Giandujotto scettico

Il “codice segreto dei ladri” in Piemonte e la sua storia

Giandujotto scettico n° 27 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (20/12/2018)

La lingua è una ragione umana che ha le sue ragioni e che l’uomo non conosce.
Claude Lévi-Strauss, La pensée sauvage, 1962

Anche in Piemonte una delle leggende più persistenti e interessanti dell’era contemporanea è rappresentata dal mito del “codice segreto dei ladri”. Un insieme di simboli che bande di malviventi utilizzerebbero per scambiarsi indicazioni sui furti da compiere nelle abitazioni e che sarebbero apposti nei pressi degli ingressi delle case dopo un giro di ricognizione da parte dei malintenzionati.

La storia di questo “codice” è lunga. Se ne parla in tutta l’Europa e, sin dagli inizi del XX secolo, ne sono stati puntualmente pubblicate delle “traduzioni”, tanto da far dire che il segreto del “codice” consiste ogni volta nel fatto… di non essere più un segreto!

Tutti lo leggono, tutti lo notano accanto alle porte e si mettono sul chi va là, tutte le autorità lo forniscono ai cittadini, la stampa lo diffonde ai quattro venti…

Il Giandujotto scettico non ha la pretesa di ricostruire a fondo la faccenda del “codice dei ladri”: è una storia che affonda le sue radici in questioni antropologiche e sociologiche complesse, quelle dei linguaggi “segreti” dei gruppi marginali, delle società segrete o riservate, degli esclusi e delle vicende della storia della crittografia e delle lingue “inventate”.

Se volete sapere tutto al riguardo, vi consigliamo due letture: lo studio del sociologo francese Jean-Bruno Renard pubblicato nel 1994 in un volume edito dall’Università di Montpellier e quello uscito l’anno dopo su La ricerca folklorica ad opera dell’etnologo Leonardo Piasere.

Una cosa più immediata, ma che dà l’idea di quanto remoto siano le radici delle leggende dei “codici dei delinquenti”: questo articolo uscito sul sito Centro per la Raccolta delle Voci e Leggende Contemporanee (CeRaVoLC), che accenna ad un altro ruscello di questo grande fiume: il mito dell’esistenza di bande di incendiari nell’Europa centrale dei secoli fra il Cinquecento e il Settecento e dei loro codici segreti.

Qui invece noi ci limitiamo a presentarvi alcune fonti italiane “vecchie” per raccontarvi come si presentò agli inizi nel nostro Paese e sulla stampa piemontese la leggenda del codice dei ladri, per poi soffermarci sui modi in cui il suo racconto è diventato virale anche nella nostra regione.

È noto da tempo che, per una curiosa combinazione, una delle prime menzioni italiane moderne del “codice dei vagabondi” è dovuta ad un piemontese illustre, l’antropologo Cesare Lombroso: per lui, si trattava di un caso particolare di linguaggio “nascosto” e celato, tipico dell’Ottocento letterario, con la sua letteratura d’appendice bohémienne. Un linguaggio accostato già da allora ai segni criptici di società segrete come la Carboneria o ai sistemi crittografici della Massoneria. Del nostro “codice dei ladri” Lombroso accenna già ne L’Uomo delinquente, uscito a Torino nel 1889.

Allo stesso modo, anni dopo il poeta dialettale napoletano Ferdinando Russo (1866-1927), oggi ampiamente dimenticato, si acquistò una certa fama etnografica nel 1907 con la raccolta di aneddoti Memorie di un ladro (Treves, Milano), uno scorcio sulla vita dei marioli partenopei, sulle loro tecniche ladresche ai limiti dell’incantatorio con cenni – non ultimo – proprio ai segni segreti utili per scambiarsi notizie sui furti da compiere in casa.

Assai meno conosciuta è invece la diffusione che del codice dei ladri fece nel 1931, su Stampa Sera – l’edizione pomeridiana del nostro principale quotidiano regionale – una curiosa figura di giornalista e studioso di servizi segreti e crittografia, il genovese Italo Sulliotti, che peraltro fu anche un informatore della polizia politica del regime fascista, l’OVRA.

Uscito in prima pagina nell’edizione del 1° dicembre, faceva parte di una serie di lunghi pezzi dedicati ai cifrari e ai linguaggi crittografati, in specie quelli usati dagli agenti segreti. Si tratta di un documento molto importante, perché presentava ai piemontesi una storia del codice dei ladri collocandola nel suo contesto culturale originario, oggi così sovente trascurato. Ci dà degli spunti per capire meglio da dove provengono le varie versioni della leggenda che ottantotto anni dopo sono così vive nelle città e nelle campagne della nostra regione.

Sulliotti ne capiva la genesi letteraria: una forma primaria di crittografia, di cifrario. Lo considerava non solo uno strumento pratico di comunicazione fra delinquenti che vogliono parlarsi in maniera convenzionale, ma un fatto linguistico – quasi la parte a noi visibile di un discorso assai più complesso e strutturato.

Lo dipingeva così:

E’ troppo noto, per ricordarlo qui, il linguaggio usato dai vagabondi delle grandi strade, dai ladri di campagna, dagli specialisti degli assalti alle case inabitate, o quelle dove dormono delle donne vecchie e sole. Attraverso una forma di comunicazioni grafiche, che da delle involontarie analogie con gli “ideogrammi” cinesi, e che ha il merito di poter esser compresa e interpretata da malandrini di tutte le razze, questi uomini – che lega fra loro, anche se sconosciuti l’uno all’altro, una premurosa solidarietà – hanno trovato il mezzo di comunicarsi i rischi o i vantaggi, le incognite, le difficoltà, di una spedizione o di un “colpo”.

Un O grossolano tracciato con della creta rossa sul muro di un cascinale, significa, per il vagabondo che vi passerà domani davanti, l’avviso di un collega premuroso: niente da fare, molti uomini in casa. Se l’O è attraversato da un taglio orizzontale , vorrà dire: uomini che hanno un fucile e sono disposti a servirsene.

Dopo Sulliotti, per la conoscenza “antica” della storia italiana del “codice” è di grande interesse anche la descrizione dettagliata di una sua “rivelazione” che ne fu fatta in forma scritta.

Questa “rivelazione” fu possibile grazie a un vero e proprio libretto che Stampa Sera del 6-7 novembre 1954 fece conoscere ai piemontesi attraverso una corrispondenza dalla Germania occidentale. Il libretto in questione spiegava un linguaggio complicato, articolato, sconosciuto, fatto di simboli finora indecifrabili che adesso però potevano esser conosciuti da tutti – perché tutti ne fossero messi in guardia.

Questi simboli, spiegava Stampa Sera, “da anni”, dipinti a vernice, comparivano con sempre maggior frequenza “sui muri e sulle porte della case” di parecchie città tedesche.

Un vagabondo arrestato a Friburgo aveva consegnato alla Polizia un libriccino che sarebbe stato diffuso soprattutto nel sud del Paese e venduto per cinque marchi del tempo: era il Lumpkode (“Codice della canaglia”). Il libretto conteneva i “segni convenzionali tracciati dai vagabondi sui muri e sulle porte delle abitazioni e che rappresentano il frutto di anni di lavoro, di lunghe e spesso dolorose esperienze”.

Quei segni sarebbero stati addirittura “un migliaio”. Di nuovo, una crittografia complessa con pretese di “lingua”. Assai più che uno strumento pratico per i ladri.

Ancora una volta parte del Lumpkode tedesco mostrava attenzione più per una lingua destinata ai mendicanti che ai ladri – pur sovrapponendo le due categorie antropologiche:

Cinque cerchietti accanto ad un uscio di casa significano che il mendicante ha ottime possibilità di ottenere quattrini; un ovale con due segmenti al centro (una forma di pane stilizzata) che ci si può attendere soltanto cibo; un ovale semplice che è inutile chiedere; un ovale tagliato da una croce che i padroni di casa sono generosi e che elargiscono denaro e cibo.

Ma attenzione ai segni negativi, elargisce il codice: un rettangolino con un cerchietto al centro dice che gli inquilini sono gente “brutale” e che quindi nel migliore dei casi sbatteranno la porta in faccia allo straccione; un segmento dentato tracciato all’esterno di un pollaio o di una fattoria mette in guardia il ladruncolo contro i morsi di un feroce cane da guardia; una specie di gruccia stilizzata vuol dire che solo gli invalidi e i ciechi – finti o veri che siano – hanno delle chances; una croce, che gli abitanti sono gente pia; sarà bene non confondere questo segno con la doppia croce che denunzia invece nella casa la presenza di un tutore dell’ordine.

Una vera e propria lingua “altra” la cui decifrazione è possibile soltanto grazie a una stele di Rosetta come la fortunosa scoperta della copia del Lumpkode – c’è sempre in queste rivelazioni del “codice segreto” il transito ad un testo scritto che spiattella tutto – un testo che poneva accanto ai ladri gli indovini e i chiaroveggenti:

…c’è poi un altro piccolo codice per gli imbroglioni e i “chiaroveggenti” ambulanti, e che istruisce sul carattere degli inquilini e su particolari circostanze. Una scure fa presente ai vagabondi che i clienti vanno “lavorati” con pazienza; una “X” e due triangolini indicano lo stato di famiglia dei visitati, cioè a dire per esempio un uomo e due donne. Il bambino è invece indicato con un piccolo segmento orizzontale. Utili indicazioni sul carattere dei “clienti” vengono fornite infine da simboli animaleschi: il gatto (gente astuta), il bue (gente ingenua), e via dicendo. Altri segnali speciali come il salice piangente (vedova in casa), o il ramo d’abete (marito tradito) consentono poi ai chiaroveggenti di “indovinare” quel che accade fra le pareti domestiche.

Si sarebbe detto che chi manipola il codice segreto possa sfiorare l’onniscienza: poteva penetrare la psicologia dei gruppi familiari, mapparli, decrittarne la vita intima.

Nel Lumpkode c’è molto più che la scoperta dell’attività di bande di ladri. C’è la rivelazione di un occultum.

A parte questi due esempi preziosi sappiamo poco altro sulla diffusione italiana del codice prima degli anni ’90 del XX secolo. Un’indicazione preziosa ci arriva però da un articolo del settimanale Cronaca del 30 novembre 1963 firmato “Leo Sandi”, pseudonimo dello scrittore Peter Kolosimo (anch’esso uno pseudonimo, non dimentichiamolo!).

Kolosimo presentava una bella e completa versione del codice che dovrebbe esser stata tratta da quotidiani veneti del tempo, che lo tirarono fuori dopo un allarme diffusosi a Bolzano.

Cosa non comune, lo scrittore riteneva il volantino frutto di “fantasia dei suoi inventori” e lo riconduceva con poche, efficaci parole alle convinzioni sociali sull’ambiente dei girovaghi e sulla loro cultura, quelle del mistero e, quasi, dell’esoterico.

L’immagine che vedete qui sotto, tratta da Cronaca, rimane la più vecchia testimonianza visiva sul codice dei ladri finora a noi nota per l’Italia:

Ventinove anni dopo il pezzo sul Lumpkode e diciassette dopo quello di Kolosimo, grazie a un articolo di Ermete Grifoni, giornalista marchigiano importante, con La Stampa del 29 luglio 1980 abbiamo la prova che l’intelaiatura che abbiamo descritto a quel tempo era ancora in piedi.

La presenza di carovane di rom provenienti dalla Jugoslavia induceva allarme in tutta la provincia di Ancona. Furti, raggiri, accattonaggio. Ma ora, aggiungeva Grifoni in quell’articolo, “è venuto alla luce un particolare curioso”: i “girovaghi” comunicavano fra loro “mediante ideogrammi tracciati col gesso accanto ai portoni”. Per questo “la gente si è messa a scrutare attentamente il proprio portone”.

I segni erano in parte diversi da quelli della versione descritta da Stampa Sera nel ’54 (con la croce: “non danno niente”, col cerchietto “gente caritatevole”), in parte simili (due segni verticali che intersecano due orizzontali: “qui abita un poliziotto”) e così via, però Grifoni reiterava l’idea della presenza di un codice anche per i “veggenti” – anzi, “per leggere le carte”:

…due linee ondulate, la padrona di casa desidera un figlio; tre punti dentro un cerchio: si litiga per l’eredità; un triangolo con due barre: è morta di recente la padrona di casa.

La commistione fra dimensione criminale del codice e côté “paranormale” un tempo doveva essere comune. Oggi non pare essercene traccia nella recrudescenza (anche piemontese) della storia. Nel 1977 un medium e appassionato di occultismo, Arnaldo Zanatta, sul mensile dell’insolito Gli Arcani ne aveva ancora parlato inserendolo nella questione delle crittografie e del linguaggio interno dei mendicanti. Ma la nostra è una storia che negli ultimi decenni ha subito forti trasformazioni di significato. Non è più veicolo di generiche paure e preoccupazioni o un modo per associare certi gruppi ad attività da fattucchieri: oggi protagonisti della sua circolazione, in forma più semplice di allora, sono forze politiche e autorità civili e di polizia.

La new wave piemontese della vicenda dovrebbe aver preso avvio nell’estate del 1996.

Il 20 agosto di quell’anno La Stampa riferì in cronaca di Torino di un allarme “giunto dalla Lombardia” e diffusosi in Valsusa. A Novalesa il proprietario di un bar visitato dai ladri aveva notato sullo stipite della porta “un piccolo triangolo” e si era domandato chissà… – cercando di carpirne il significato.

E così, Fulvio Morello, il giornalista del quotidiano torinese autore dell’articolo, “dopo i casi scoperti a Rho” presentò all’intero nord-ovest italiano il nostro alfabeto criminale.

Ci sono altre indicazioni che il contagio piemontese di ventitré anni fa abbia avuto un suo motore in Lombardia.

Il 6 novembre 1996 il senatore Luigi Peruzzotti, della Lega Nord, consegnava di persona all’allora ministro degli Interni, Giorgio Napolitano, copie del volantino con il “codice” e gli rivolgeva un’interrogazione parlamentare. Ne era sicuro: quello era il sistema che i rom usavano per i furti nelle abitazioni che terrorizzavano anche il suo collegio elettorale, quello del varesotto. I giornali lo ripresero.

A fine dicembre il sindaco di Bolzano Novarese, Giulio Frattini, del PDS, lo fece affiggere all’albo pretorio del Municipio. I negozianti lo misero in vetrina. Frattini dichiarò a La Stampa del 31 dicembre che dopo alcuni furti in appartamento “opera degli zingari” erano stati notati sui muri delle case “segni ben precisi”. Dalle indicazioni si sarebbe detto che si trattasse di una versione tradizionale del codice, anche se, aggiungeva Frattini, c’erano degli aggiornamenti con un segno “per le case controllate telefonicamente”.

Il 31 gennaio del 1997, su Il Piccolo di Alessandria, la giornalista Monica Gasparini pubblicava il volantino e, non paga, verificava di persona in centro e in periferia, in città ed anche a Valenza Po, la presenza su alcuni citofoni, accanto ai nomi, di “sigle strane” e di “incisioni” – ma non si capiva bene se corrispondenti al codice da lei diffuso. Il comandante la Polizia Municipale di Saluzzo (entrano in scena da ora in poi le forze dell’ordine) lo diffuse “a fini preventivi” nel gennaio 1999 con un “comunicato urgente a cittadini e negozianti”. Ecco la versione che apparve il 22 gennaio di quell’anno sul Corriere di Saluzzo:

Ma i codici dei ladri dei nostri giorni, seppur degradati rispetto alla matrice della “lingua segreta” con sintassi e ideografie, per molti rimanevano comunque troppo complessi.

Per questo chi li “scrive” davvero – ossia i destinatari della leggenda – ne hanno creato versioni elementari di grande interesse.

Così, su La Stampa (cronaca di Torino) del 31 marzo 1999 fece la sua comparsa il “codice dei fiocchi”, che poi si vedrà in parecchi altri luoghi (ad esempio, in Friuli nel 2014). Erano bambini rom, si diceva, a legarli a cancellate e portoni, fatti con strisce di buste di plastica (fiocchi nel nome, stringhe di shoppers nella descrizione).

La loro struttura linguistica era binaria: il significato era determinato soltanto da colore e dalla posizione spaziale del segno. Fiocco bianco: via libera per il bottino; fiocchi azzurri, blu o gialli: scarsa appetibilità dell’abitazione, allarmi efficienti, ecc. Quanto alla posizione dei fiocchi sulle cancellate: traguardandoli (!) si vedeva il punto migliore d’accesso all’abitazione, e comunque: fiocco alto – adulti in casa; fiocco basso – solo anziani; fiocco a terra – nessuno in casa…

Ma in quest’occasione il potere maligno del segno era annullabile con facilità: l’autore del pezzo suggeriva di slegarlo, inserendo così nella storia, certo in modo inconsapevole ma di estremo rilievo, il concetto antropologico del potere connesso al legare/sciogliere. Ben più complicato, pareva dire in modo implicito, sarebbe stato rintuzzare la forza eversiva di una lingua vera e propria come quella sottesa al codice dei ladri di qualche decennio prima, cioè di un intero universo linguistico…

A Novara, a fine maggio 2007 alcuni abitanti di un condominio si accorgevano della presenza di curiosi segni tracciati con dei graffi sulle pareti accanto agli stipiti di tre appartamenti. Si trattava di “piccoli disegni”. Allarmati si erano rivolti alla Polizia dove gli agenti per tutta risposta… le avevano riforniti di copie del codice dei ladri in una versione che ricalca quella saluzzese del 1999 ma con alcune aggiunte. Ad esempio: una tazza di caffè indicava la presenza di un “centro di assistenza” (per ladri?!).

‘era però un ulteriore problema: i disegnini sulle pareti non c’entravano niente con l’elenco dato dalla Polizia: uno pareva “una piccola automobile”, altri “una scritta cifrata” . E allora i condomini, per bocca dell’articolo uscito sul Corriere di Novara il 2 giugno si chiedevano: quelle scritte, come interpretarle?

La situazione comunque ci ha preoccupato, anche perché i segni non li avevamo mai notati prima.

Come in altri casi e come abbiamo documentato sopra, nel far sorgere in Piemonte la convinzione del pericolo, negli ultimi decenni è stato determinante il ruolo sociale delle autorità. Difficile che esse demistifichino la storia. Paiono agire, senza desiderarlo, da agenti ansiogeni, sostenendo e accompagnando con cura la vita della nostra leggenda.

Dopo quella dei “fiocchi” si sono diffuse voci che in sostanza significano una cosa: qualsiasi materiale in una posizione o in un contesto percepito come anomalo – materiale di solito poverissimo, da discarica – può essere segno dell’imminente azione dei delinquenti. Più banale e trascurabile e misero è, più ambiguo il segno diventa.

Nel 2008, il 15 novembre, per la prima volta in Piemonte il codice dei ladri fu associato da La Nuova Periferia di Chivasso alla comparsa, a Verolengo, di “bollini colorati” sui contatori del gas di parecchie abitazioni. I bollini non erano (e sono anche oggi) nient’altro che indicazioni di lavoro degli operatori delle compagnie di servizio, ma anche questi “segni” erano inseriti senza difficoltà nel nostro ambito – e lo saranno di nuovo diversi anni dopo, ad esempio a Cavagnolo, sempre nel chivassese (La Nuova Periferia di Chivasso, 27 maggio 2015).

D’altro canto, la degradazione del codice dei ladri sino a mero cenno, quasi invisibile, ha visto ulteriori avvitamenti proprio negli ultimi anni e proprio in Piemonte.

Non erano sufficienti “fiocchi” e “bollini colorati”: nel novembre del 2014, a Cerano (Novara), in occasione di alcuni furti, all’avvistamento di un individuo sospetto fu associata la presenza “di alcune bottiglie di plastica che i proprietari non avevano notato prima, quasi che si trattasse di un segnale” (Corriere di Novara, 22 novembre 2014). A luglio dello stesso anno, a Moncalieri (ma stavolta associato nel ragionamento al “nostro” codice) nella zona erano segnalate “sedie sgangherate” poste nelle vicinanze di abitazioni forse da svaligiare: si diceva fosse un mezzo di segnalazione usato nei Balcani… (Il Mercoledì, Moncalieri, 23 luglio 2014).

A Domodossola, invece, era dell’aprile 2017 la notizia secondo la quale, dopo il codice dei ladri,

di recente nella nostra zona sono circolate voci a riguardo di altri stratagemmi come, ad esempio, quello di lasciare una manciata di sassolini davanti ai portoni o ai cancelli d’ingresso delle ville.

Persino la moda dello shoefiti nel 2015, presso lo skatepark di via Giacomo Dina, a Torino, è stata interpretata come un modo “per segnalare posti dove era possibile compiere furti in orari diversi della giornata”.

Nel frattempo, però, per il codice vero e proprio era arrivata un’altra novità: il 10 luglio del 2009, La Nuova Provincia di Asti ripresentava il codice ma questa volta rielaborando i vecchi disegni fatti a mano con l’uso della computer graphic. Li colorava, li rendeva più moderni ma – almeno – considerava la faccenda di dubbia origine. Lo stesso (ma senza disegno) farà la cronaca novarese de La Prealpina il 26 dello stesso mese.

Da quel momento in poi di solito le nostre fonti mostrano queste elaborazioni/rielaborazioni grafiche e non più i vecchi disegni, affascinanti ma ormai inconsueti per chi è abituato ai programmi di impaginazione correnti.

E ancora: ai primi di gennaio del 2010 “uno sconosciuto” si presentava alle porte di un certo numero di famiglie di Condove, in val di Susa. Dava l’impressione di voler vendere qualcosa, ma senza che nessuno gli aprisse. Insospettiti, gli abitanti iniziavano a controllare le porte e i muri, inevitabilmente trovando dei segni (assai rozzi, a giudicare dalle foto disponibili) attribuiti allo sconosciuto. Consultano Internet, trovano il codice dei ladri, lo collegano ai graffiti e in quindici si recano dai Carabinieri per denunciare il fatto.

Il 19 gennaio il settimanale locale, Luna Nuova, pubblicherà una versione del codice assai interessante perché redatta con una macchina da scrivere tradizionale – il che ne testimonia l’origine “antica” – e con i disegni fatti a penna. Anche questo caso presenta un’interessante duplicità di intenzioni: uno dei segni vuol dire non si tocca – casa amichevole, a conferma del fatto che nelle sue versioni più antiche il codice è espressione di una società “segreta”, quella delinquenziale/occulta, che può proteggere.

Di fatto, come un po’ tutti i cifrari e le crittografie, i nostri codici nascondono e ostentano: ostentano e indicano una potenza occulta. Nascondendo, in realtà rivelano, se non pienamente, un potere che fa intravedere la dimensione sacra di sé proprio nell’ambiguità delle intenzioni: il codice è “cattivo”, ma a volte, a suo piacimento, salva.

Il pensiero corre inevitabilmente agli stipiti segnati delle abitazioni degli ebrei nella diaspora egiziana, nel capitolo 12 dell’Esodo. Lì il Signore comanda di fare sugli stipiti delle porte “un segno” non meglio specificato col sangue di un agnello o di un capretto. Così i primogeniti degli ebrei saranno protetti dal passaggio dell’angelo sterminatore destinato agli egiziani.

E anche nella nostra regione la presenza dei segni “protettori” si è perpetuata in alcune versioni del “codice”.

Ora i casi più recenti della nostra leggenda. Nel giugno 2012, ad Alessandria, telefonate mute e “segni strani” notati da alcuni accanto ai citofoni inducono a ripubblicare il codice nella versione standard recente, quella con il segno “casa con allarme” (Il Piccolo, 22 giugno). “Segni strani” sui muri o nei pressi delle abitazioni segnalati anche a Settimo Torinese nel gennaio 2014, ed allora ecco di nuovo il codice, ossessivamente ripescato da Internet (La Nuova Periferia di Settimo, 15 gennaio 2014).

Uno dei più vistosi endorsement della nostra leggenda da parte delle autorità, comunque, sembra essere quello operato a Cuneo dalla Polizia con una nota emessa a Capodanno del 2015. In quell’occasione i giornalisti parlarono di “decifrazione” fatta dai poliziotti grazie alla comparazione di segni visibili a malapena, magari tracciati negli spazi nascosti sotto la buca delle lettere. In realtà la ripresentazione del solito schema pare condurre in una sola direzione: i nostri simboli standard, rilanciati all’infinito (La Stampa, cronaca di Cuneo, 2 gennaio 2015; La Fedeltà, Cuneo, 7 gennaio 2015). Peraltro, l’endorsement cuneese fa il paio con la conferenza stampa del Comando provinciale dei Carabinieri di Novara del 12 ottobre 2015: “la presenza di un apposito codice” (la serie è la solita, sia pur con grafica diversa) sarebbe stato un argomento centrale dell’intervento rivolto al pubblico (Notizia Oggi Vercelli, 19 ottobre 2015).

Nella primavera dello stesso anno, altra ondata di furti nel Canavese: sui serramenti di alcune case, scriveva un settimanale del posto, i ladri “hanno lasciato i segni dei loro passaggi”. Quali? Non lo si spiegava in dettaglio, ma riecco il codice, pubblicato con un ritorno alla versione con scritte a macchina e con disegni a penna. Chiunque notasse i “segni” doveva contattare subito i Carabinieri, consigliava La Voce del Canavese del 28 maggio.

Nel maggio del 2018 – è una della varianti più recenti – alcuni graffiti confusi sulla plafoniera dei citofoni di un condominio sono stati anch’essi interpretati come “codice cifrato stilato dai delinquenti” dopo che gli appartamenti erano stati svaligiati a Borgaretto, presso Beinasco (L’Eco del Chisone, 22 maggio 2018).

Ancora più interessante, anche se un po’ precedente: nell’autunno 2016, in Valsesia. A Livorno Ferraris diversi abitanti avevano trovato dei segni sui citofoni: delle “N”, delle “A”, delle “S”. Ne avevano discusso tra vicini, poi sui social ed è lì che era stato fatto circolare ancora il solito codice. La “N” varrà per “colpire di notte”, la “A” per “pericolo o casa sempre abitata” (e sarebbe una variante rispetto al solito), ma della “S” non si sapeva niente.

Suggerimento del settimanale La Sesia del 22 novembre 2016 per questa mancanza: nulla vieta che i ladri possano adottare un codice diverso.

Forse in quest’ultima frase sta una chiave di lettura generale per la vitalità di questa storia. I simboli, cosa viva, possono esser mutati all’occorrenza, “sbagliati” o modificati con criteri diversi. A crearli è un processo collettivo, a scriverne la storia – giacché la dimensione fondamentale del “codice dei ladri” è la fissazione su carta di un linguaggio simbolico – sono miriadi di persone, non un gruppo di “autori”. Sono, davvero, voci diventate segni grafici.

Anche per questo, è plausibile che questa vicenda plurisecolare sia destinata a fornire nuovi spunti a noi del Giandujotto scettico

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