due casi la tradizione è stata in grado di collegare la causa con il problema soprattutto per via della lentezza con cui la patologia si manifesta. In ambedue i casi l’unico trattamento possibile consiste nella dialisi o nel trapianto e si parla ormai di un’unica patologia chiamata “nefropatia da acido aristolochico”. Non tutti i consumatori esposti a questa sostanza naturale sono tuttavia colpiti allo stesso modo: esiste un 5% della popolazione che, per effetto di un diverso metabolismo epatico, risulta molto più a rischio.
Le regole sono importanti
La pericolosità dell’acido aristolochico è in realtà nota da tempo, soprattutto da quando il mondo medico ha iniziato a disporre di strumenti diagnostici che possono superare il limite della difficile associazione tra cause e sintomi a lungo termine. La sua tossicità renale risulta nota all’OMS da decenni, al punto che è considerato un cancerogeno più potente dei derivati della combustione nel fumo di sigaretta e già da molti anni l’uso di piante che lo contengono è strettamente normato. Nel 2001 le autorità statunitensi hanno imposto il ritiro dal mercato di tutti i prodotti contenenti Aristolochia e in Europa il suo impiego è vietato da ancora prima: il consumatore odierno che si rifornisce tramite canali ufficiali non rischia la vita per colpa di questa sostanza.
Più critico è invece il motivo che ha portato sul mercato una sostanza notoriamente tossica per il mondo scientifico. La risposta porta sul piano normativo, in quanto sebbene i prodotti erboristici siano oggetto di valutazioni tossicologiche che coprono in modo adeguato i rischi acuti, quelli a lungo termine restano potenzialmente scoperti. Innanzitutto, non si può dare la colpa alle piante: si difendono e fanno il loro gioco. Né si può dire che sia colpa delle medicine tradizionali: hanno operato bona fide, con gli strumenti pre-tecnologici che avevano a disposizione. Si può però opinare sul sistema che l’uomo usa per regolarne l’impiego odierno, anteponendo aspetti commerciali alla sicurezza dei consumatori. Il Dietary Supplement Health and Education Act promulgato negli USA nel 1994, ad esempio, non richiede che i prodotti salutistici a base di piante siano dotati di provata efficacia e sicurezza prima dell’immissione in commercio, ovvero non impone per le aziende alcuna valutazione previa del rapporto rischio-beneficio. Nella UE, Italia inclusa, i derivati di piante medicinali possono essere registrati come fitoterapici, con requisiti di sicurezza e di efficacia simili a quelli dei farmaci veri e propri, oppure come integratori alimentari, per i quali nessuna dimostrazione di efficacia è richiesta e per i quali sono disponibili liste di piante autorizzate e non (l’aristolochia sta fortunatamente tra le seconde). In ambedue i casi la tossicologia a lungo termine è demandata a due fonti: la tradizione d’uso, implicitamente assunta come garanzia di sicurezza, ed eventuali ricerche già disponibili, valutate solo se segnalate dall’azienda al momento della notifica o a seguito di reazioni avverse segnalate in post-vendita.
Le piante della successione
Fondare la stima della sicurezza a lungo termine solo sulla tradizione è critico per più ragioni.
Innanzitutto, le pratiche di somministrazione delle medicine tradizionali sono figlie di contesti a basso contenuto tecnologico ma risultano scomode e commercialmente sfavorevoli nei paesi industrializzati. Questo ad esempio porta a impiegare dosaggi differenti o a sostituire la forma del decotto con estratti e compresse, che di fatto hanno un profilo di efficacia e un potenziale tossicologico diversi da quelli misurati dalla tradizione. La diffusione globalizzata di un rimedio vegetale implica inoltre una crescita esponenziale del numero di persone esposte alle sostanze chimiche vegetali: non più popolazioni ristrette a una regione, ma estese all’intero pianeta. Questo incrementa la probabilità di incontrare problemi impossibili da riscontrare con strumenti non tecnologici, come ad esempio la somministrazione di aristolochia a quel 5% di popolazione in cui la pianta colpisce più gravemente l’apparato renale. Inoltre, l’uso etnomedico di molte di queste piante non è assimilabile a quello alimentare e limitato a periodi limitati, con una sottostima del rischio in caso di dosaggi maggiori o assunzioni ripetute come quelle suggerite per prodotti che il consumatore è stato educato a percepire come sicuri a prescindere.
Il recente collegamento tra nefropatie e consumo di prodotti a base di aristolochia riscontrato a Taiwan, dove questa droga è tuttora liberamente venduta, conferma queste preoccupazioni. L’uso tradizionale di una pianta non è un indicatore sicuro della sua sicurezza, in particolar modo nei casi in cui la correlazione causa-effetto è impossibile da definire con gli strumenti tipici delle medicine etniche. La difficoltà nell’individuare questi problemi non vanno sottovalutate e la valutazione della tossicità a lungo termine di piante poco studiate non andrebbe delegata alle sole indicazioni tradizionali, pena il rischio di aprire la porta alla libera vendita di versioni perfettamente naturali di quella poudre de succession tanto cara alla nobiltà meno attenta all’etica.
Finalmente un articolo che, pur non essendo uno specifico attacco agli “integratori alimentari” almeno ne evidenzia la quasi nulla “ricerca scientifica” a difesa delle proprietà proclamate. E allora, coraggio: il loro fatturato è almeno 50 volte, world wide, quello dell’ Omeopatia.
http://www.federsalus.it/news.php?id=1385
Il mio caso favorito è quello del Cortinarius Orellanus, fungo fino a una sessantina d’anni fa ritenuto commestibile e invece gravemente tossico e a volte mortale.