Le resurrezioni effimere dei santuari a répit
Nella tradizione cristiana il destino delle anime senza battesimo ha sempre costituito un problema teologico non da poco: fino a un recente pronunciamento di Benedetto XVI, infatti, si credeva che non vi fosse salvezza senza questo sacramento, e che chi non lo avesse ricevuto sarebbe stato comunque destinato all’inferno. Che dire dunque di tutti quei bambini morti alla nascita? Dannati anch’essi, pur non avendo mai compiuto peccati?
Secondo Sant’Agostino sì, pur concedendo che quelle a loro destinate sarebbero state “fiamme mitissime”. Nel corso dei secoli diversi teologi congetturarono per loro l’esistenza del limbo: un luogo, certo, privo di fuochi o altre torture, ma che rimaneva pur sempre una parte dell’inferno, lontana dalla grazia di Dio.
La nascita di un bambino morto, quindi, rimase per molti secoli un doppio dramma: sia per la tragedia in sè, sia perché il piccolo non poteva essere sepolto in terra consacrata e i genitori non l’avrebbero potuto riabbracciare nell’aldilà. A meno di non finire pure loro all’inferno, ovviamente, ma la prospettiva non doveva essere particolarmente allettante.
Così la religiosità popolare fece nascere i santuari à répit (o della doppia morte). I genitori portavano i cadaverini in particolari chiese “specializzate”, trasportandoli con cavalli o semplici carriole in viaggi che potevano durare anche 15 giorni. E qui avveniva il miracolo: il bambino, durante un rituale che comprendeva rosari e litanie, tornava in vita per un solo respiro (“répit”, appunto, secondo un vocabolo usato in Piccardia; ma c’è chi pensa che questo termine possa ricondursi al concetto di “rispetto” o “intervallo”). Giusto il tempo di venire battezzato, e poi il neonato ritornava tranquillo alla morte.
La pratica si diffuse particolarmente tra il decimo e diciottesimo secolo in tutta l’Europa. In Italia sembra presente soprattutto nelle regioni del Nord, al confine con la Francia. Sono stati molto probabilmente santuari à répit la cappella di Sant’Orso a Piasco (CN), l’oratorio di Santa Maria della Gelata a Soriso (NO), il Santuario della Madonna delle Grondici a Panicale (PG). Ma la tradizione doveva essere più diffusa di quanto si pensi, secondo quanto ricostruito dalla storica Fiorella Mattioli Carcano nel suo “Santuari à répit. Il rito del «ritorno alla vita» o «doppia morte» nei luoghi santi delle Alpi“.
In realtà, leggendo i resoconti, di miracoloso c’era ben poco. Il rituale si svolgeva secondo regole precise e alla presenza di alcuni osservatori, tra cui spesso ostetriche o altri “esperti” che dovevano verificare i segni di resurrezione. Mentre si recitavano le preghiere per l’anima da salvare (particolarmente invocati erano la Madonna e l’inesistente “San Transit“), al bambino veniva posizionata una piuma sulla bocca: era sufficiente allora una qualsiasi corrente d’aria per dire che il bambino aveva respirato e far gridare al miracolo. Altri segni di ritorno in vita venivano considerati la presenza di spasmi muscolari, arrossamento delle guance, ripresa di colore delle membra, sudorazione, aumento della temperatura corporea, gocce di sangue o altri liquidi che fuoriuscivano dalla bocca o dalle narici del cadavere (ricordiamo che spesso i corpi arrivavano al santuario dopo giorni di viaggio). Le cerimonie dovevano svolgersi in un clima di profonda attesa collettiva, dove anche il più piccolo cambiamento, vero o immaginato, nell’aspetto del morticino veniva interpretato come un miracolo.
A questo punto il prete (o gli osservatori, in sua assenza), si affrettavano a somministrare il battesimo, che spesso veniva dato sub condicione (a condizione cioè che il bambino fosse effettivamente resuscitato, secondo la formula “se sei vivo io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”). Sicuramente una procedura del genere doveva dar luogo a molti “falsi positivi”. Ma tant’è, i genitori erano felici, i bimbi “tornati alla vita per un respiro” potevano essere sepolti in terra consacrata, e i santuari ci guadagnavano cospicue donazioni.
Ovviamente, non sempre il miracolo avveniva: a volte, nonostante le preghiere, nessun segno si manifestava, e allora i bambini (che secondo la teologia vigente non potevano riposare nei camposanti) venivano sepolti tutti intorno alla chiesa, in modo che l’acqua che colava dalle grondaie lavasse, in qualche modo, un po’ di quel peccato originale che il battesimo avrebbe dovuto togliere. E’ grazie alla loro presenza che sono stati individuati molti “santuari à répit“: se scavando intorno a un edificio religioso vengono fuori molti scheletri di neonati (e magari nei registri parrocchiali sono registrati misteriosi casi di resurrezione), è possibile che il luogo fosse specializzato in questo genere di miracoli.
Altri sono stati identificati, ironia della sorte, grazie alle lettere dei vescovi che intimavano ai parroci di far cessare quei rituali superstiziosi. I santuari à répit, infatti, non erano ben visti dalla Chiesa: condanne ufficiali della pratica si trovano fin dagli Statuti Sinodali di Langres del 1479.
Ancora nel 1755 Benedetto XIV cercò di far cessare i “rituali di resurrezione”, ribadendo che non erano pratiche da buoni cristiani: ma inutilmente, visto che testimonianze di questa pratica sono arrivate fino all’Ottocento. Segno evidente che, pur se in contrasto con la dottrina vigente, rispondeva a un bisogno fondamentale dei genitori: che, non avendo potuto sottrarre i loro figli alla morte, cercavano disperatamente salvarne almeno l’anima.
Immagine: da Flickr, licenza CC 2.0 BY-NC-SA
Grande studioso del fenomeno è Mauro Pennacchio, anche se si è dovuto limitare alla Val Camonica. http://www.ccsp.it/web/santuarios2016/programma%20e%20pdf%20vari/pdf_articoli/pennacchio.pdf