Le misteriose Befane delle uova di Pallanza
Giandujotto scettico n° 28 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (03/01/2019)
Era il 19 gennaio del 1931. Quel giorno il Corriere della Sera, da sempre molto attento anche alla cronaca del Piemonte nord-orientale, pubblicava un pezzo su un caso agghiacciante che stava rendendo inquieti i cittadini di Pallanza, nel Verbano.
Un singolare fatto, attorno al quale la fantasia del popolino sta tessendo le più azzardate dicerie, vien segnalato da Pallanza. Ignoti han deposto in varie abitazioni e in alcuni esercizi alcuni cestini contenenti uova. Naturalmente, la sorpresa di quanti hanno ricevuto simili regali non è poca: tanto più che, fra le uova misteriose, si sono trovati bigliettini su cui è tracciata, ben distintamente, la lettera M.
Già, cosa poteva mai significare quella misteriosa M che alcune persone avevano ricevuto insieme alle uova? Poteva forse significare “Morte” – tragico indizio di uova avvelenate? Era un dono dal Cielo o una trappola letale?
Due giorni dopo, il 21 gennaio, il Corriere tornava sul caso con un articolo dal titolo divertito: “L’uovo di Colombo di Novara”. La vicenda sembrava già in esaurimento. Da cinque giorni il “misterioso mecenate gastronomico” non si faceva più sentire. Il cronista del giornale milanese aveva però raccolto una serie di testimonianze e poteva delineare meglio i contorni di una storia tanto curiosa.
Il primo a ricevere il misterioso dono era stato il parroco, una decina di giorni prima. Don Emilio Sacco aveva scoperto circa sessanta uova allineate come soldatini sulla porta di casa, una in fila dietro l’altra. Aveva pensato a un’offerta di qualcuno che volesse rimanere anonimo e le aveva distribuite ai poveri. Il giorno dopo era toccato al proprietario di un caffè sull’imbarcadero: per lui, ventiquattro uova.
La mattina successiva era stato il turno del signor Guastino, l’ufficiale giudiziario del Tribunale, che ne aveva ricevuto quarantotto. Poi era stata la volta di un avvocato, cinquantadue uova. Infine una sposina padovana, che se n’era ritrovate trentadue sul pianerottolo della sua modesta abitazione. Fu lei a dare l’allarme, forse perché questa volta il dono aveva un aspetto ancora più inquietante: magari cercando di dar loro un tocco artistico, l’anonimo donatore le aveva disposte a forma di M. La donna corse a raccontarlo al Commissariato e, tanto per gradire, a dirlo all’intero paese. L’enigma fu sulla bocca di tutti, saltarono fuori casi precedenti e, come scriveva il Corriere, “si riunirono le fila della frittata civica”.
In tempi recenti i beneficati forse avrebbero optato per buttar via un dono così sospetto. Ma era il 1931, “tempi in cui le uova raggiungono prezzi non certo trascurabili”, come commentava il giornale milanese. La sposina padovana, incerta tra buttare via tutto e rischiare l’avvelenamento, pensò bene di andare a trovare la vicina settantenne e di regalarle una di quelle uova, senza raccontarle bene come le avesse trovate. La donna lo bevve e non ebbe problemi.
A rischiare scientemente la vita con uno di quei misteriosi doni fu invece il dottor Carlo Alberto Luzzatti, medico del paese, che per di più ne era anche l’ufficiale sanitario. Forte della sua scienza, aveva preparato un antidoto contro eventuali avvelenamenti, poi aveva agguantato un uovo e se l’era bevuto tutto di un fiato, “tra le ansie di coloro che assistevano alla prova”. Passarono circa dieci minuti, con i presenti che lo tempestavano di domande (“come sta? Si sente niente? Non le pesa nemmeno? Un po’ amaro no?”), ma le uova sembravano sane.
Alla fine si decise che non erano avvelenate e che potevano trasformarsi in una ricca frittata.
Dunque, quella “M” non sembrava evocare la morte. Nessuno, pensiamo, nel 1931 osava associare la M formata dalle uova alla consonante che in quegli anni tutti vedevano stampigliata, inalberata, riprodotta su archi e municipi, disegnata da drappelli di bambini o di militari secondo modelli più o meno stilizzati. Era, naturalmente, la “M“ per eccellenza, l’iniziale di Mussolini.
È solo un suggerimento vago, naturalmente. E se non era quello, che cos’era, allora? Le voci sul misterioso dispensatore di uova si rincorrevano. C’era chi suggeriva che potesse essere
una donnetta di una borgata della bassa Ossola, evidentemente desiderosa di regalare le uova ai pallanzesi per tentare la concorrenza, non lealissima, ai venditori locali.
Insomma, una venditrice che voleva far conoscere la sua merce ai futuri clienti. Altri propendevano per una commerciante che non ricordando più gli autori degli ordini avesse finito per distribuire le sue uova a caso. “Una specie di Canella applicato alla cucina”, commentava il giornale, menzionando il protagonista della controversia celeberrima sullo smemorato di Collegno.
Altri si misero a indagare direttamente battendo i pollai della zona per capire chi potesse aver lasciato quei misteriosi doni. Ma la Befana delle uova – così era stata soprannominata – non venne allo scoperto.
Qualcuno pensò bene di trasformare le quantità di uova in numeri da giocare al lotto: 24, 32, 48 e 52. Anche in questo caso, un nulla di fatto.
In chiusura il giornalista prendeva un po’ in giro le forze dell’ordine che avevano aperto un’inchiesta sulla vicenda.
Una volta tanto i gendarmi si affannano a cercare chi dona anziché chi ruba.
Perché i cronisti del quotidiano milanese dovevano trovare divertentissima la vicenda. Già il 20 gennaio, non a caso, il Corriere aveva pubblicato un breve commento che sotto il titolo “Pessimismo”, invitava i pallanzesi a prendere il tutto con leggerezza.
Le famiglie e gli esercenti dovrebbero pensare ora con affettuosa riconoscenza a questo ignoto donatore, e concludere: “Ce ne sono ancora dei cuori generosi”. Ma ai cuori generosi nessuno crede più.
Insomma, quelle trovate sugli usci erano passate per uova del malaugurio, al posto di esser considerate il classico “dono del cielo”. Magari, scriveva il commentatore, chi aveva fatto i doni era semplicemente un po’ matto, un uomo che bruciava di amore per i propri simili e che avrebbe voluto “che i suoi contemporanei si assidessero a mense ben fornite”. Ma purtroppo per lui, nessuno aveva creduto alla sua bontà.
E se il suo bel gesto non è stato compreso, lo si deve al fatto che, al mondo, quelli che donano le uova sono pochi, e sono moltissimi quelli che le vendono. E i creatori della pubblica opinione sono questi ultimi.
Per quanto ne sappiamo la storia delle uova di Pallanza si spense così, senza una vera soluzione. Ma, davvero curioso, qualcosa di analogo accadde di nuovo quarantasette anni dopo, cioè nel 1978, a Vaprio d’Agogna, paese a circa sessanta chilometri di distanza dalle sponde del Lago Maggiore.
Questa volta fu La Stampa a dare la notizia. In un articolo pubblicato il 22 settembre annunciava: “Mano misteriosa semina uova con biglietti da mille”.
Quella raccontata era “una storia misteriosa, condita di sortilegi, incantesimi, magie”.
Le modalità erano un po’ diverse rispetto a quelle del 1931: alcune persone del paesino novarese avevano ricevuto un pacchetto con dentro dodici uova e duemila lire; un dono ricevuto, da ogni beneficiario, per ben tre volte. Tra i destinatari del misterioso involto c’era stato Antonio Monastra, portalettere e personaggio di spicco del paese, che così raccontava al quotidiano torinese:
La prima volta è successo una quindicina di giorni fa: il sacchetto l’abbiamo trovato su un davanzale. Era un fatto strano, ma le uova le abbiamo mangiate. Poi la cosa si è ripetuta una, due volte, sempre con dodici uova e duemila lire. Mia moglie era impressionata, la seconda e la terza volta le uova non le abbiamo più mangiate e le seimila lire le verseremo all’asilo.
Parlandone con altri compaesani, Monastra aveva scoperto di essere in buona compagnia: almeno altre due persone avevano ricevuto il dono con le trentasei uova e le seimila lire divise in tre tranches successive. Il portalettere se ne lamentava. Non aveva mai avuto dissapori con nessuno, perché aveva ricevuto quelle uova? Che significato potevano mai avere?
Anche in questo caso i tentativi di interpretazione furono molteplici. Qualcuno ci aveva visto un rituale superstizioso, “una specie di penitenza ordinata da qualche fattucchiera”. Don Luigi, il parroco, ci vedeva un’affinità con le catene di Sant’Antonio che in quel periodo dilagavano in paese e contro cui aveva fatto da poco una predica dal pulpito. Altri si affidavano alla cabala per concludere che il due e il sei portavano male. Le operaie della fonderia sembravano invece attribuire alle uova una virtù rigenerante per la virilità maschile, soprattutto se trasformate in zabaione, con lo zucchero necessario da acquistarsi tramite le duemila lire. Insinuazione a cui il portalettere rispondeva, un po’ piccato:
Non può riguardarmi, anche perché nessuna donna fuori casa avrebbe motivo di giudicarmi.
Anche in questo caso le indagini finirono nel nulla. Gli appostamenti non sortirono risultati. Soltanto la macellaia del paese ricordava tre donne mai viste prima che si erano recate ad acquistare delle uova: una due dozzine, l’altra una dozzina.
Ma anche in questo caso i doni cessarono e non se ne parlò più. E la domanda sulla ragione di quegli strani doni – “è un rito magico, uno scherzo o una minaccia?”, si era chiesta la Stampa – rimase senza risposta. Il simbolismo di questi originalissimi doni da Befane restò celato in chi si era dato tanto da fare, a decenni di distanza, in due località relativamente vicine, per mettere in opera delle simili consegne.
Foto di Wendy van Zyl da Pexels