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Il giudizio della bara

Oh! Vedete, signori, vedete! Le ferite gelate del cadavere di Enrico si sono riaperte e il sangue scorre di nuovo! Arrossisci, arrossisci, ignobile ammasso di deformità; è la tua presenza che fa scorrere del sangue da queste vene gelate che non ne contengono più. Il tuo misfatto inumano e snaturato provoca questo fatto contrario alle leggi della natura! (Riccardo III, 1591-1592)

Chi parla è Lady Anna, rivolta al deforme Riccardo di Gloucester, assassino del re Enrico VI: sulla procedura garantisce William Shakespeare. Ma in queste frasi c’è molto più che il semplice orrore per il vile delitto: c’è una delle pratiche più durature della giurisprudenza europea, applicata fino alle soglie dell’Ottocento.

Per lungo tempo, infatti, si è creduto che il cadavere di un uomo ucciso, se toccato dal suo assassino, riprendesse a sanguinare, o che in sua presenza comparissero altri segni indicatori (fremiti, spasmi muscolari, ecc). Questa prova, chiamata judicium feretri o ius feretri (giudizio della bara) o anche “ordalia del tocco”, fu a lungo considerata una delle prove più sicure per individuare l’autore di un delitto; era diffusa in tutta Europa e poi anche nei territori coloniali, Americhe comprese. A volte, al posto del corpo intero, venivano staccate solo le mani, e le si faceva sorreggere dal sospettato per vedere se qualche cambiamento aveva luogo. Questa procedura, comunque, non faceva parte del diritto romano: era più proprio delle culture centro-nordeuropee e del diritto germanico. Probabilmente in molti casi insieme alla “reazione” del morto era valutato anche l’atteggiamento del sospetto nei confronti della prova.

Questa pratica è antica, ma non se ne conosce l’origine esatta: viene menzionata già nel Nibelungenlied, il ciclo di storie del XIII secolo sul regno dei Burgundi, ma se ne trovano tracce anche in testi precedenti. Qualche cenno ad una sua applicazione c’è già nella Scozia della fine del X secolo, e altri la riconducono alla fine dell’Impero romano e al tentativo di contenere e di sostituire con esso un’altra pratica di quelle aree europee, il diritto di faida.

Studiosi come Ubaldo Villani-Lubelli, storico del diritto dell’Università del Salento, hanno mostrato nel 2012 sulla rivista Quaderni Lupiensi di storia e diritto come – se non come pratica – l’idea che il corpo dell’ucciso “reagisse” in presenza dell’assassino esisteva già nell’antichità classica. Riferimenti a questa credenza si trovano persino nelle “Leggi” di Platone, tanto per rimanere a figure notissime. In realtà, sebbene questo istituto abbia avuto lunga vita, ancora Villani-Lubelli ha richiamato l’attenzione sul fatto che da un certo punto in avanti la chiesa occidentale combattè in modo fermo la pratica delle “ordalie”, cui anche la faccenda del “giudizio della bara” è riconducibile – addirittura tramite un pronunciamento emesso in un Concilio importantissimo, il Laterano IV del 1215.

Nelle ordalie il giudizio su un sospettato veniva determinato sulla base di prove fisiche in cui Dio avrebbe dovuto intervenire per far condannare il colpevole e al contempo risparmiare l’innocente. Ad esempio, nell’Europa medievale veniva spesso invocato il “giudizio del fuoco”, con numerose variazioni sulla procedura e sulle regole applicate. Solitamente, però, il presunto assassino veniva marchiato con un ferro incandescente e le ferite venivano esaminate a distanza di tempo. A seconda dell’area geografica e del periodo, l’innocenza era garantita dall’assenza di lesioni o dalla guarigione delle stesse senza suppurazioni. La “verifica” era spesso fatta alla presenza di tutto il popolo e accompagnata da formule codificate, benedizioni e funzioni religiose. Assumeva così i connotati di una vera e propria cerimonia. Per i membri del clero, invece, si preferiva ricorrere alla cosiddetta “ordalia del pane”. Sull’altare di una chiesa veniva collocato un pezzo di formaggio, pane o torta, e il presunto colpevole invitato a mangiarlo. Dio avrebbe mandato l’arcangelo Gabriele a chiudere la gola e far soffocare l’autore del delitto.

In tutto ciò, però, non va dimenticato che la storia del “giudizio della bara” di sicuro ci dice molto sulla storia delle istituzioni giuridiche, sulla loro evoluzione, sulla mentalità religiosa e sulle sue pratiche, ma che di sicuro ci parla moltissimo anche della storia del pensiero scientifico, del concetto di prova, della storia della medicina… Si tratta infatti di una prova che ha la pretesa di essere “empirica” e dunque come tale di poter essere sottoposta al vaglio di una serie di criteri che, certo, a noi appariranno oggi improbabili, ma che riflettevano appieno i principi epistemologici e filosofici dell’epoca.

Per quanto riguarda l’Italia, le principali testimonianze sul giudizio della bara ci arrivano dai secoli XVI e XVII. Il giurista napoletano Paride Dal Pozzo (1410-1493), inquisitore generale del regno di Napoli, racconta ad esempio nel De syndicatu (l’edizione definitiva è del 1485) che il giudizio della bara fu usato a Roma per individuare i colpevoli della morte di un cardinale.

Un secolo e mezzo dopo, il gesuita Giovanni Stefano Menochio (1575-1655) nel primo volume del suo Delle stuore, overo trattenimenti eruditi (Venezia, 1646) descrive un episodio simile in occasione dell’accoltellamento di tale Giovanni Abustero: sospettando del delitto due cacciatori, la famiglia chiese che fosse eseguito il judicium feretri. Ai due uomini fu fatto toccare il cadavere tenendo in mano della lana bianca e giurando la propria innocenza. Ma quando fu il turno di uno dei due, dal corpo esanime uscì sangue, che arrossò la lana: il colpevole, così individuato, venne condannato a morte.

Il giurista bolognese Ippolito Marsili (1450-1529) nel terzo capitolo della sua monumentale Practica criminalis racconta invece che in giovinezza, quando era governatore di Albenga, nel savonese, la tecnica gli fu suggerita da un anziano della zona. La prova andò a buon fine, anche se il giurista ci tiene a specificare che, non fidandosi completamente del metodo, procedette contro il colpevole solo dopo aver raccolto ulteriori prove del suo coinvolgimento.

Ma al judicium feretri presta fede, in larga misura sull’autorità degli antichi, anche Marsilio Ficino nella Theologia platonica de immortalitate animorum del 1482. Secondo il filosofo, il limite tecnico dell’ammissibilità della prova era costituito dal manifestarsi del rigor mortis nel cadavere. Bisognava dunque fare in fretta, perché dopo alcune ore dal delitto un giudice non avrebbe più potuto invocarla lecitamente!

A un criterio “temporale” fra assassinio ed esperimento del sanguinamento del cadavere a fronte del sospettato di assassinio, del resto, molto dopo si assoggetta anche il medico romano Paolo Zacchia (1584-1659), di cui si è occupato in modo eccellente un’altra storica del diritto, Cecilia Pedrazza Gorlero, scrivendone nel 2013 su Historia et ius.

È proprio questo ad essere interessante: i dubbi sul “giudizio della bara”, sull’effusione del sangue o sui movimenti post mortem crescono mano a mano che si sviluppa il dibattito sulla fisiologia umana, sul sistema cardiocircolatorio, sui criteri prognostici e diagnostici dei fenomeni che circondano la morte, violenta o meno che sia.

Nel 1680 il giurista tedesco Peter Müller (1640-1696) nel suo De iure feretri, sive cruentationis, uscito a Jena, difendeva ancora in modo sistematico la pratica, ma lo faceva sulla base dei criteri della scienza del tempo, presentandone da storico moderno la tradizione germanica, ma argomentando in termini di fisiologia sulle modalità del sanguinamento e sul perché esso potesse avvenire. Nel discutere con ampiezza la pratica che ancora se ne faceva all’Università di Tubinga, in realtà stava già parlando dei progressi che cominciavano a farsi nello studio del sistema arterioso, delle emorragie, ecc. Müller rappresenta bene il canto del cigno del nostro “giudizio della bara”.

Anche Cartesio, del resto, aveva cercato di spiegare scientificamente il fenomeno attribuendolo di volta in volta a una “proprietà vitale” che il sangue conserverebbe dopo la morte, allo spirito del defunto o a una “azione simpatica” che si stabiliva nel momento del delitto tra l’assassino e la sua vittima. Nei Principi della filosofia (1663), ancora arretrati sotto certi profili, ne individuava la causa in immaginarie “particelle della materia sottile”, peraltro artefici anche delle premonizioni ricevute in sogno.

Oggi è facile asserire che i liquidi prodotti naturalmente dalla decomposizione erano scambiati per sangue, nel clima di attesa e di sacralità che doveva circondare queste prove e nello schema generale delle teorie mediche del tempo (nonostante i suggerimenti già di Ficino ci sono stati tramandati casi di cadaveri riesumati a distanza di settimane dal delitto per confermare sospetti sorti in un secondo tempo). Tutto questo, senza contare la possibilità di manipolazioni ai danni di un presunto colpevole che si voleva “incastrare”. Bisogna infine considerare che le ordalie nei tempi del loro massimo splendore erano spesso somministrate dalle autorità religiose, che grazie alle confessioni potevano avere maggiori indizi, non divulgabili direttamente. In questi casi il sacerdote chiamato a testimoniare la presenza di sangue poteva indirizzare i giudici verso un sospetto piuttosto che un altro.

La fiducia nel giudizio della bara declinò rapidamente con il razionalismo settecentesco, ma si trovano prove della sua sopravvivenza ancora nella seconda parte del XIX, specie negli Stati Uniti. Nel 1866 lo storico americano Henry Charles Lea asseriva che questa credenza era ancora diffusa “tra le menti credule e non istruite”. Una decina d’anni dopo, Mark Twain scriveva nelle Avventure di Tom Sawyer:

Injun Joe aiutò a sollevare il corpo dell’uomo ucciso e lo mise in un carrello per il trasporto; e tra la folla si sussurrò con un brivido che la ferita aveva sanguinato un po’. I ragazzi pensarono che questa felice circostanza avrebbe spinto i sospetti nella giusta direzione.

Nel 1860, infine, i giornali di Filadelfia riportarono il caso di alcuni parenti di una vittima che, diverse settimane dopo il decesso, chiesero ripetutamente al coroner di riesumare il loro congiunto, in modo da farlo toccare alla persona su cui nutrivano sospetti.

Ma le autorità si rifiutarono di accontentarli: l’era del judicium feretri era ormai tramontata.

Sofia Lincos

Sofia Lincos collabora col CICAP dal 2005 ed è caporedattrice di Queryonline. Fa parte del CeRaVoLC (Centro per la Raccolta delle Voci e Leggende Contemporanee) e si interessa da anni di leggende metropolitane, creepypasta, bufale e storia della scienza.

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