La verità su Passo Dyatlov? Non la sapremo mai
Nota dell’autore: Prima della pubblicazione di questo articolo è stata diffusa una notizia inattesa: su richiesta dei parenti, con il supporto dalla testata russa Komsomolskaya Pravda, il corpo di Zolotarev – il più anziano della spedizione, colui che non conosceva nessuno del gruppo e si è unito solo poco prima della partenza – è stato riesumato e sottoposto al test del DNA mitrocondiale. I risultati hanno suscitato una nuova ondata di clamore fra quanti seguono il caso del Passo Dyatlov: secondo le analisi, infatti, il corpo seppellito nella tomba è sì della persona che nelle foto della spedizione viene indicata come Zolotarev, ma il DNA non coincide con quello della linea materna della famiglia. Immediatamente, “complottisti” e “scettici” hanno dato due interpretazioni diversissime dei fatti, con i primi che ritengono questa sia una nuova prova a favore dell’ipotesi che la spedizione fosse infiltrata dal KGB o simili, e i secondi che invece reputano probabile semplicemente che, come spesso accadeva ai tempi, Zolotarev fosse un figlio illegittimo, magari di qualche parente giovane e non sposata, che è stato accolto ed allevato dai familiari che potevano far evitare lo scandalo.
In un secondo momento, comunque, una nuova analisi ha mostrato che il DNA era effettivamente lo stesso della nipote di Zolotarev. Alcuni “complottisti” continuano tuttavia a ritenere possibile che nella tomba sia stato seppellito il fratello dell’escursionista, che lavorava per la Germania ed è scomparso nel nulla durante la Seconda Guerra Mondiale.
Ulteriori approfondimenti sul caso di Passo Dyatlov possono essere ascoltati nella puntata 22 di Radio Cicap, il podcast ufficiale del Comitato.
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La verità su Passo Dyatlov non la sapremo mai. E questa probabilmente è l’unica verità a nostra disposizione.
Sono trascorsi 60 anni esatti da quegli eventi, che si sono svolti, comunque siano andati, in un universo completamente diverso dal nostro, per molti versi inimmaginabile: il controllo estremo esercitato su tutto e tutti dai vertici dell’Unione Sovietica, ma anche tecniche forensi non avanzate e metodologie di indagine che oggi non sarebbero ritenute adeguate nemmeno per garantire il livello minimo di rigore atteso.
La morte di 9 giovani uomini e donne in una landa gelida e desolata, i loro corpi rimasti a decomporsi fra le nevi per mesi e mesi, le espressioni congelate per sempre sui volti… immagini che non possono non scolpirsi nell’immaginario collettivo, e tuttavia, come sovente accade per queste vicende, nel corso dei decenni la leggenda si è sovrapposta alla storia in strati sempre più spessi, creando una narrativa efficacissima sotto il profilo del mystero irrisolvibile, e una serie di presunti punti fermi ormai diventati preconcetti, dai quali è difficilissimo svincolarsi per affrontare correttamente un’analisi lucida e razionale dei possibili fatti.
Possibili e mai conclusivi, appunto, perché molti degli indizi che forse avrebbero potuto trasformarsi in prove e consentire la ricostruzione degli eventi sono andati persi fin dall’inizio, e solo con le conoscenze attuali ci rendiamo conto ora di quello che avrebbe dovuto essere ricercato ai tempi.
La storia che si narra più o meno ripetutamente e con pochissime variazioni recita:
nel gennaio del 1959 un gruppo di 10 giovani ma espertissimi trekker partono per un’escursione sugli sci nei pressi della zona degli Urali che la popolazione locale, i Mansi, chiama la Montagna dei morti.
Uno di loro, Yuri Yudin, abbandona il gruppo e torna indietro due settimane prima degli altri a causa di una sciatica che è tornata a farsi sentire; il resto della spedizione dovrebbe tornare il 12 o 13 febbraio, ma non lo fa.
Un piccolo ritardo sulla tabella di marcia non preoccupa nessuno, ma finalmente il 20 febbraio le famiglie ottengono di poter inviare una missione di soccorso, composta per lo più di altri studenti e insegnanti volontari. All’inizio, tutti pensano che i ragazzi abbiano avuto un qualche incidente che li ha bloccati o costretti a seguire altri percorsi, e si aspettano di trovarli ancora vivi.
Queste speranze si infrangono naturalmente dopo 6 giorni, quando viene rinvenuto il campo base a soqquadro, con la tenda tagliata dall’interno e quasi tutti gli averi della spedizione abbandonati alla rinfusa al suo interno. Seguendo una fila di orme ancora parzialmente ben visibili, che conducono verso il limitare della foresta a 1.5 km dall’accampamento, sotto un albero di cedro, la squadra di soccorso rinviene i primi due corpi, Yuri Krivonischenko e Yuri Doroshenko, seminudi e scalzi, uno supino e l’altro prono, coperti dalla neve.
A breve distanza da loro, a 150 metri circa gli uni dagli altri, vengono poco dopo trovati i corpi di Igor Dyatlov, Zina Kolmogorova e Rustem Slobodin, che sembrano essere morti mentre cercavano di tornare indietro. Sono infatti tutti e tre rivolti verso la tenda, e la morte ha congelato Slobodin e Zina Kolmogorova in pieno movimento, mentre tentavano di strisciare verso il campo base.
Ciascuno è vestito meglio degli amici, progressivamente più coperto, sebbene quasi nessuno indossi scarpe.
La neve alta impedisce il proseguimento delle ricerche, che vengono sospese fino al maggio successivo. Con i primi disgeli, finalmente i soccorritori – una squadra ora più professionale, con esercito e anche, si dice, membri del KGB – trovano in un burrone dietro il cedro i resti di una specie di “pavimento” costruito con rami e arbusti per non dover poggiare direttamente sulla neve. E infine, a sei metri da lì, gli ultimi quattro corpi. Lyuda Dubinina, Nicholas Thibaeux-Brignolles, Aleksander Kolevatov e Semyon Zolotarev, nel letto di un torrente, i volti decomposti, Dubinina quasi in ginocchio, Zolotarev e Koletav stretti “a cucchiaio” l’uno all’altro, al collo di Zolotarev una macchina fotografica.
E se le autopsie dei primi cinque avevano identificato la causa della morte nella prevedibile ipotermia, per questi quattro i risultati delle analisi furono più sconvolgenti: tre di loro avevano riportato delle ferite mortali, tutte interne, e tutte riconducibili solo a quella che i referti definirono “una sconosciuta forza irresistibile”.
Molti altri dettagli poi accrescevano il mistero:
- Sui loro abiti furono riscontrate tracce di radioattività.
- Non vi erano altre orme oltre le loro in tutta la zona, e le loro si erano conservate così nitidamente che non vi è ragione per cui eventuali altre si sarebbero dovute invece cancellare.
- Chi era la figura misteriosa fotografata fra gli alberi da Thibeaux-Brignolles?
- E quei segni sugli alberi?
- La popolazione locale, i Mansi, rilasciò dichiarazioni contraddittorie se quella dove si erano avventurati gli escursionisti fosse o meno una zona loro sacra.
- Alcuni testimoni nei dintorni dichiararono di aver visto delle strane luci arancioni in cielo, nelle notti fra il 1 e il 2 febbraio.
- Non lontano dal passo, vi era una colonia penale.
- Cos’era il bagliore di luce rimasto impresso nell’ultima foto scattata dalla macchina di Krivonischenko?
- Zolotarev aveva dieci anni più di loro e, a differenza degli altri, non aveva amici nel gruppo: si unì alla spedizione all’ultimo minuto, e aveva un passato misterioso. Qualcuno pensa che fosse un agente del KGB, infiltrato nel gruppo perché la spedizione era sospettata di voler fornire informazioni agli USA in cambio di un passaggio oltre la cortina di ferro. Non a caso, d’altra parte, le foto del suo cadavere mostrano una macchina fotografica non registrata da nessun’altra parte e di cui nessuno fa menzione nei rapporti ufficiali.
- Perché alla seconda missione di soccorso si unirono anche dei membri noti del KGB?
In Russia, raccontano i locali, Passo Dyatlov è uno dei misteri più “sentiti”. Da noi è arrivato in tempi abbastanza recenti, come si diceva in particolare dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Ma chiunque ascolti questa storia non può fare a meno di porsi le stesse domande cui il tempo non ha ancora saputo dare risposta: perché i ragazzi hanno tagliato la tenda dall’interno? da chi o cosa fuggivano? Perché hanno abbandonato la tenda? Perché ne sono usciti seminudi ma ordinatamente? Perché hanno camminato per quasi un chilometro e mezzo prima di decidersi a tornare indietro? Cosa li ha terrorizzati a tal punto? Oppure chi li ha costretti e come?
E naturalmente è stato fornito ogni possibile genere di spiegazioni:
- la slavina, che ha bloccato parte della tenda, costringendoli a tagliarla per uscire, e farli fuggire per timore che stesse arrivando altra neve;
- l’esperimento nucleare, il cui riverbero ha terrorizzato i trekker e li ha spinti lontani dal campo base;
- qualcuno, magari uno o due evasi dalla vicina colonia penale, ha costretto i giovani, armi alla mano, a lasciare il campo base, e li ha abbandonati alla loro sorte quando si furono allontanati abbastanza;
- gli studenti sono stati uccisi dal KGB, che sospettava o aveva scoperto uno scambio di informazioni con gli USA;
- il gruppo era entrato in una zona sacra per i Mansi, e per questo doveva morire;
- BigFoot, di cui i ragazzi parlano anche nel giornale (satirico) che hanno scritto durante il viaggio e che sarebbe la strana figura fotografata da Thibeaux-Brignolles;
- alieni, o fantasmi, o qualcosa comunque di sovrannaturale;
- gli studenti avevano assunto qualche droga lisergica e il “trip” li ha portati fuori dalla tenda, uccidendoli;
- è scoppiata una rissa all’interno del gruppo che è andata fuori controllo, e da lì si è inanellata una serie di sfortunate coincidenze e concatenazioni di eventi.
Ovviamente, ognuna di queste affermazioni è stata o può essere smentita con semplici obiezioni che fanno cadere l’intera struttura della spiegazione proposta:
- la pendenza su cui avevano montato la tenda non era tale da poter provocare valanghe, e comunque non è mai stata trovata traccia o segnalazione di una slavina in quella zona in quei giorni;
- pur essendo piena guerra fredda, non si ha notizia, nemmeno dai documenti desecretati, di esperimenti in quella zona in quei giorni;
- uno o più evasi difficilmente avrebbero lasciato lì il denaro e i beni che sono stati ritrovati nella tenda, e forse avrebbero anche provato a molestare o violentare le due donne (che all’autopsia risultavano ancora vergini – per quanto le temperature proibitive della zona non lo rendono particolarmente plausibile sotto un profilo fisiologico);
- come anche per il punto precedente, non sono state riscontrate tracce di altre persone oltre a quelle dei nove escursionisti;
- non risulta che quella fosse una zona sacra, e i Mansi hanno anche partecipato attivamente alle ricerche. Inoltre, come sopra, non furono trovate tracce di presenze estranee alla spedizione;
- non chiedetemi di dilungarmi su Bigfoot, alieni e fantasmi;
- gli esami tossicologici non hanno rilevato presenza di sostanze di alcun tipo, droghe o alcol;
- nel gruppo si conoscevano più o meno tutti da tempo, ed essendo escursionisti esperti non si sarebbero mai fatti trascinare così tanto dalle emozioni da commettere l’unico errore mortale che si può fare in queste circostanze, abbandonare il campo base.
Personalmente, fra tutte, quella che ritengo la più verosimile è proprio l’ultima, la rissa finita in tragedia, perché è vero che avrebbe richiesto una sequenza di eventi abnormalmente sventurati, ma è anche vero che, a volte, nella vita, queste sequenze accadono, e portano alla tragedia.
Riesco a immaginarmi una discussione che diventa troppo accesa, qualche spintone, magari qualche pugno (i volti dei due Yuri, per esempio, erano graffiati e con lividi, a differenza di quelli degli altri), qualcuno tira fuori un coltello (nella tenda c’erano altri tagli oltre quello da cui sono usciti), la tenda si lacera, e i ragazzi finiscono privi di riparo. Così, rimanendo uniti, cercano rifugio nel vicino boschetto, dove però nessuno arriva a vedere l’alba.
L’ordine in cui sono morti è più o meno accertato senza grandi margini di dubbio: i due Yuri per primi, poi Dyatlov, Slobodin e Zina. Gli altri quattro, probabilmente più o meno allo stesso tempo, dopo aver cercato di crearsi un rifugio. Parte delle ferite riscontrate sui loro cadaveri potrebbero essere ricondotte ai due ulteriori mesi trascorsi sotto il ghiaccio nel letto del fiume (per esempio, la compressione della cassa toracica di Lyuda potrebbe essere stata dovuta proprio al peso della neve ed essere stata la causa di morte diretta o essere avvenuta appena post-mortem).
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Il problema, con Passo Dyatlov così come con molti altri casi simili, è, come dicevamo, che ci sono ormai 60 anni di leggenda sovrapposti alla storia, e i dati nudi e crudi si sono ormai persi nel tempo, a partire da un “scena del crimine” inquinata fin dal primo istante. I soccorritori erano convinti di trovarli ancora vivi, e nel 1959 la sensibilità in materia era piuttosto diversa, quindi non sapremo mai com’era la tenda nel momento in cui l’hanno abbandonata, o cosa sia stato davvero rinvenuto nel campo base e addosso ai cadaveri. Si prenda ad esempio la questione delle macchinette fotografiche: secondo Yuri Yudin erano circa una a testa, ma ufficialmente ne risultano solo 4. C’è poi l’immagine del cadavere di Zolotarev, che sembra averne al collo una e delle fotografie che non sono state ricondotte a nessuna delle camere note. La macchina scomparsa di Zolotarev è uno dei temi più caldi del dibattito su Passo Dyatlov, ma ci sono almeno due spiegazioni plausibili in merito: la prima dice che le foto senza autore potrebbero venire da quella fotocamera e che la stessa è stata, come molti altri oggetti, catalogata male. L’altra dice che potrebbe trattarsi di un caso di pareidolia e quella che sembra una macchinetta fotografica potrebbe essere una maschera protettiva di stoffa, così come sostenuto fin dal principio dal pubblico ministero a capo dell’inchiesta Vasily Tempalov. Senza considerare che nessuno dei soccorritori ha mai parlato di un ritrovamento così anomalo sul corpo di Zolotarev e, nell’intervista rilasciata nel 2012, uno di loro, Vladimir Askenadze, sottolinea come, pur non non potendo essere sicuro dopo tutto quel tempo di non averla vista, tuttavia ritiene probabile che se vi fosse veramente stata, la macchina fotografica trovata con gli ultimi cadaveri sarebbe stata oggetto di grande interesse e anche eccitazione, nella speranza magari che contenesse la risposta al mistero [2].
A questo si aggiungano procedure forensi di loro già meno accurate delle attuali e un regime certamente non famoso per la propria trasparenza, che potrebbe aver nascosto o distrutto elementi importanti della storia.
E tuttavia, nonostante appunto una narrazione caotica, di dettagli contraddetti a seconda di chi li racconta e chi li riferisce, la narrazione che si è cristallizzata fa sì che ogni versione ribadisca sempre che:
- si trattava di escursionisti esperti, che stavano percorrendo un trekking di livello 3, il più difficile in assoluto: ma questo non esclude che fossero comunque giovani, che non tutti erano esattamente allo stesso livello di esperienza, che per esempio Dyatlov era noto per avere un carattere a volte egotico e prepotente, né che il legame sentimentale fra Zina e Doroshenko e fra Zina e Dyatlov stesso fosse ambiguo e non ben definito [1], si potrebbe persino pensare a qualcosa legato all’anomala vita di Zolotarev (era gay? era davvero un agente del KGB?), tutti fattori che potrebbero aver esasperato gli animi e portato a compiere uno o più errori rivelatisi fatali. Comunque, come ribadiscono alcuni, in effetti il comportamento dopo l’abbandono del campo base è stato quello che ci si sarebbe attesi in un frangente del genere;
- furono rinvenute le loro orme e solo le loro, che procedevano ordinatamente verso il bosco e il cedro: fu rinvenuta una breve fila di orme, con 8 o 9 paia di piedi, ghiacciate per un fenomeno non così raro a quelle latitudini, ma ne esistono pochissime foto, e gran parte di ciò che sappiamo deriva dalle testimonianze dei soccorritori. Quindi forse le impronte erano di meno, di più, e forse non erano ordinate, o la neve ne aveva cancellate porzioni che sarebbero state d’aiuto nella ricostruzione. In realtà, poi vicino la tenda furono trovate tracce di urina, il che potrebbe far ipotizzare che qualcuno fosse passato in un secondo momento (un cacciatore Mansi?) e le sue impronte potrebbero essere state spazzate da venti e nevicate successive;
- i cadaveri erano seminudi: No, non erano nudi, non erano sicuramente in tenuta da trekking, ma nemmeno in maglietta: per tragica che sia l’immagine, i sopravvissuti hanno spogliato i morti man mano che venivano decimati, nel tentativo di sopravvivere un po’ più a lungo degli amici. Questo spiega anche le posizioni quasi funerarie in cui erano composti i corpi di Yuri Krivonischenko e Yuri Doroshenko, probabilmente disposti dagli amici in una posa meno orribile di quella in cui erano morti. L’abbigliamento forse è dipeso dal fatto che avevano iniziato a prepararsi per la notte, o stavano lavandosi i piedi, come notoriamente Dyatlov obbligava sempre tutti a fare prima di andare a dormire, il che spiegherebbe anche perché quasi tutti indossavano solo calzettoni o calze;
- i cadaveri sono stati spostati, almeno 24 ore dopo la morte: i sostenitori di questa affermazione si basano sul fatto che le macchie ipostatiche lasciate dal livor mortis, (prodotte dal sangue ormai fermo che si deposita verso il basso fino appunto a modificare il colore della pelle) non corrispondono alla posizione in cui sono stati poi trovati i corpi di Zina, Doroshenko e Slobodin. Ma secondo alcuni ricercatori, può darsi che in sede di autopsia siano stati scambiati per macchie ipostatiche quelli che sono invece i segni tipici dell’ipotermia, che cambiano colore quando il corpo viene esposto a una temperatura diversa;
- la tenda era stata tagliata dall’interno: vero con ogni probabilità, ma ci affidiamo per questo a un’analisi forense che alcuni ricercatori contemporanei sostengono non brillare di rigore. Non è dato sapere se l’intero taglio sia stato praticato al momento della fuga, o se siano intercorsi eventi successivi (potrebbe essersi lacerata ulteriormente quando è stata seppellita dalla neve dei giorni seguenti);
- niente potrebbe costringere degli escursionisti comunque non alle prime armi ad abbandonare il campo base: per quanto ossimorico possa sembrare, quest’ultima affermazione è falsa: QUALCOSA ha DAVVERO spinto nove escursionisti esperti ad abbandonare il campo base. Il solo grande mistero di Passo Dyatlov è questo, ed è ciò che non riusciremo mai a sapere, o quantomeno è estremamente improbabile che accada.
Ma “una volta eliminato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere la verità”, diceva Sherlock Holmes. E appunto, il dato di fatto è che in una escursione sventurata nove giovani sono rimasti uccisi dopo aver lasciato la loro tenda.
E a lasciare la tenda può averli spinti o qualcosa accaduto all’esterno (meteorite scambiata per esperimento nucleare? valanga? Assassini?) e le cui tracce sono state poi cancellate dai fenomeni atmosferici successivi; o qualcosa accaduto all’interno (rissa?).
In realtà, alcuni elementi lascerebbero lo spazio anche a una via di mezzo fra le due: i piedi scalzi, la macchina fotografica di Krivonischenko rimasta montata su un treppiede, Zolotarev che stringeva ancora fra le mani un taccuino e una matita, l’assenza di tracce di lotta, la fila ordinata di impronte, potrebbero disegnare uno scenario paradossale in cui, per ragioni ignote, i ragazzi sono usciti volontariamente dalla tenda, magari per assistere a qualche fenomeno naturale, per un gioco (scommessa?), per scattare una foto speciale, e poi non siano riusciti a tornare indietro perché avevano perso l’orientamento o avevano sottovalutato la velocità in cui la temperatura li avrebbe congelati.
Il silenzio e l’oscurità che devono aver circondato la morte dei ragazzi ci colpiscono profondamente, il terrore che sale mentre senti gli amici che muoiono uno a uno intorno a te, la consapevolezza di di essere prigioniero di un luogo privo di barriere e che pure non ti lascia scampo, sono quasi tangibili per chiunque sia venuto a conoscenza di questa storia, ma cosa sia accaduto non lo sapremo mai, ed è anche per questo che non smettiamo di chiedercelo.
Note
[1] Dell’infatuazione/legame indefinito fra Zina e i due componenti maschili della spedizione si ha avuta notizia solo in tempi piuttosto recenti, quando un’amica della donna ha reso pubbliche alcune lettere che si erano scambiate ai tempi e in cui Zina parlava dell’emozione e della sorpresa nello scoprire appunto la partecipazione imprevista di Yuri alla spedizione. Così riporta Svetlana Oss nel volume “Don’t Go There: a solution to the Dyatlov Pass Mystery”, edito in Italia da LoGisma nel 2017 con il titolo “Non andateci! Il mistero del Passo Dyatlov”.
[2] Le dichiarazioni di Tempalov e di Askenadze sono riportate ampiamente nel volume “Dyatlov pass keeps its secret” di Irina and Vlad Lobatchev, Amanda Bosworth, Parallel Worlds’ Books, versione ebook, 2013, rispettivamente alle pagine 90 e 87.
Mai dire mai! Per sapere la verità potrebbe sempre succedere, ad esempio, che:
A) ritroviamo, intatto e perfettamente funzionante, il cronovisore di padre Ernetti, col quale scattare foto chiarissime delle ultime ore degli sfortunati escursionisti;
B) Rosemary Altea riesca a parlare con lo spirito di una o più delle vittime, che ci racconta esattamente come sono andate le cose, e con riscontri legalmente ineccepibili : ad esempio l’ indicazione del luogo dove è stata nascosta la spingarda ad ultrasuoni (inventata da Tesla, perfezionata da Majorana, costruita da Pontecorvo dopo la sua fuga in URSS) colla quale furono uccisi i 9.