Il bambino degli aghi
Articolo di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo
Un orrendo delitto, lo definiva, certo non a torto, La Stampa dell’11 settembre 1937. Un bambino era stato portato in ospedale per un ascesso alla regione ombelicale. Il ricoverato, cinque anni appena, era il piccolo N., che abitava a Ortona, in provincia di Chieti.
Nel corpo gli erano stati trovati “tre aghi della lunghezza di cinque centimetri”. Il chirurgo li aveva estratti, aveva denunciato la cosa ai Carabinieri e poi aveva mandato il bambino all’esame radioscopico, per controllare che non fossero rimasti altri pezzi di metallo. E lì si scoprì il fattaccio: nel corpo del bimbo erano conficcati decine e decine di aghi, la maggior parte dei quali lunghi tra i cinque e i sei centimetri, disseminati un po’ in tutto il corpo.
Interrogato, N. disse che a inserirli era stata Maria, la nonna materna, 48 anni. Una donna nei cui confronti il piccolo appariva terrorizzato. I carabinieri arrestarono la donna e un suo complice, Francesco detto Cecco, 32 anni, calzolaio, zio di N.: aveva sposato una delle due figlie di Maria, una ragazza all’epoca appena tredicenne. La ragione dello sconcertante comportamento rimaneva un mistero. Che cosa aveva spinto i due a conficcare oltre cento aghi nel corpo di un bambino che ora lottava tra la vita e la morte? Volevano ucciderlo lentamente, in modo atroce?
La risposta arrivò soltanto nel 1939, quando La Stampa del 18 gennaio tornò sul caso in occasione dell’imminente inizio del processo per tentato omicidio aggravato. Il procedimento – riferiva il giornale – era atteso con grande interesse in tutta Ortona e nel resto dell’Abruzzo. Malgrado fosse stato dato per spacciato, nel frattempo il bambino era migliorato grazie a “una vitalità davvero sorprendente” che aveva stupito tutti. Era tutto sommato in buone condizioni, ma portava ancora dentro di sé la “prova delle torture inflittegli”. Operarlo con le tecniche del tempo rappresentava un rischio troppo alto e si era dunque ritenuto più sicuro tenerlo in osservazione a lungo presso l’ospedale cittadino. Anche Amelia, la madre del piccolo, era stata arrestata ma era stata rilasciata poco dopo.
Soprattutto, il giornale gettava le prime luci sul movente di quelle sevizie:
Pare che il delitto sia stato ispirato da una fattucchiera, che avrebbe detto [al genero], affetto da malattia, che le sofferenze del piccolo avrebbero diminuito le sue, mentre la morte lo avrebbe addirittura completamente guarito.
Il 3 marzo 1939 La Stampa riferiva di nuovo e ampiamente sul processo in corso. Il bambino migliorava, sembrava “una creatura sana” e aveva “occhi vivacissimi”. Invitato a deporre malgrado la giovane età, raccontò che i gli aghi gli venivano conficcati nel corpo dalla nonna, mentre i chiodi gli erano piantati nei piedi dallo zio. Una volta, poi, la nonna lo avrebbe addirittura ferito alla testa con un ferro rovente. La vicenda era considerata dal giornale un frutto tragico della superstizione.
Quello stesso 3 marzo il tribunale di Chieti condannò i due a trent’anni di reclusione ciascuno. Scrivendo sul bimestrale di diritto penale La Corte d’assise del maggio-giugno 1939 (pp. 38-391), l’avvocato Gianfilippo Spinucci spiegò quanto decisiva fosse stata la testimonianza di una donna del posto, che aveva visto di persona la nonna conficcare gli aghi. Il crimine, maturato in un clima di gravi abusi, era dovuto a “credenza superstiziosa”, un “groviglio di delinquenza e di superstizione”. Spinucci concludeva che “se fosse seguita la morte del piccolo… certo agli atti inumani degli imputati avrebbe risposto la scarica del plotone di esecuzione”.
Stampa Sera riprese la vicenda molto tempo dopo, il 22 novembre 1955, a guerra conclusa e a sedici anni dal processo, in una società in via di rapida trasformazione. L’occasione fu l’ennesima operazione chirurgica di N., ormai ventitreenne. Il giovane aveva subito una laparoscopia per l’estrazione di sessantacinque aghi e ne avrebbe dovuta affrontare un’altra appena guarito dai postumi della prima. Una goccia nel mare degli oltre trecento aghi (ma la conta finale, secondo il Corriere della Sera del 20 agosto 1965, sarà di quattrocento) che gli erano rimasti in corpo e per i quali allora non c’era soluzione chirurgica. Molti si trovavano fra le vertebre della colonna vertebrale o lungo l’aorta.
L’interesse principale del pezzo, però, sta nel fatto che il giornale ne approfittava per ricostruire l’ambiente in cui era maturato quel delitto. Si trattava di quella che oggi chiameremmo una famiglia disagiata. Nella casa del crimine vivevano sei persone: la matriarca, Marietta, con le due figlie e i rispettivi mariti. Poi c’era il nipotino, figlio di Cesare e Amelia. Cesare viveva di piccoli furti ed era finito ben presto in carcere. La madre se n’era andata di casa (e, riferivano i giornali fin dai primi articoli sulla vicenda, era una “donna di facili costumi”). Aveva abbandonato il figlio in casa della nonna, dove veniva
sopportato come un intruso, come un peso inutile che stava lì ad aggravare la loro difficile situazione economica.
Le entrate dovevano essere poche: Francesco, zio di N., faceva il ciabattino, mentre la nonna praticava la magia. Secondo il giornale Ortona era famosa per le sue “streghe” e guaritrici; la gente, ancora alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale veniva fin da lontano per consultarle, per farsi prescrivere intrugli o scongiuri o magari per commissionare una fattura contro i propri nemici. La nonna di N. non era delle “migliori”. Vivacchiava per lo più grazie agli amanti delusi e ai “malati d’intestino”. Però conosceva i principi teorici di quegli atti magici e li applicò anche quando il genero si ammalò di ciò che il giornale descriveva, secondo il lessico ancora in uso al tempo, come un “terribile esaurimento”.
Il ciabattino consultò la suocera e questa, interrogata sui disturbi, diede il responso: causa di tutto era un malocchio dovuto all’invidia dei due genitori di N. La soluzione? Infilare ogni sera un ago nel corpo del bambino fino a quando l’uomo non si fosse ripreso. La “strega” andò avanti così per un anno, raccontando ai vicini che le urla del piccolo sottoposto a quelle torture erano dovute a iniezioni ricostituenti.
Il fatto ebbe vasta risonanza mediatica e colpì l’immaginazione dei lettori. Il 20 agosto del 1965 la vittima fu intervistato da Dino Buzzati per il Corriere della sera. Grazie a lui conosciamo l’esito della vicenda. Lo scrittore si era recato ad Ortona accompagnato dal corrispondente pescarese del quotidiano e dal direttore della Gazzetta di Pescara. L’obiettivo era quello di intervistare
un uomo uscito in carne ed ossa dalle tenebre del Medioevo, uscito dai più sozzi e crudeli ludibri dell’epoca nera, uscito da una investitura di mistero e di morte, uscito fumigante ma ancora vivo dalla pentola del demonio.
La vittima (Buzzati lo identificava con lo pseudonimo di “Giovannino Lucci”) era ormai un uomo, lavorava come usciere al municipio di Ortona, abitava in una moderna abitazione a due piani costruita dal comune per i suoi dipendenti e soprattutto dell’intervista non voleva saperne. I giornali avevano, nel tempo, stampato “cose esatte ma senza nessun rispetto”. Si era rifatto una vita, aveva una famiglia e non voleva più saperne di rivangare quella storia. Buzzati lo descriveva così:
Il Lucci è un uomo di trentatrè anni, statura modesta, aspetto gracile, in certo modo acerbo e patito come dopo una lunga malattia. Anche il volto, afflitto e intelligente, si direbbe porti il ricordo di antiche sofferenze. Le labbra sottili hanno spesso una piega beffarda e amara.
Buzzati ammetteva che era un po’ meschino far rivivere all’uomo quella tragica storia, ma poi ne approfittava per spiattellarla ai lettori, con i dettagli più scabrosi come l'”inverosimile tresca” che aveva coinvolto i due colpevoli.
Si venivano così a conoscere parecchi nuovi particolari: nel 1937 lo zio era malato di tubercolosi, i medici gli avevano dato poche speranze e non c’erano soldi per le medicine. Così la donna, innamorata di lui, era ricorsa a una “fattura a trasferimento” che avrebbe dovuto togliere la malattia all’uomo per riversarla sul bambino. A questo scopo gli aghi erano intinti nella saliva del malato prima di essere conficcati nel corpo del bambino attraverso gambe, braccia, schiena e petto. Non erano usati solo aghi, ma anche chiodi sottili senza testa e punte di forcine aguzzate con una lima.
L’infelice non riusciva più a camminare, piangeva giorno e notte, mentre la nonna si giustificava coi vicini dicendo che il bimbo non stava bene e che comunque era anche molto capriccioso. Spiegava Buzzati:
Il bambino era stato trasformato in feticcio, uno di quei sinistri simulacri di argilla o di legno, trafitti da spilloni maledetti, che si trovano nei musei etnografici o criminali.
Erano stati proprio i vicini, alla fine, a portarlo in ospedale, un giorno in cui nonna e zio erano fuori casa. Il resto era noto. I colpevoli confessarono in istruttoria, ma poi ritrattarono al processo in Corte d’Assise. La nonna morì in carcere. N., ormai cresciuto, aveva firmato l’atto di perdono necessario per la grazia allo zio. Quest’ultimo era guarito, lavorava come spazzino e ogni tanto si incontrava con la sua vittima. I rapporti erano cordiali, e nessuno dei due accennava mai alla vecchia storia.
Ortona era, secondo lo scrittore milanese, gravata da “un’aura di meridionale tristezza” che il mare non riusciva a distruggere. Non si sa cosa volesse dire Buzzati con quella frase: ma se, da uomo del nord, intendeva che queste cose lì non sarebbero potute accadere aveva torto. Storie di aghi e fatture sarebbero state la norma in tutta Italia ancora per molti anni dopo il 1937.
Il folklorista Davide Ermacora, dell’Università di Venezia Ca’ Foscari, l’anno scorso ha affrontato da un punto di vista antropologico la lunga storia degli “aghi nel corpo”, in cui anche la tragica vicenda che abbiamo riassunto s’inserisce, nella sua “comunicazione” tenuta nell’ambito di una conferenza svoltasi presso la University of California, Los Angeles (UCLA). Le storie di aghi usati a scopi magici contro il malocchio o per compiere fatture non sono una rarità.
Alla fine comunque, per tornare alla storia di Ortona, anche “Lucci” aveva finito per raccontare allo scrittore almeno qualche scampolo della sua vita: la fame, quando nel 1954 era stato dimesso dal collegio di Chieti, i tanti ricoveri, le operazioni chirurgiche (un’altra, ad esempio, fu menzionata dal Corriere della Sera il 22 marzo 1964), il primo impiego come bidello alle scuole elementari, poi quello come usciere e di lì al protocollo, la nuova famiglia con la moglie e i figli. Un’esistenza normale, nonostante tutto quello che era successo e gli aghi “non operabili” ancora infissi nel corpo.
Una vita intera, cercando di buttarsi alle spalle quella storia, figlia della superstizione.
Immagine da Pixabay.
Pfui! Per fortuna è roba vecchia, un lontano passato ormai dimenticato! E poi riguarda solo le famiglie disagiate, quelle povere e ignoranti!
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