Folletti fra Bologna e Cesena a cavallo del 1500
Folettos. Possiamo immaginare che l’autore del seguente brano, tratto dagli Otia Imperialia (1, 18, capitolo intitolato “Fauni e satiri”) e risalente al 1210 circa, avesse appreso il termine qui nell’Europa meridionale, invece che nelle brume dell’Inghilterra orientale dove era nato:
Ve ne sono anche altri, che il popolo chiama folletti [“folettos”], che abitano nelle case dei semplici contadini [“simplicium rusticorum”] e che non sono scacciati né dall’acqua [benedetta] né dagli esorcismi, e, poiché non sono visti, entrando in pietre, legname e suppellettili domestiche, le affliggono, e le loro parole si odono comunque come voce umana [lett.“secondo il costume umano”,“nel modo umano”], e le loro immagini non appaiono.
L’autore, Gervasio di Tilbury (c. 1150-1220), visse infatti a lungo in Italia e in Provenza, studiando anche legge presso l’università di Bologna, tappa quasi obbligata per chi, nel XII secolo, volesse addottorarsi in diritto. Secondo la base dati del TLIO (Tesoro della lingua italiana delle Origini) il termine folletto è documentato nel XIII-XIV secolo in testi milanesi, toscano-veneti e fiorentini, sia nel senso, che a noi qui interessa, di creatura demoniaca, sia in quello di buffone o di persona furiosa (Dante, nel canto XXX dell’Inferno). Diminutivo di folle, in quel periodo sembra fosse attestato come folet ‘genio malizioso’ anche nel francese (già nel XII sec.?) e occitano antichi.
Nel Rinascimento, come ricordava l’italianista Fabio Giunta in un suo interessante saggio dedicato alla figura di Torquato Tasso (1544-1595), “il folletto appartiene ancora al fol[k]lore e alla cultura magica del Cinquecento” (e noi potremmo aggiungere “non solo!”).
Storie di folletti le scrissero, infatti, Gerolamo Cardano (1501-1576) nel De Rerum Varietate (1557, l. XVI, c. XCIII, pp. 661-2) raccontandone una accaduta a Pavia negli anni ‘60 del XV secolo che aveva visto protagonista il padre Fazio (una vicenda recentemente analizzata da Guido Giglioni), e ancora l’esorcista Girolamo Menghi (1529-1609) riportandone, almeno a partire dall’edizione del 1586 del suo famosissimo Compendio dell’arte essorcistica, due ambientate a Bologna, nel 1579 e nel 1580, che aveva “visto con i proprij occhi”. Un folletto, poi, tormentava Tasso nella cella in cui era confinato a Ferrara (ce ne parla il succitato Giunta e, ancora, lo psichiatra Vittorino Andreoli sul numero di novembre 2017 di Mente & Cervello) e un altro è detto responsabile “di quei giuochi di dal man” di un prestigiatore, Girolamo Scotti (fl. 1568-1610)!
In realtà, col “nome vulgare” di folletto erano accomunate disparate figure folkloriche, con funzioni e manifestazioni differenti, che dovevano avere denominazioni distinte nei diversi dialetti, nomi che solo occasionalmente vengono riportati dalle fonti. Succede per esempio, nel 1548, con un grammatico di origini ferraresi, Francesco del Bailo detto l’Alunno (1485?-1556), che nella sua Fabrica del mondo aveva scritto che folletto è una
spetie di spirto aereo in bocca del vulgo, et fa cose pazze, et vane, et alcuni lo dimandano Mazzaruolo [il mazzarolo padovano e/o il mazaròl delle Dolomiti], tali Mazzapengolli [il mazapégul romagnolo [1]], et altri altrimenti.
E ancora, cinquant’anni dopo, con il medico Scipione Mercurio (1540/50?-1615?) che nei suoi De gli errori popolari d’Italia (1603, 102v-103r) menzionò il pisocco o pesarolo padovano: due dei tanti nomi della “fauna dell’incubo” di cui ci ha parlato Sofia Lincos su Query.
Meno note rispetto a Cardano e Menghi sono, invece, le brevi narrazioni che appaiono in due cronache cinquecentesche di Bologna e Cesena. Proprio queste andremo ora ad esaminare avvertendo che, per non appesantire l’articolo, i due testi li potrete trovare in fondo.
Giacomo Gigli (1448-dopo il 1513) e Giuliano Fantaguzzi (1453-1532?) erano quasi coetanei, essendo nati a cinque anni di distanza l’uno dall’altro. Quando però il secondo scrive la sua cronaca (Occhurentie et nove, “Occorrenze e nuove”), intorno al 1520/21, l’altro doveva essere già scomparso da un po’. Il primo era uno strazzarolo – un commerciante di indumenti nuovi e usati – bolognese, il secondo un esponente dell’Arte della Lana a Cesena, entrambi benestanti, con una buona cultura umanistica e impegnati nelle istituzioni locali. Il racconto del bolognese è più “fresco”, “personale”, “approfondito” rispetto al cesenate. Una sorta di memorato (“io […] facia memoria” scrisse) come direbbero i folkloristi. Gigli infatti annotò, probabilmente nell’immediatezza degli eventi, quanto era accaduto nella sua casa (o meglio nelle sue case, perché il folletto seguì la famiglia anche quando, per l’estate, questa si trasferì sulle colline fuori Porta San Mamolo). Fantaguzzi, invece, scrisse di quanto era avvenuto in casa d’altri oltre vent’anni prima, facendo precedere il racconto da altri due eventi ancora più remoti nel tempo.
Benestanti, dicevamo. E di folletti urbani, in case di benestanti (non di “semplici contadini”, come Gervasio), scrivono i nostri due autori. All’inizio del mese di giugno del 1508, Gigli racconta che “cominciò uno spirto per nome vulgare chiamato Foletto a fare de molte e varie cose in casa mia”; mentre Fantaguzzi gli fa eco parlando del 1497: “uno spirito overo folletto” si era manifestato in casa di Benvenuta, sorella di Gaspare Martinello. I due cronachisti incasellano quanto di meraviglioso avevano visto accadere o avevano saputo essere accaduto attraverso quella denominazione volgare, che almeno forniva una struttura.
Ma che faceva questo spirito? Se altri folletti si davano da fare con i lavori domestici (è il caso delle altre due storie citate da Fantaguzzi: “avea un folletto in casa el quale la serviva” e “servivalla facendolli le bugate e cosina et letto e spazavalli la casa”) questo non accadeva nelle due vicende che stiamo esaminando, dove è più molesto: “cominciò a guastare lo letto dele massare [=serve] et fare strepido de mandare suso e gioso [=su e giù] lo calçedro [=“recipiente di rame col fondo tondo” ci racconta Francesco Guccini, utilizzato per attingere e conservare l’acqua] dela cusina di sopra” nel caso di quello di Gigli, mentre “di continuo faceva svoltare uno bacile in torno e sonarlo” in quello di Fantaguzzi. Cose comunque “le quale seriano da ridere a nararle” come chiosa (quanto tutto era già finito…) il bolognese.
Del resto, come scriverà Girolamo Menghi (che, c’è da dire, una cinquantina d’anni dopo abitò nel convento dell’Annunziata dei frati minori osservanti, probabilmente a poche centinaia di metri dalla casa collinare dello strazzarolo) nella prima edizione del suo Compendio (1576, l. 1, c. II, pp. 9-10; nelle successive edizioni il passaggio, ampliato, si troverà nel c. V):
pochissimo possono nuocere, & offendere; ma solo si pigliano piacere nel tempo di notte in far alcuni strepiti, & rumori, & alcuna volta attendono a far burle, & giuochi, & altre cose da scherzo, le quali spesse volte sono da alcuni udite, & viste, come appare in molti luoghi, & case; le quali sono disturbate da certi romori la notte, & ancho molte volte il giorno fatti da’ Demoni, come fanno gettando hora pietre, & travagliando gli huomini col loro sbattere, & parimente quando appaiono certi fuochi accesi, & altre delusorie operationi, queste cose spessisime volte sono fatte per opra di questi tali Demoni, i quali non possono offendere gli huomini in altro modo, che in questi effetti ridicolosi, & inutili, costretti & legati dalla infinita possanza di Dio, & questi sono chiamati in lingua Italiana Foletti.
“[F]are strepito, romore, come [appunto] fa il foletto”, come scriveva Girolamo Vittori (ca. 1549-?), un lessicografo bolognese contemporaneo del già citato Scipione Mercurio (che a Bologna e a Padova aveva studiato), nel suo Tesoro de las tres lenguas (1609, sv rabater), un elemento distintivo che ricorre anche in una denominazione oggi comune, poltergeist (‘spirito fracassone’): proprio nel primo Cinquecento iniziò ad essere documentata in lingua tedesca, per essere poi ripresa dal trilingue Nuovo et ampio dittionario (1674) pubblicato a Francoforte sul Meno e dal quadrilingue Dittionario imperiale (1700) del francese “Giovanni Veneroni” (1642-1708) come traduzione, rispettivamente, di Mazzapengolo e di folletto.
Folletti innamorati quelli dei nostri, un tema studiato dall’antropologa Franca Romano diversi anni fa. Lo era quello quello di una delle storie “di repertorio” di Fantaguzzi (anzi: “el quale era gelloso de lei”). Lo erano quelli del 1497 e del 1508: “inamorato de la Gentile sua masara [=serva] gioveneta venerea” (Fantaguzzi) oppure “parendomi el fusse invaghito de Casandra” (Gigli), figlia naturale del figlio Geronimo. Tanto che, in quest’ultimo caso, una sera il folletto avrebbe preso un contenitore dalla stanza del nonno Giacomo, ne avrebbe tratto due anelli e li avrebbe messi al dito di Cassandra, rimettendo poi tutto a posto alla fine.
Per quanto pochissimo potessero nuocere, le serve di Gigli non dovevano essere troppo entusiaste di un folletto che disfaceva loro i letti… Come liberarsi dello sgradito ospite? Il padrone di casa ricorse “ala benedictione dele case”. I teologi infatti consideravano i folletti (e, altrove, altre figure simili) angeli caduti, quindi demoni, seppure di poco conto, come scriveva sempre Menghi introducendo il passaggio riportato sopra:
de’ quali si ritiene che cadessero dall’infimo choro de gli Angeli, i quali oltra la pena essenziale, che è la privatione della visione della divina essenza, la quale si chiama da’ sacri Theologi la pena del danno, la quale patiranno eternamente, pochissime altre pene patiscono per li loro pochi peccati
Ma la benedizione, come per i folletti di Tilbury, per quello di Gigli non servì: “imperò a seguire lo intento suo per multi giorni” prima di andarsene. “I folletti sono temuti proprio perché sfuggono all’esorcismo, ed è quindi difficile liberarsene” notava Franca Romano nel succitato articolo.
Parlando di casi di poltergeist, scriveva Giuliana Galati qui su Query online:
si possono individuare delle caratteristiche costanti: gli episodi si manifestano in presenza di una particolare persona, detta “persona focale”; la quiete si ristabilisce non appena tale persona viene allontanata; i fenomeni non sono mai osservati direttamente dai presenti. Spesso l’autore dei fenomeni sta attraversando l’età adolescenziale e mostra disturbi emotivi. In altri casi, invece, può trattarsi anche di un vero e proprio tentativo di frode
Per quanto ci piacerebbe poter dire oggi cosa turbò oltre 500 anni fa la pace delle case di Benvenuta Martinelli o di Giacomo Gigli, dobbiamo tenere conto della natura delle fonti: ci dicono chi erano le persone al centro dell’attività dei folletti (i focal point della letteratura parapsicologica contemporanea), ma non ci raccontano nulla o quasi di chi erano Cassandra e Gentile e di quali erano i rapporti all’interno di quelle case.
Se escludiamo cause paranormali, ci troviamo forse di fronte a “giovani adolescenti, la cui presenza individuale non riesce ad affermarsi” (Romano) e che simulando la presenza di un folletto, riescono in un qualche modo, almeno per un po’ a capovolgere la situazione? Oppure si tratta di semplici burle scherzose? O ancora fenomeni di mass hysteria in cui eventi indipendenti (cadute di oggetti, letti non perfettamente rifatti etc., piccole “appropriazioni indebite” per gioco eccetera) sono interpretati all’interno dello schema folletto?
Non lo sapremo probabilmente mai, ma rimangono storie interessanti da rileggere anche oggi. E questa notte, in particolare.
Qui, per ragioni di spazio, ci siamo concentrati soprattutto su due piccole testimonianze dell’inizio del Cinquecento, ma sui folletti ci sarebbe ancora molto da dire. L’autore desidera ringraziare, in stretto ordine alfabetico, Nico Conti, Alessia Donzelli, Davide Ermacora, Andrea Ferrero, Sofia Lincos, Anna Rita Longo, Andrea Marcon e Simon Young per le riletture e gli spunti di cui, purtroppo, non sempre ha potuto tenere conto.
[1] È il caso di cogliere l’occasione per una notarella critica: nel contratto di vendita redatto dal notaio Gugliemo Prugnoli nel 1487 (documento citato in Rossi, Ida (1895). Il mazapegolo spirito folletto nella credenza popolare forlivese. Archivio per lo studio delle tradizioni popolari XIV, 530-531) che dovrebbe essere nel Notarile dell’Archivio dello Stato di Forlì, è ricordata una persona “cui vulgariter dicitur magistro Andrea Mazapegolo de Forlivoi”. Non sarebbe l’unico caso in cui l’onomastica sembrerebbe dovuta a nomi di folletti (Davide Ermacora ci ricorda un “magister Salvanellus Boccatorta” in Teofilo Folengo, che parebbe richiamare il salbanello del Veneto nord-occidentale) ma contrariamente a quanto si legge qua e là, di folletti in quel testo non si parla; la confusione potrebbe essere dovuta ad una lettura non contestualizzata di Spada, Dario (1989). Gnomi, fate, folletti e altri esseri fatati in Italia. Milano: SugarCo, p. 212. Sul Mazapegolo si veda ora quanto riporta Baldini, Eraldo (2014). Tenebrosa Romagna : Mentalità, misteri e immaginario collettivo nei secoli della paura e della «meraviglia». Cesena: Il Ponte Vecchio, pp. 314-326).
Immagine in evidenza: Foto di Mario La Pergola da Unsplash
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