“C’è un’isola di plastica nel Pacifico”! Sarà vero?
Un po’ ovunque, sulla stampa, si è parlato molto di “un’isola di plastica nel Pacifico”, dovuta all’inquinamento umano. Le dimensioni ragguardevoli di quest’area hanno persino portato un’organizzazione ambientalista, aiutata da alcuni designer pubblicitari, a ideare una vera e propria nazione, con una bandiera, una sua moneta (il “debris“, “detrito”) e un suo passaporto (il primo a riceverne uno – onorario – è stato l’ex vicepresidente USA Al Gore, da sempre attivo nelle campagne ambientaliste). Ma il termine “isola” è davvero appropriato per questa discarica immensa?
IL CONTESTO
Le materie plastiche sono una serie di prodotti costituiti principalmente da polimeri, sostanze composte da file di molecole identiche unite fra loro. Appaiono come resine molto malleabili durante la fabbricazione, permettendo di dare loro una qualsiasi forma desiderata; il prodotto finito, tuttavia, una volta consolidato, è dotato di notevole resistenza e durabilità. Le materie plastiche prodotte a partire dal petrolio – ovvero la maggior parte delle plastiche prodotte – sono molto inquinanti, perché sono estremamente difficili da degradare: l’azione degli agenti atmosferici si limita a ridurne le dimensioni sfaldandole in particelle sempre più piccole, comunque non biodegradabili.
Ogni anno, circa 8 milioni di tonnellate di queste plastiche finiscono in mare, disgregandosi lentamente in microparticelle (di pochi millimetri di diametro, o più piccole) che, restando in sospensione nell’acqua, vengono ingerite dalla fauna marina e si accumulano nei tessuti. Poiché le sostanze plastiche contengono additivi che possono essere molto tossici (come gli ftalati e i metalli pesanti contenuti nelle vernici), la fauna marina accumula questo tipo di sostanze concentrandole attraverso la catena alimentare, fino alle nostre tavole.
Quando le plastiche raggiungono il mare, possono essere facilmente trasportate dalle correnti marine e oceaniche, i moti permanenti e costanti di acqua che contraddistinguono le grandi masse di acqua del pianeta. Causate da correnti aeree sovrastanti e/o dalla differenza di temperatura, densità o persino salinità fra le masse di acqua adiacenti, formano uno specifico flusso profondo e superficiale che trasporta involontariamente grandi masse di plastica inquinante (e altri detriti galleggianti) attraverso l’intero pianeta.
“C’È UN’ISOLA DI PLASTICA NEL PACIFICO”. SARÀ VERO?
Falso: la situazione è di gran lunga peggiore, soprattutto dal punto di vista ambientale. Il termine “isola” trasmette un’area fuorviante, molto più solida e circoscritta di quella che è la realtà. Oltre a non essere una struttura compatta – certamente non calpestabile, trattandosi al massimo di pochi kilogrammi per kilometro quadrato – è “mobile”, essendo in balìa delle correnti, e incostante delle dimensioni. Inoltre, per la maggior parte della sua estensione, la chiazza non è visibile a occhio nudo, poiché composta da microframmenti in sospensione. Il “Pacific Trash Vortex“, come è stato originariamente definito in inglese, è una “patch” (Great Pacific Garbage Patch), ovvero una “chiazza”, dalle dimensioni impressionanti: nel Pacifico occupa un’area grande che potrebbe essere grande quanto la somma della superficie di Italia, Germania, Francia e Spagna (circa 1,6 milioni di kilometri quadrati).
A causa delle proprietà fisiche e chimiche della plastica, è una minaccia enorme per l’ecosistema marino, e conseguentemente per noi: uno studio della Vancouver Island University finanziato dal governo canadese ha riscontrato particelle di plastica in bivalvi appositamente allevati nelle acque dello stretto di Georgia (in Columbia Britannica, nel Pacifico settentrionale). Le plastiche inquinanti sono infatti difficilmente biodegradabili ma, per l’azione degli elementi atmosferici, si sfaldano in piccole particelle che contaminano le acque, per essere poi filtrate dagli organismi viventi – anche quelli che finiscono sulle nostre tavole. Questo tipo di inquinamento non è esclusivo del Pacifico Settentrionale – ci sono accumuli di plastiche e altri rifiuti in tutti gli oceani, sempre facilitati dalle correnti che li attraversano – ed è particolarmente difficile da affrontare poiché si manifesta in acque internazionali, dove nessuna delle nazioni coinvolte ha giurisdizione (o interesse diretto a intervenire).
IN BREVE
- Quella che viene chiamata in italiano “isola di plastica del Pacifico” è nella realtà una chiazza informe di decine di migliaia di tonnellate di plastica e detriti. E’ più correttamente immaginabile come una dispersione più o meno fitta di materiali inquinanti, non necessariamente visibili a occhio nudo.
- Le plastiche non biodegradabili si sfaldano lentamente in particelle più piccole, che vengono poi filtrate o ingerite dagli organismi acquatici, e, nel ciclo alimentare, finiscono anche sulle nostre tavole. Queste particelle corrispondono oggi solo a un decimo della massa di plastiche galleggianti nella chiazza del Pacifico, ma, in termini numerici, a migliaia di miliardi di unità.
- Poco meno della metà (46%) del materiale che forma la chiazza del Pacifico è composto da reti da pesca abbandonate.
- Quella del Pacifico non è l’unica chiazza di immondizia: tutti gli oceani, come conseguenza delle correnti marine, hanno una o più aree di accumulo.
- Le chiazze di detriti galleggianti non sono visibili direttamente da satellite.
- La crescita di queste chiazze è esponenziale; senza un programma internazionale di controllo e/o bonifica (quale, ad esempio, il progetto Ocean Cleanup), la situazione è destinata a peggiorare radicalmente già nel corso del prossimo decennio. Basti considerare che la produzione mondiale di plastica negli ultimi tredici anni corrisponde alla metà di tutta quella prodotta dal 1950 a oggi.
LE ORIGINI
La plastica è una scoperta relativamente recente: la bakelite – una forma di plastica oggi in disuso – fece la prima apparizione negli anni ’20 del XX secolo, per essere sostituita in toto solo trent’anni più tardi da plastiche industrialmente più efficienti. Dal 1950 a oggi sono state prodotte più di 8 miliardi di tonnellate di plastica non biodegradabile, finite per lo più (circa il 60%) disperse nell’ambiente o sotterrate. Uno studio condotto dal 1985 al 1988 per conto del National Oceanic and Atmospheric Administration statunitense in Alaska ha identificato l’esistenza di plastiche neustoniche (i.e. relative allo strato superficiale delle acque, ovvero galleggianti) in sospensione nel mare del Giappone, e ha teorizzato l’esistenza di grandi accumuli di plastica a seguito dell’azione delle correnti oceaniche, in particolare, indicando un possibile deposito causato dal vortice subtropicale delle correnti del Nord Pacifico. Nel 1997, di ritorno da una regata con il suo yacht, Charles Moore sta attraversando il Pacifico settentrionale e scopre un’area immensa, inquinata da enormi quantità di plastica e altri materiali galleggianti. Bottiglie di plastica, reti da pesca, tappi – una marea sterminata e non degradabile. La notizia di diffonde rapidamente; il nome “Eastern Garbage Patch” (“chiazza di rifiuti occidentale”) è coniato dall’oceanografo Curtis Ebbesmeye, ma l’immagine di queste masse di plastica viene nel tempo travisato dall’immaginario collettivo in “isole” galleggianti, definizione oggi frequentemente utilizzata dagli stessi media in Italia e all’estero.
Charles Moore presenta al TED 2009 la minaccia della presenza crescente di plastica in mari e oceani:
Tutte le foto mostrate nell’articolo sono di Pubblico Dominio o con licenza CC senza obbligo di attribuzione, salvo quando diversamente indicato nella didascalia. Immagine di copertina: “fish1968” photo by LCDR Eric Johnson, NOAA Corps./flikr.com (CC BY 2.0)
Grazie per l’ articolo. Oroscopo: se insisterete, verrete attaccati e contro di Voi verranno usate definizioni che anche Voi avete usato, verso alcune categorie di creduloni, complottisti, catastrofisti e nemici vari del Progresso, della Tecnologia, della Scienza.
Mi associo all’oroscopo di A.G.
La narrativa ambientalista non ammette ritorni alla realtà. L’isola che non c’è, c’è, punto!
Mi ricordo quando da bambino – erano gli anni ’70 – camminando sulla battigia vedevo delle microsfere colorate portate dal mare; che fossero di plastica era evidente, ma certo non potevo immaginare quanto il fenomeno fosse diffuso, e quanto lo sarebbe stato ancor di più.
Oggi comunque pare che non ci sia nemmeno bisogno di uscire di casa per avere la nostra dose..:
http://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/terra_poli/2018/04/09/abbuffata-di-plastica-piu-di-100-particelle-a-ogni-pasto_20021a3c-0809-4dfb-8c0c-f83febf5699a.html
“la narrativa ambientalista” è una definizione che ritengo non appropriata, almeno rispetto al caso specifico: la credenza dell’esistenza di un’isola è dovuta all’eco mediatica successiva. Peraltro, come cito nell’articolo, la situazione – dal punto di vista ambientale – è PEGGIORE della definizione di “isola”. Ringrazio Paolo per il link; non conosco lo studio, ma la diffusione di microplastiche è una conseguenza inevitabile, data la mole di rifiuti presenti e in via di progressivo sfaldamento (non si conoscono, a dire il vero, gli effetti dell’assimilazione delle microplastiche, mentre, in genere, le plastiche più grosse hanno effetti che possono essere letali per la fauna – v. i casi di albatross e, ad esempio, la carcassa di capodoglio trovata in Spagna, morta per via dell’ingestione di vari chili di plastica).
Rispondendo ad Aldo, che saluto: io onestamente non percepisco una reazione così aggressiva di fronte alla divulgazione che faccio qui*. Nel CICAP ho imparato le basi dei metodi, e ritengo che siano i più efficaci per mantenere un dialogo con l’interlocutore; e devo dire che, le volte in cui mi sono trovato in una discussione, è accaduto tanto da chi rinnega i metodi della scienza, quanto da chi dice di sostenerli. Alla fine, siamo tutti soggetti a bias; l’importante sarebbe ricordarselo quando scremiamo le prove che contrastano le nostre idee per cercare quelle che le avvalorano.
* salvo qualche piccola eccezione
Gentile R.R., grazie per la non risposta, a cui non posso non replicare.
La narrativa ambientalista invece si nutre di queste favole. Accertata e accettata dai media, l’isola che non c’è vive benissimo in una vita virtuale dove ogni servizio sull’ambiente la riporta in superficie, la mostra galleggiare mentre intrappola pesci d’ogni tipo, immancabilmente in via d’estinzione.
Così pian piano, la narrativa conquista le menti degli spettatori meno attrezzati. Non importa che sia falsa, ché più si ripete più sembra diventare vera, conta che faccia paura, schifo, rabbia, conta che apra la possibilità a qualche burocrate o politico salvatore del mondo di batter cassa o emanare leggi e regole, a qualche ONG di guadagnarsi visibilità, il like o il contributo.
Certo, in un salottino poco frequentato si può anche sussurrare che l’isola in realtà non c’è, meglio però assicurarsi di convenire che sarebbe meglio ci fosse, dato che la situazione ambientale è PEGGIORE di quanto si mormora. Resta il problema di spiegare come con tutte queste micro plastiche in giro (e tutto il resto) la vita media continui ad allungarsi, inguaiando, per esempio l’INPS e i conti pubblici.
Intanto noi occideltali stiamo a sbatterci per le buste del supermercato, mentre a riempire di plastica il Pacifico ci pensano altri paesi che non hanno remore… Meglio così, perché tra 10 anni ancora parleremo dell’isola – ormai continente – che non c’è, e i salvatori del mondo di professione, potranno ancora guadagnarsi la pagnotta.
Ecco un divertente filmato. Ovvio che non va preso alla lettera, ma con un po’ di ironia, mi raccomando…
https://www.youtube.com/watch?v=QXvK359TL2Y
Cordiali saluti, M.R.
Se è una non-risposta, forse, è perché non c’era alcuna domanda. Sostenere che la plastica non abbia effetti sulla popolazione perché la vita continua ad allungarsi è una conclusione semplicistica. Non è così che si stabilisce se la plastica abbia effetti o meno sulla salute: non è scontato che li abbia a breve termine – la plastica è liberata nell’ambiente dagli anni ’50, ma l’incremento degli ultimi anni è stato esponenziale, tanto che negli ultimi 13 anni si è prodotta la metà di quanto prodotto in 70 anni – e, soprattutto, non è detto che abbia effetti DIRETTI sull’uomo, anche se questo potrebbe comunque influenzare la qualità della vita. Magari non la sua (magari il suo giardino è pulito), certamente quella degli abitanti delle Midway, per esempio, dove TUTTA la popolazione degli albatros è a rischio a causa delle plastiche neustoniche e dove le spiagge sono pesantemente contaminate. D’altronde, se lei crede che la produzione del device che utilizza per collegarsi a Internet non sia coinvolto nell’impatto ambientale (anche nelle plastiche che finiscono in mare, dato che la parte di origine continentale di queste derivano per lo più dai centri di produzione in Asia), ma sia solo un problema di buste di plastica, significa che non si è informato abbastanza; in ogni caso, circa la metà delle materie plastiche che galleggiano nel Pacifico sono materiali derivati della pesca, con cui vengono nutrite le persone che le producono il cellulare, il PC o le componenti elettroniche dell’auto, quando non fanno parte di prodotti alimentari importati in Europa. Come dicevo più sopra, il bias colpisce tanto all’esterno quanto all’interno delle comunità degli scettici, dato che ognuno ne ha uno proprio e specifico. Non conoscendola, mi stupisce, devo ammettere, anche la retorica con cui si citano INPS, salottini poco frequentati e ONG in cerca di visibilità: su Query sarebbe più apprezzato un riferimento a uno studio scientifico attendibile.
Di recente ho letto uno studio interessante uscito su Nature:
https://www.nature.com/articles/s41467-018-03465-9
Insomma di questa plastica non riusciamo a liberarci tanto facilmente, passa solo da dimensioni “micro” a “nano”…
Gentile R.R. le rispondo per punti.
1- “Se è una non-risposta, forse, è perché non c’era alcuna domanda”
Non cadiamo nel patetico, si replica anche a delle dichiarazioni, lei lo ha fatto con me scrivendo che ““la narrativa ambientalista” è una definizione che ritengo non appropriata”. La mia definizione di non-risposta è dovuta al fatto che non mi ha citato.
2- “Sostenere che la plastica non abbia effetti sulla popolazione…”
Infatti non lo sostengo. Sostengo che ogni cosa ha effetto, e che l’effetto totale è dovuto alla somma di molte cause concorrenti. Semplificando moltissimo: se uso un medicinale ne subisco gli effetti collaterali “EC”(la vita si accorcia) ma ne godo i benefici “B”(la vita si allunga) se B>EC conviene assumere la medicina.
In ambito scientifico occorre avere la MISURA degli effetti, sono risibili degli studi in cui si conclude che la tal cosa POTREBBE avere il tale effetto. O ce l’ha o no.
Io concordo per quanto riguarda la classificazione e quantificazione dei materiali dispersi in mare.
Non sono invece sicuro che analisi e predizioni non siano affette da bias qindi esagerate.
Poi è evidente che non si deve inquinare, non si deve sporcare e… non si deve esagerare, ma…
3- Perchè io qui mi devo preoccupare del mio device prodotto in Asia? Mi sa che è uguale al suo, cosa fa lei? Si dà 10 frustate ogni volta che lo usa? Io no, se poi i cinesi se ne fregano, mangiano il pesce e lasciano le reti di plastica (nylon?) in mare, beh mi spiace dirlo ma non è colpa mia, “è la globalizzazione bellezza!” direbbe Humphrey Bogart, casomai vada lei là a spiegarglielo, vediamo se le danno retta. Non crederà mica che basti questo per portare il consumatore verso (inesistenti) scelte “sostenibili” e indurre il produttore a non abbandonare le reti rotte in mare e tutto il resto? Più probabile invece che possa portare qualche spicciolo a Ocean Cleanup o altri.
4- “…significa che non si è informato abbastanza”
Provi magari a presumere, almeno all’inizio, che il suo interlocutore sia intelligente quanto lei anche se non è d’accordo e a prestare attenzione a quel che scrive.
Il “problema delle buste di plastica” è quello che ci passano i media e la politica, ma non coincide con il mio background, era ironico! Avevo anche avvertito. Le è piaciuto George Carlin? Spero di sì.
5- “anche la retorica con cui si citano INPS…”
Mai fatto retorica, paradossi sì, ma retorica proprio no. Mi suona invece piuttosto retorica la sua ultima frase: “su Query sarebbe più apprezzato un riferimento a uno studio scientifico attendibile”, lo penso anch’io, ma nel frattempo, anche se meno apprezzato, questo è il mio contributo alla discussione.
Saluti
il termine “patetico” può usarlo con i suoi amici stretti; la prego di tenere un tono civile in questi spazi. In ogni caso, lei riduce l’impatto ambientale al solo indirizzo umano; può essere adatto per la sua etica personale, di certo non corrisponde all’unica etica possibile. Beninteso, parlando di produttori di device, conosco bene quello che si sta parlando – ho lavorato, fra gli altri, anche per Foxconn, oltre che per altri produttori di hardware – e il problema è insito nella domanda di prodotto senza preoccuparsi delle conseguenze. Esistono produttori più attenti all’impatto ambientale perché il loro cluster di clienti è più esigente da questo punto di vista; diffondere la conoscenza dell’impatto ambientale della tecnologia è un passo importante per chi la acquista. A seguito degli scandali passati, la produzione di calzature ha standard ambientali e sociali di gran lunga superiori a quelli legati all’elettronica di consumo, di cui ben pochi oggi sembrano preoccuparsi della filiera produttiva. C’è chi lo fa – il Fairphone, ad esempio (https://www.fairphone.com/it/) esiste anche per questo – c’è chi invece non lo fa, fra i produttori e i consumatori. E’ sbagliato pensare che i paesi acquirenti di tecnologia non possano modificare il comportamento di quelli produttori – non corrisponde alla realtà ed è semplicemente uno scarico di responsabilità. Se è vero che le aziende non hanno alcun interesse nella tutela dell’ambiente, ce l’hanno nel flusso di vendite. La domanda di prodotti a minore impatto ambientale sarebbe sicuramente un’opportunità di vendite (è già così in altri mercati, anche con esempi deliranti e ormai scollegati dal principio originale come il bio), per cui tutti quelli che dicono “non è colpa mia quindi me ne frego e compro il prodotto più economico” sono partecipi a non risolvere il problema.
Il video di Carlin l’ho visto e l’ho trovato per lo più deludente, quando non proprio gravemente fuoristrada. Peccato, in altri video mi era piaciuto – su questi ha una visione tristemente semplicistica dell’impatto dell’uomo sul pianeta. Certo, è vero che la terra continuerà il suo corso anche dopo l’uomo, ma non significa che questo possa accadere alla vita come la conosciamo, e non significa che una nuova estinzione debba necessariamente permettere ad alcune specie di sopravvivere come nelle cinque passate oggi conosciute. Senza considerare che dare per scontato che l’uomo debba per forza estinguersi catastroficamente è tanto fastidioso quanto nichilista. Peraltro, il criticare chi si preoccupa dell’inquinamento (ma sì, prendiamoli in giro, saranno tutti stupidi radical chic) perché “tanto il pianeta va avanti anche quando l’uomo non ci sarà più” non è una battuta comica che trovo particolarmente efficace – la trovo anzi inseribile nella critica di Maccio Capatonda al menefreghismo contemporaneo “ma che mi frega se il prezzo della benzina sale? Io c’ho il diesel”.
E no, il suggerimento alla ricerca non è retorica. Paolo l’ha colto, ed è stato sicuramente apprezzato.
Gentile R.R. Le ricordo il significato di:
PATETICO: Di opera, situazione, episodio, atteggiamento e sim. che suscitano un sentimento di malinconica commozione, di mestizia, di compassione, di pietà.
Patetico è “civile” ed è da me usato in modo civile, “non cadiamo nel patetico” non è un insulto nemmeno a volerlo rivoltare come un calzino. Io sono una persona civile e non tollero insinuazioni, la invito cortesemente a desistere e a contenere i suoi sfoghi, come dice lei, tra i suoi amici.
Tornando al punto e concludendo, mi fa piacere che venga riconosciuta la falsità dell’immagine simbolo della narrativa ambientalista: l’isola di plastica.
Non penso (personalmente) che sia fattibile la correzione di rotta del mercato produttivo nei termini da lei indicati. Ovviamente posso sbagliarmi, però resto scettico, visto il quadro politico ed economico mondiale. Inoltre, come lei giustamente nota per il “Bio”, le cose partite per un verso accettabile (ridurre l’uso abnorme di pesticidi e concimi chimici) possono rapidamente volgere al “delirio”.
Senza voler giustificare comportamenti fuori dal buon senso, penso però che la disgregazione della plastica in particelle microscopiche abbia anche un risvolto positivo: sarà più facilmente attaccabile dai batteri e dalla radiazione UV, riducendo il tempo necessario alla degradazione.
Spero che qualcuno svolga uno studio al riguardo, possibilmente imparziale.
Se dovessi ricordare una frase della performance di G.Carlin sarebbe questa:
“la gente costruisce case sulle pendici del vulcano e poi si meraviglia di avere la lava in soggiorno”.
Aggiungerei che a volte lo fa spinta dalla necessità.
Saluti.
A proposito di plastica: “conta che apra la possibilità a qualche burocrate o politico salvatore del mondo di batter cassa o emanare leggi e regole…”
https://www.huffingtonpost.it/2018/01/17/lue-valuta-una-tassa-sulla-plastica_a_23335639/
E ora siamo nei guai perché Cina non si prende più la nostra spazzatura:
http://www.lescienze.it/news/2018/06/21/news/aumento_rifiuti_plastica_esportazione_importazioni_cina-4022712/
Un po’ di scetticismo da parte mia c’è e non per la quantità di plastica nel mare, ma per la sua spettacolarizzazione. Alcune di quelle immagini di carcasse di albatri sono dei fake, dichiarati dagli stessi fotografi che le hanno realizzate. Ora vorrei porre una semplice domanda, si conoscono le coordinate anche approssimative di queste immense isole? Possibile che su Google maps non se ne riesca a vederne una?
Come affrontato nell’articolo e come spiega bene il National Geographic:
ORIGINALE: “For many people, the idea of a “garbage patch” conjures up images of an island of trash floating on the ocean. In reality, these patches are almost entirely made up of tiny bits of plastic, called microplastics. Microplastics can’t always be seen by the naked eye. Even satellite imagery doesn’t show a giant patch of garbage. The microplastics of the Great Pacific Garbage Patch can simply make the water look like a cloudy soup. This soup is intermixed with larger items, such as fishing gear and shoes.”
TRAD.: “Per molti, l’idea di una massa di plastica evoca immagini di un’isola di immondizia galleggiante. In realtà, queste masse sono fatte quasi completamente di piccoli pezzi di plastica, chiamati microplastiche. Le microplastiche non possono essere sempre visibili ad occhio nudo. Anche le immagini satellitari non mostrano grandi chiazze di immondizia. Le microplastiche della Great Pacific Garbage Patch fa apparire l’acqua come una zuppa densa. Questa zuppa e frammista a oggetti molto più grossi, come reti da pesca e scarpe”.
Inoltre, la fotografia satellitare si concentra laddove sia redditizio farlo; le grandi masse marine sono quasi solamente fotografate IN ALTA RISOLUZIONE solo sulle rotte più frequentate; le grandi chiazze di immondizia sono invece concentrate in zone molto isolate (anche se ce ne sono alcune più vicine alla civiltà).