La voce dal loculo: una leggenda metropolitana
Giandujotto scettico n° 10 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (26/04/2018)
Il fatto è accaduto nel nuovo camposanto cittadino di Billiemme. Una anziana signora si era recata come di consueto per rendere visita alle tombe dei parenti defunti: era sola nel cimitero e si destreggiava con una scala a pioli cercando di sistemarla in modo da poter raggiungere il loculo di un congiunto.
A questo punto delle operazioni, una voce cavernosa, proveniente dall’ultimo piano del loculario, le ha intimato: “Se tocchi quella scala ti ammazzo”. In preda al terrore, la visitatrice è fuggita, correndo a chiamare i custodi del camposanto.
Rincuorata, ma non troppo, è tornata indietro con uno dei custodi, ma arrivati alla scala incriminata, la voce ultraterrena ha ribadito le minacce. Nuova fuga della signora, imitata con altrettanta rapidità dal custode, e nuovo sopralluogo, questa volta con un intero plotoncino di persone che si facevan forza l’uno con l’altro. Il mistero si è così potuto chiarire: il “fantasma” era un giovane drogato che, per starsene in pace, aveva pensato di rifugiarsi nell’inusuale nicchia.
La vicenda, pubblicata sul Stampa Sera del 28 gennaio 1983 sotto il titolo “Fantasma al cimitero terrorizza vercellesi”, potrebbe sembrare a prima vista solo la banale narrazione di un divertente fraintendimento, se non fosse che la stessa storia si ripete, sempre uguale, in un gran numero di cronache locali degli anni Ottanta.
Ha, insomma, tutte le caratteristiche di una leggenda contemporanea, anche se poco nota. La chiameremo leggenda del drogato nel loculo. Noi del Giandujotto scettico ne abbiamo ricostruito alcune tracce.
Una fonte milanese
La storia, dicevamo, era in circolazione almeno dal 1982. Il 6 dicembre di quell’anno compare infatti in un articoletto della cronaca milanese del Corriere della Sera. Il pezzo è anche una delle fonti più brevi fra quelle che abbiamo, però ci sono già tutti i caratteri di base di questo racconto che si ripeterà ambientato in luoghi diversi e sempre con protagonisti anonimi, ma con grande uniformità nella struttura di fondo.
La protagonista questa volta è un’infermiera in pensione dell’Ospedale Niguarda che si reca al cimitero di Bresso, nella conurbazione milanese, per portare fiori al marito (curiosamente, le protagoniste di queste storie saranno sempre di sesso femminile). In questo luogo di “ricongiungimento” con il mondo dei morti, la donna deve prendere una scala di metallo; ma, salitavi, si sente chiamare da un loculo vicino (la voce di un morto?) e ammonita a lasciare la scala dov’è, perché “serve a lui”. Quella voce si rivelerà appartiene ad un giovane, “un drogato” (in un certo senso, a un “quasi morto”, che, infatti, lì “dorme”).
Diversamente da quanto avviene a Vercelli, la donna oltre al terrore rimedia anche un danno più grave: scorgendo testa e mani del drogato perde i sensi, precipita al suolo e si procura contusioni varie.
Il carattere “antico” di questa prima nostra fonte potrebbe essere indicato dalla mancanza di alcuni tratti che compariranno in seguito. Se la donna è svenuta, chi l’ha soccorsa? Il drogato che fine ha fatto? Come si fa a sapere che si trattava davvero di un tossicodipendente? Insomma, questa versione contiene già parecchi elementi del plot, ma non tutti.
Ritorno in Piemonte
Poche settimane dopo sarà il Piemonte a farsi epicentro del racconto, passando ad una zona geograficamente e culturalmente contigua, quella del Vercellese – forse punta di un iceberg narrativo di cui ormai ci sfugge quasi tutto. Oltre a Stampa Sera, che pubblica l’articolo già menzionato, anche La Stampa contribuisce a divulgare la notizia. Qualche dettaglio è diverso (ad esempio la voce ripete una seconda volta l’ammonimento “Guai a voi se toccate la scala!”), ma il canovaccio è sempre lo stesso. In questa versione, particolare unico, il giovane viene portato in ospedale dopo essere stato “invitato a scendere”. Dal punto di vista simbolico potremmo dire che qui c’è l’invito a tornare “fra i viventi”, che lo soccorrono e lo portano in un luogo dove potersi curare. Una via d’uscita che altre volte non c’è: il drogato, semplicemente, in genere si dilegua (o, comunque, nella narrazione se ne trascura la sorte).
Il 10 febbraio 1983 la cronaca di Torino de La Stampa ci regala la seconda versione piemontese della leggenda. Stavolta siamo a Moncalieri, dunque alla periferia di Torino.
Un misterioso, e al tempo stesso, curioso episodio sarebbe accaduto, alcuni giorni fa, nel cimitero di Moncalieri. Una donna di cui non si conosce il nome, per sistemare un mazzo di fiori sulla tomba di un parente, posto nella terza fila in alto di loculi, si sarebbe servita d’una scala metallica, appoggiata poco distante. La donna è raggelata quando una voce, quasi un rantolo, avrebbe esclamato: ”…Cosa fai? E adesso, come faccio a scendere?…” Impietrita dallo spavento la poverina è corsa a chiedere aiuto.
Al ritorno, aiutata da alcune persone, ha voluto sincerarsi di ciò che era accaduto e ha scoperto, dentro un loculo vuoto, un giovane drogato con ancora la siringa infilata nel braccio. Il fatto è stato raccontato da alcuni tossicomani al carabinieri del Nucleo operativo che, proprio in questi giorni, hanno arrestato otto spacciatori che agivano anche nella zona di Moncalieri. Una burla? Forse sì, anche perché il custode del cimitero dice di non saperne nulla. I carabinieri stanno comunque indagando per riuscire a rintracciare la donna.
Il particolare interessante, in questa versione, è che la storia sembra essere stata raccontata alle forze dell’ordine da parte di “alcuni tossicomani”: una leggenda diffusa in quel particolare ambiente?
Una versione ancora più curata della storia (e in cui gli elementi leggendari sembrano maggiori) è quella apparsa sul mensile Il Popolo di Novi dell’aprile 1983, meno di due mesi dopo la versione di Moncalieri, a firma della redattrice Monica Puppo. L’episodio è ambientato nel cimitero di Novi Ligure, quindi nell’Alessandrino. Certo, sulla storia c’erano state “autorevoli smentite”, ma la Puppo intendeva riproporre il fatto “come vero”. Tutti nella cittadina ne parlavano e l’episodio si era verificato “da poco”. Anzi, il mensile avrebbe dovuto già parlarne nel numero precedente, cosa che fa pensare che circolasse già da tempo.
Il cimitero di Novi era un luogo poco raccomandabile: per l’Autrice vi si aggiravano brutti ceffi e vi accadevano
simpatiche vicende che non si discostano di molto dal fatto vero che sto per riproporvi. Testimone della vicenda è un’anziana signora che si è malauguratamente trovata tutta sola nella parte vecchia del cimitero nella comprensibile necessità di dover usare una delle grandi scale semoventi per raggiungere la tomba di un suo caro.
Fa per toccarla ma è immediatamente interrotta da una voce che dice: “Lascia stare la scala”. La sventurata si guarda intorno per ricercare la provenienza del suono; poi, forse sicura di aver avuto un’allucinazione, si avvicina nuovamente alla scala e la solleva, quando la voce la inchioda nuovamente sul posto: “Ti ho detto di lasciar stare la scala”. Immaginatevi cosa può aver provato questa signora: confusione, smarrimento e forse anche panico se nel frattempo non avesse visto arrivare un’altra donna, anch’essa stupita per quanto accaduto.
Insieme si precipitano a chiamare un guardiano che giunto sul posto svela il mistero: nell’ultima fila in alto, allungato in una tomba vuota, trovano un ragazzo perfettamente attrezzato per una lunga permanenza sul posto (sacco a pelo, ecc.) che evidentemente non voleva correre il rischio di rompersi una gamba scendendo alla mattina da quel macabro letto a vari metri dal suolo.
Anche l’identità del giovane era oggetto di dicerie:
Chi sia il protagonista di questa vicenda non sono riuscita a scoprirlo: si mormora di un drogato figlio di qualche illustre papavero della nostra città che ha messo velocemente a tacere il tutto.
Ad ogni modo, anche se non penso ci sia molto da ridere di fronte ad un simile episodio, credo sia meglio optare per questa soluzione piuttosto che andare a rispolverare i triti e ritriti problemi di fondo che possono aver spinto questo giovane a tale assurdo comportamento.
Il 19 aprile anche Il Piccolo di Alessandria forniva la sua versione del fatto: era di pochi giorni prima, ne parlava “tutta la città” ma su di esso “si è cercato di mantenere il più assoluto riserbo”. I dettagli erano assai simili a quelli del pezzo del Popolo di Novi, ma qui la donna ritornava sul posto subito insieme a un custode e lì i due sentivano per la seconda volta “una voce flebile ma sicura” che li ammoniva. Poi il tossicodipendente, “ripresosi finalmente dal suo torpore” scendeva usando la scala e se ne andava.
Il tono moralizzatore con cui si concludeva l’articolo è interessante per noi:
Una cosa è certa. Per drogarsi non bastano più i verdi prati del castello. Ora si va anche al cimitero. Un sinistro accostamento che dovrebbe far riflettere…
Il significato di una leggenda
È la prossimità con la morte – sociale, culturale, prima che biologica – il tema centrale di questa leggenda, che non a caso si diffonde in un periodo in cui la figura del “tossico” fa paura, si teme di incontrarlo o di esserne vittima.
I drogati nei loculi sono anch’essi morti: tornano in terra per disturbare chi, invece, compie il gesto antropologico più tradizionale nei confronti dei veri morti, quello degli omaggi ai defunti. E lo fanno quasi sempre come mere voci, tanto che quando chiedono di lasciare la scala, come si vedrà pure nelle altre occorrenze piemontesi della storia, non se ne scorge il corpo. Sono, alla lettera, una voce dalla tomba.
Altro dettaglio interessante: in diversi casi, la voce del non-morto ripete per due volta l’espressione: “lascia stare la scala!” o “non toccare!”, con un senso di autorevolezza che contrasta con la sua estrema marginalità. Si pensi al “guai a voi!” del primo racconto piemontese, quello di Vercelli: sembra venire da lontano, echeggiare una lunga tradizione oratoria e religiosa.
Altra cosa che sorprende è la persistenza della storia nelle stesse parti della regione. Tre anni e mezzo dopo Novi, il 1° novembre del 1986 è ancora Il Piccolo a riprenderla e a collocarla a poche decine di chilometri di distanza da quella città, ossia a Valenza. Si tratta di “una storiella tra l’ameno e il macabro” che “si racconta a Valenza” e sulla quale chi scrive l’articoletto (firmato “c. r.”) mostra il suo scetticismo.
Giorni prima della pubblicazione del pezzo una signora che si reca al cimitero cittadino per portare fiori prende la solita scala e sente la voce che le ingiunge di lasciarla stare. La voce si ripete anche al secondo tentativo e a quel punto, allontanatasi, la donna scopre che “un giovane, probabilmente tossicodipendente”, ha usato la scala per dormire nel loculo.
Stavolta però il cronista de Il Piccolo opera un piccolo fact-checking. Va al cimitero e parla col custode, che giudica il tutto una panzana e nega di aver mai saputo di qualcosa del genere. Lui stesso fornisce una chiave di lettura: gli sembra una storia simile a quanto aveva sentito anni prima, quando ancora non lavorava lì e si sussurrava di “un barbone che d’estate veniva a dormire in un loculo vuoto”. In questo modo fornisce un altro gancio per capire meglio da dove, forse, proviene la nostra storia: dalla lunga tradizione di racconti e di vere esperienze di persone, di norma emarginati (vagabondi, malati psichici, alcolisti, squatters) che per scelta o per costrizione non trovano di meglio che accomodarsi fra le lapidi dei camposanti o addirittura in fosse aperte. Suscitano paura, riprovazione, proteste, scandalo.
La piccola serie piemontese che conosciamo si chiude nell’autunno del 1988. Il 16 novembre in cronaca di Torino un trafiletto de La Stampa segnala che “l’altra mattina” al cimitero di Ciriè si è verificato “un episodio tragicomico”. E’ – come al solito – una donna (vedova) che vuol cambiare i fiori del loculo del marito a sentire, spostando una scala, “una voce stentorea” che dall’alto le ingiunge di non toccarla. In questa versione da un loculo vuoto dell’ultima fila è lei stessa a vedere uscire subito
“un giovane drogato che è sceso lungo la scala a pioli con zaino e coperta e se n’è andato”.
Qualche fonte più “letteraria”
In tempi recenti abbiamo testimonianze di un uso più strettamente letterario della leggenda. La struttura resta simile ma i “fantasmi” del loculo diventano personaggi con una psicologia e una personalità spiccata. Non sono più mere voci con l’appendice di un corpo, come nella leggenda, ma molto di più.
Nel 2011, in “Nato Altrove” (Lampi di Stampa, Milano), Antonino Carmelo Scifo narra una vicenda di cui è protagonista Slimà, un ragazzino siciliano un po’ spostato che per sfuggire all’ira del padre quando fa morire di fame una capretta che deve custodire si nasconde per la notte in un loculo del cimitero. Lì è scoperto da Giuvà, il beccamorto, al quale la voce consueta intima Giuvà, lassa la scala ca scinniri (“Giovanni, lascia la scala che devo scendere”), tanto che il becchino per il terrore rimane sotto shock per quindici giorni. Un eccesso pirandelliano conclude il racconto: risoltasi la vicenda del loculo, Slimà è convocato in Procura per rispondere all’accusa di “occupazione indebita di suolo pubblico”.
Nel 2014, invece, I tesori alla fine dell’arcobaleno, un sito dedicato alla storia della cultura popolare milanese, offre il racconto di un narratore che si firma Giuanin Fant de Pic. Lui, il Matu e l’Erminio Stagnola vanno in piena estate a fumare erba al cimitero di Talamona (Sondrio). Ma il Matu è talmente “stonato” da fermarsi a dormire in un loculo di una fila alta, per prendere fresco. Quando una donna cerca di spostare la scala per bagnare i fiori della tomba del marito, la voce del Matu (ancora e solo la voce) le dice: “Lascia stare la scala, vecchia!”. E quella precipita al suolo “come un sacco di cemento”. Anche stavolta l’intento fortemente letterario, iperbolico, è tale da far dire che
La signora non si è più ripresa, neanche dopo che i dottori l’hanno guardata per bene: tutti pensano che è l’Alzheimer, ma io lo so che è stato il mio socio a farla andare fuori di matto.
Al contrario delle versioni giornalistiche, nell’uso libresco l’episodio ha un seguito corrosivo e, a modo suo, straniante. Si finisce in Tribunale perché si dorme in un loculo, oppure i medici equivocano sulla causa della follia della vittima la cui natura è invece nota all’io narrante e onnisciente, cioè a Giuanin Fant de Pic.
Il Giandujotto scettico documenta, senza grandi pretese, presunti “misteri” che hanno per teatro il Piemonte. Abbiamo visto come la diceria del drogato nel loculo si fosse diffusa negli anni Ottanta in tutta la regione. In questo modo abbiamo esumato le varianti piemontesi di una leggenda contemporanea poco discussa ma che almeno una ricercatrice, già molti anni fa, aveva individuato.
Infatti Paolo Toselli, animatore del Centro per la Raccolta delle Voci e Leggende Contemporanee (CeRaVoLC), ci ha raccontato che già fra il 1991 e il 1993 la professoressa Marisa Milani, che fu docente universitaria di Letteratura delle tradizioni popolari e anche presidente del CICAP Veneto, aveva documentato la dimensione orale della nostra storia. Milani si occupava anche di leggendario contemporaneo e per questo aveva raccolto parecchie versioni della storia diffuse tra i suoi studenti. La leggenda del drogato nel loculo circolava almeno dal 1983 nelle province di Genova, Rovigo, Vicenza, Venezia e Verona, ma anche in quella di Siracusa. In genere assegnata a un tossicodipendente, a volte a un altro emarginato, a volte senza un responsabile ben identificato (perché non si sa chi sia a emettere i moniti), più di una volta la voce dal loculo era causa di un infarto oppure del ricovero dei malcapitati in ospedale, particolari decisamente poco frequenti nelle versioni piemontesi.
Foto di Gustavo Belemmi da Pixabay