Un furto di tibia
Giandujotto scettico n° 36 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (25/04/2019)
È una vicenda strana quella che si verificò – o magari non si verificò? – la notte di lunedì 20 maggio 1946 nel cuore della “Torino bene” del dopoguerra. Forse, una delle più curiose finora giunte al nostro Giandujotto scettico. Ne fu protagonista “un noto professore, un emerito studioso” sui sessant’anni di età, che da tempo viveva in via Carlo Alberto. Una persona di assoluto rispetto, “distintissimo”, e di cui La Stampa taceva le generalità, forse per riguardo.
Ebbene, raccontava il 21 maggio il quotidiano, verso le 13.15 del giorno precedente l’uomo si era precipitato presso l’ufficio di Pubblica Sicurezza della zona Monviso chiedendo che il funzionario – il dottor Camillo Boffito – lo aiutasse a risolvere “uno spaventoso enigma” che lo tormentava. Il giorno prima, domenica sera, il professore aveva invitato alcuni colleghi presso la sua abitazione. Avevano amabilmente conversato di problemi della scuola, di riforma, e dell’epurazione, ossia del processo di espulsione dalle pubbliche amministrazioni delle figure compromesse con la dittatura fascista.
Poi il discorso era caduto sulla guerra, e il padrone di casa ne aveva approfittato per mostrare ai suoi ospiti un curioso cimelio: una tibia montata su un supporto in oro e argento che l’uomo aveva raccolto sull’altopiano di Asiago nel 1920; con tutta probabilità, l’osso di un soldato della Prima guerra mondiale, rimasto insepolto, e che il professore aveva deciso di conservare come macabro monito alla fragilità umana.
Alle 23 la compagnia si sciolse. A mezzanotte anche il professore andò a letto. E qui, dopo essersi addormentato, l’uomo fu colto da una “tremenda visione”:
Gli parve di essere ancora nel suo studio, ritto, accanto alla finestra. Ed ecco ad un tratto la porta lentissimamente si aprì, lasciando intravvedere, nella semi-oscurità, sulla soglia, uno scheletro umano. Il professore volle gridare, fuggire, ma invano. Lo scheletro gli sbarrava la strada: e pur nel terrore notò che nella gamba sinistra mancava una tibia e che in quel punto le ossa erano tenute assieme da un lungo cerotto. Paralizzato, incapace di muoversi, lo studioso vide la macabra figura avvicinarsi alla scrivania, afferrare la tibia, metterla a posto, prendere il sostegno d’oro e d’argento e porre invece di questo, sul tavolo, ben disteso, il cerotto. Indi, lentamente, com’era entrato, lo scheletro scompariva… (La Stampa, 21 maggio 1946)
Alle sette il professore si svegliò madido di sudore, con ancora in mente il sogno orribile della notte. Alla cameriera non volle raccontare nulla. E avrebbe senza dubbio catalogato l’incubo alla voce “cattiva digestione”, se non fosse stato per un dettaglio: la tibia era davvero scomparsa, con tutto il supporto. Al suo posto giaceva un lungo cerotto…
Ripresosi dallo shock, l’uomo si era recato al Commissariato implorando il dirigente di indagare in questi termini: “mi dimostri che si tratta di un volgarissimo furto. Io non credo agli spiriti”.
Commissario era, all’epoca, il dottor Boffito (?-1993), piemontese di Novi Ligure, che undici anni dopo sarebbe diventato per breve tempo un personaggio pubblico partecipando al quiz tv “Lascia o raddoppia”? in qualità di esperto di gialli (alla morte, Il Popolo di Novi del 14 novembre 1993 lo definì “figura singolare”). Costui aveva quindi acconsentito a recarsi sul luogo del “delitto”, constatando però che non c’erano segni di scasso, né di effrazione. Non mancava altro se non la tibia.
Un furto da parte della cameriera? Ma la donna era da trent’anni al servizio del professore, e sulla sua fedeltà l’uomo era pronto a scommettere. Uno scherzo degli amici? Impossibile: dopo la loro partenza il padrone di casa era tornato nello studio e il cimelio era ancora lì. Un caso di autosuggestione? Ma allora, dove era finito l’osso?
Una vicenda tanto curiosa fu subito ripresa anche dal Corriere della Sera, che con un articolo dello stesso giorno intitolato “Voglio la mia tibia, disse il fantasma” sembrava scommettere sull’ipotesi autosuggestione.
Ma le sorprese non erano ancora finite. Due giorni dopo entrambi i giornali – La Stampa e il Corriere – potevano dar conto di un nuovo colpo di scena:
La portinaia dello stabile ove abita il medico, poco dopo il mezzodì, avendo udito un lieve rumore mentre stava affaccendandosi intorno ad un armadio, si volse per vedere chi fosse. Non c’era nessuno: ma sul tavolo vicino all’uscio era stata deposta una piccola scatola di cartone indirizzata al dottore e che gli venne subito consegnata. Con grande sua meraviglia, il destinatario vi trovava il supporto prezioso, ma senza tibia e un biglietto che diceva: “vi restituisco l’oro e l’argento che non interessano. La tibia è ritornata allo scheletro cui apparteneva e giace con l’altre ossa, sotto terra, in un riposo eterno”. (Corriere della Sera, 23 maggio 1946)
Il racconto de La Stampa era ancora più vivido. La donna si trovava in uno sgabuzzino, intenta a riporre alcuni abiti. “Sei tu, Armando?”, esclamava la poverina, convinta che fosse il marito. Ma così non era… Ed ecco poi la scatola che “biancheggiava” su un tavolo, la sua consegna al professore, il “grido di sbigottimento”. Lo scheletro si era tenuto la tibia e aveva restituito il prezioso supporto. “Come nei racconti del Poe”, commentava il quotidiano.
Il giornale dava conto anche dell’eccitazione suscitata dallo strano episodio: il dottor Boffito, che indagava sul caso, aveva ricevuto fino a quella sera
una vera pioggia di lettere di persone che chiedono schiarimenti e precisazioni sulla vicenda o che suggeriscono piste da seguire o che danno del fatto diverse interpretazioni soprannaturali. (La Stampa, 23 maggio 1946)
Perfino una medium si era proposta di tenere una seduta spiritica per far luce sul mistero. Dopo tutto, per una questione di fantasmi, era giusto consultare direttamente gli operatori dell’occulto…
E la seduta, in effetti, arrivò, circa due settimane dopo. All’esperimento aveva partecipato anche il cronista de La Stampa, che purtroppo non firmava la successiva corrispondenza (che uscì l’8 giugno sul quotidiano torinese, ripresa dal Corriere della Sera lo stesso giorno). Il professore veniva descritto come “un individuo pallido dagli occhi mobili e allucinati”, che parlava continuamente con una vocetta “tagliente, monotona e leggermente nasale”. Nella stanza spiccavano un pianoforte e parecchi libri di scienze occulte. Numerosi gli ospiti lì convenuti.
Il medium – “un giovane biondo dagli occhi febbrili”, ma anche stavolta non meglio identificato – aveva quindi preso la parola e invitato al raccoglimento. Poi, nel buio quasi totale (solo una lampada fioca illuminava leggermente il tavolo), ecco un digrignare di denti: il presunto sensitivo stava cadendo in trance. Per un po’ nessuno aveva parlato, mentre il professore e un altro medium che sedevano ai lati del sensitivo gli carezzavano le mani, “come per ammansirlo”. D’un tratto, ecco la rivelazione:
il ragazzo biondo cominciò ad agitarsi e con voce arrochita, in uno sforzo penoso che rendeva incerte le parole, prese a parlare. Ci esortò ad aver fede nelle forme occulte degli spiriti e si dichiarò disposto a rispondere alle nostre domande.
Ovviamente gli fu chiesto del furto di tibia. Ma la risposta fu sibillina:
– Nulla di trascendente […] v’è nei fatti che hanno portato alla scomparsa della tibia, ma i particolari non possono essere rivelati perché susciterebbero uno scandalo. Non senza motivo è stato il sogno presago del vero, ma agli uomini non è dato conoscerlo.
Seguirono altre domande, ma il mistero non fu dipanato:
– Lo spirito cui appartiene la tibia è in pace nel regno dei defunti?
– Sì. Nel passato ha sofferto per la dispersione delle sue membra: ormai, lontano dalla materia, dopo tanti anni di vita ultraterrena, la sua veste mortale non l’interessa più.
– Allora escludi che lo scheletro sia ritornato a riprendere ciò che gli apparteneva?
– La risposta te l’ho già data, ma l’intera verità verrà un giorno alla luce. […]
– Credi che la tibia verrà ritrovata?
– Sì – E con questa affermazione il nostro misterioso ospite ci fece capire che la conversazione era finita.
– Chi sei? – ci affrettammo a soggiungere.
– Gioacchino Rossini.
Ebbene sì, per far luce sul mistero si era scomodato nientemeno che lo spirito del grande compositore! Su una cosa però il Maestro si sbagliava: nessuna tibia ricomparve a sciogliere l’enigma – o, almeno, null’altro apparve sui due quotidiani che avevano seguito la vicenda.
La curiosità, alla fine, rimase. Scherzo di buontemponi ai danni del professore? Racconto stravagante del cronista de La Stampa?
Una cosa dovrebbe far riflettere. Storie simili erano presenti da secoli nel folklore europeo. Il motivo del morto che torna a riprendersi ciò che gli è stato sottratto – un osso, un vestito, un gioiello – è un tema ricorrente di racconti classici (ad esempio in Luciano, nel II secolo d. C.) e di leggende metropolitane a sfondo soprannaturale. Viene catalogato dai folkloristi al codice ATU 366 (A corpse claims its property) e ne sono esempi Saddaedda, novella siciliana raccolto dall’antropologo Giuseppe Pitrè in una sua antologia del 1875 (Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, volume III), il motivo popolare The Golden Arm, che fu usato anche da Mark Twain, la canzone popolare bresciana La gamba dòra e numerosi racconti tratti da Scary Stories to tell in the Dark, di Alvin Schwartz.
Lo studioso Cesare Bermani, nel suo Il bambino è servito. Leggende metropolitane in Italia (Bari, Dedalo, 1991, p. 137), riporta quest’ulteriore testimonianza orale:
Questa l’ho sentita dal mio amico Claudio di Cireggio, che ha 17 anni. I due nipoti di una ricca signora scoprono che essa sta per morire. Al dito indice della mano destra essa ha un anello che vale circa un miliardo. Morta la signora, i due le tagliano il dito e prendono l’anello. Un mese dopo il funerale, i due sentono suonare alla porta. Aprono, e sulla porta vedono una signora senza l’indice della mano destra. Le chiedono cosa vuole e la donna risponde: “Il mio dito”.
Ancora più vicino alla nostra cronaca torinese è il racconto Un osso di morto, dello scrittore scapigliato Iginio Ugo Tarchetti, uscito nella raccolta Racconti fantastici, del 1869. Uno spettro torna a riprendersi una rotula tenuta come fermacarte da uno studioso, un professore universitario di patologia clinica. E anche in questo caso, dopo aver ripreso ciò che è suo, lo scheletro lascia in cambio un nastro nero, usato in precedenza per congiungere lo stinco al femore, in mancanza della rotula.
Che dire dunque del nostro episodio di cronaca del 1946? Leggenda metropolitana riadattata dal cronista de La Stampa per i suoi lettori e allegramente ripresa dai colleghi del Corriere? Denuncia farlocca di un professore annoiato, semplice voce raccolta da un funzionario di Polizia ed esacerbata dalla stampa, o scherzo ai loro danni da parte di qualcuno (la cameriera, gli ospiti) che ben conosceva la storia popolare e magari disapprovava l’uso di tibie come soprammobili? Banale furto poi ingigantito da un cronista in cerca di aneddoti?
In mancanza di ulteriori chiarimenti da parte del fu Gioacchino Rossini, la vicenda del furto di tibia torinese è destinata a rimanere insoluta. La sola strada aperta resta quella della tradizione folklorica, in cui anche il caso del 1946 pare inserirsi senza forzature.
Immagine: Un disegno acquerello e matita di William Daniell (1769-1837), A man frightened by the apparition of a skeleton, conservato presso la Royal Academy di Londra – Art Collection. Licenza CC BY-NC-ND 3.0