Antologia dell’inconsueto: Un osso di morto
Oggi nasce una nuova rubrica: un’“Antologia dell’inconsueto”, in cui proporremo opere letterarie o loro brani per gli amanti dell’insolito. La rubrica avrà una cadenza mensile, e ogni testo che sceglieremo, preceduto da un breve commento, apparterrà a un’opera in pubblico dominio, cioè libera da diritti d’autore.
Cominciamo con “Un osso di morto” di Iginio Ugo Tarchetti (1839-1869). Il racconto presenta una situazione surreale: un morto visita l’appartamento del narratore (di cui non conosciamo il nome) per reclamare la sua stessa rotula. Sembra un sogno, ma la mattina dopo la rotula, che il narratore usava come ferma carte, è effettivamente sparita. La storia non può che attirare l’attenzione di un appassionato dell’insolito: un caso del tutto paragonabile si sarebbe svolto a Torino nel 1946, come racconta il Giandujotto di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (ma come spiegano i due autori, i dubbi sono parecchi, e la storia sembra ricalcare una diffusa leggenda metropolitana).
Per un occhio scettico è interessante, oltre all’arrivo del (per altro civilissimo) fantasma, anche l’episodio di scrittura automatica descritto nel racconto dove il protagonista viene informato della visita notturna dello spirito.
Iginio Ugo Tarchetti apparteneva alla corrente letteraria degli Scapigliati; nata a Milano, è considerata un’avanguardia in campo letterario. La particolarità degli Scapigliati è l’aperto contrasto con il classicismo-romantico italiano che nella nostra penisola non si è sviluppato autonomamente rispetto alle radici classiche. Giacomo Leopardi (1798-1837) ed altri intellettuali italiani ci spiegano perché. A livello di generi letterari Iginio Ugo (nome preso in onore di Ugo Foscolo) Tarchetti è il più sperimentale degli Scapigliati, e si ispira anche ad Edgar Allan Poe (1809-1849). Dopo l’esperienza nell’esercito infatti adotta una visione della vita dove l’assurdo, ma anche l’inquietante e il grottesco la fanno da padrone. Muore senza portare a termine il suo romanzo più famoso, “Fosca”, che terminerà un amico, Salvatore Farina (1846–1918).
I Racconti fantastici, da cui è tratto “Un osso di morto”, sono disponibili su Wikisource.
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Un osso di morto
Lascio a chi mi legge l’apprezzamento del fatto inesplicabile che sto per raccontare.
Nel 1855, domiciliatomi a Pavia, m’era dato allo studio del disegno in una scuola privata di quella città; e dopo alcuni mesi di soggiorno aveva stretto relazione con certo Federico M. che era professore di patologia e di clinica per l’insegnamento universitario, e che morì di apoplessia fulminante pochi mesi dopo che lo aveva conosciuto. Era uomo amantissimo delle scienze, e della sua in particolare — aveva virtù e doti di mente non comuni — senonchè, come tutti gli anatomisti ed i clinici in genere, era scettico profondamente e inguaribilmente — lo era per convinzione, nè io potei mai indurlo alle mie credenze, per quanto mi vi adoprassi nelle discussioni appassionate e calorose che avevamo ogni giorno a questo riguardo. Nondimeno — e piacemi rendere questa giustizia alla sua memoria — egli si era mostrato sempre tollerante di quelle convinzioni che non erano le sue; ed io e quanti il conobbero abbiamo serbato la più cara rimembranza di lui. Pochi giorni prima della sua morte egli mi aveva consigliato ad assistere alle sue lezioni di anatomia, adducendo che ne avrei tratte non poche cognizioni giovevoli alla mia arte del disegno: acconsentii benchè repugnante; e spinto dalla vanità di parergli meno pauroso che nol fossi, lo richiesi di alcune ossa umane che egli mi diede e che io collocai sul caminetto della mia stanza. Colla morte di lui io aveva cessato di frequentare il corso anatomico, e più tardi aveva anche desistito dallo studio del disegno. Nondimeno aveva conservato ancora per molti anni quelle ossa, chè l’abitudine di vederle me le aveva rese quasi indifferenti, e non sono più di pochi mesi che, colto da subite paure, mi risolsi a seppellirle, non trattenendo presso di me che una semplice rotella di ginocchio. Questo ossicino sferico e liscio che, per la sua forma e la sua piccolezza io aveva destinato, fino dal primo istante che l’ebbi, a compiere l’ufficio d’un premi-carte, come quello che non mi richiamava alcuna idea spaventosa, si trovava già collocato da undici anni sul mio tavolino, allorchè ne fui privato nel modo inesplicabile che sto per raccontare.
Aveva conosciuto a Milano nella scorsa primavera un magnetizzatore assai noto tra gli amatori di spiritismo, e aveva fatto istanze per essere ammesso ad una delle sue sedute spiritiche. Ricevetti poco dopo invito di recarmivi, e vi andai agitato da prevenzioni sì tristi, che più volte lungo la via era stato quasi in procinto di rinunciarvi. L’insistenza del mio amor proprio mi vi aveva spinto mio malgrado. Non starò a discorrere qui delle invocazioni sorprendenti a cui assistetti: basterà il dire che io fui sì meravigliato delle risposte che ascoltammo da alcuni spiriti, e la mia mente fu sì colpita da quei prodigi, che superato ogni timore, concepii il desiderio di chiamarne uno di mia conoscenza, e rivolgergli io stesso alcune domande che aveva già meditate e discusse nella mia mente. Manifestata questa volontà, venni introdotto in un gabinetto appartato, ove fui lasciato solo; e poichè l’impazienza e il desiderio d’invocare molti spiriti a un tempo mi rendevano titubante sulla scelta, ed era mio disegno di interrogare lo spirito invocato sul destino umano, e sulla spiritualità della nostra natura, mi venne in memoria il dottore Federico M. col quale, vivente, aveva avuto delle vive discussioni su questo argomento, e deliberai di chiamarlo. Fatta questa scelta, mi sedetti ad un tavolino, disposi innanzi a me un foglietto di carta, intinsi la penna nel calamaio, mi posi in atteggiamento di scrivere, e concentratomi per quanto era possibile in quel pensiero, e raccolta tutta la mia potenza di volizione, e direttala a quello scopo, attesi che lo spirito del dottore venisse.
Non attesi lungamente. Dopo alcuni minuti d’indugio mi accorsi per sensazioni nuove e inesplicabili che io non era più solo nella stanza, sentii per così dire la sua presenza; e prima che avessi saputo risolvermi a formulare una domanda, la mia mano agitata e convulsa, mossa come da una forza estranea alla mia volontà, scrisse, me inconsapevole, queste parole:
«Sono a voi. Mi avete chiamato in un momento in cui delle invocazioni più esigenti mi impedivano di venire, nè potrò trattenermi ora qui, nè rispondere alle interrogazioni che avete deliberato di farmi. Nondimeno vi ho obbedito per compiacervi, e perchè aveva bisogno io stesso di voi; ed era gran tempo che cercava il mezzo di mettermi in comunicazione col vostro spirito. Durante la mia vita mortale vi ho date alcune ossa che aveva sottratte al gabinetto anatomico di Pavia, e tra le quali vi era una rotella di ginocchio che ha appartenuto al corpo di un ex inserviente dell’Università, che si chiamava Pietro Mariani, e di cui io aveva sezionato arbitrariamente il cadavere. Sono ora undici anni che egli mette alla tortura il mio spirito per riavere quell’ossicino inconcludente, nè cessa di rimproverarmi amaramente quell’atto, di minacciarmi, e di insistere per la restituzione della sua rotella. Ve ne scongiuro per la memoria forse non ingrata che avrete serbato di me, se voi la conservate tuttora, restituitegliela, scioglietemi da questo debito tormentoso. Io farò venire a voi in questo momento lo spirito del Mariani. Rispondete.»
Atterrito da quella rivelazione, io risposi che conservava di fatto quella sciagurata rotella, e che era felice di poterla restituire al suo proprietario legittimo, che, non v’essendo altra via, mandasse da me il Mariani. Ciò detto, o dirò meglio, pensato, sentii la mia persona come alleggerita, il mio braccio più libero, la mia mano non più ingranchita come dianzi, e compresi, in una parola, che lo spirito del dottore era partito.
Stetti allora un altro istante ad attendere — la mia mente era in uno stato di esaltazione impossibile a definirsi.
In capo ad alcuni minuti, riprovai gli stessi fenomeni di prima, benchè meno intensi; e la mia mano, trascinata dalla volontà dello spirito, scrisse queste altre parole:
«Lo spirito di Pietro Mariani, ex inserviente dell’Università di Pavia, è innanzi a voi, e reclama la rotella del suo ginocchio sinistro che ritenete indebitamente da undici anni. Rispondete».
Questo linguaggio era più conciso e più energico di quello del dottore. Io replicai allo spirito: Io sono dispostissimo a restituire a Pietro Mariani la rotella del suo ginocchio sinistro, e lo prego anzi di perdonarmene la detenzione illegale; desidero però di conoscere come potrò effettuare la restituzione che mi è domandata.
Allora la mia mano tornò a scrivere:
«Pietro Mariani, ex inserviente dell’Università di Pavia, verrà a riprendere egli stesso la sua rotella».
— Quando? chiesi io atterrito.
— E la mano vergò istantaneamente una sola parola: «Stanotte.»
Annichilito da quella notizia, coperto di un sudore cadaverico, io mi affrettai ad esclamare, mutando tono di voce ad un tratto: «Per carità… vi scongiuro…. non vi disturbate…. manderò io stesso…. vi saranno altri mezzi meno incomodi…» Ma non aveva finito la frase che mi accorsi, per le sensazioni già provate dapprima, che lo spirito di Mariani si era allontanato, e che non v’era più mezzo ad impedire la sua venuta.
È impossibile che io possa rendere qui colle parole l’angoscia delle sensazioni che provai in quel momento. Io era in preda ad un panico spaventoso. Uscii da quella casa mentre gli orologi della città suonavano la mezzanotte: le vie erano deserte, i lumi delle finestre spenti, le fiamme nei fanali offuscate da un nebbione fitto e pesante: tutto mi pareva più tetro del solito. Camminai per un pezzo senza sapere dove dirigermi: un istinto più potente della mia volontà mi allontanava dalla mia abitazione. Ove attingere il coraggio di andarvi? Io avrei dovuto ricevervi in quella notte la visita di uno spettro: era un’idea da morirne, era una prevenzione troppo terribile.
Volle allora il caso che aggirandomi, non so più per qual via, mi trovassi di fronte a una bettola su cui vidi scritto a caratteri intagliati in un’impannata, e illuminati da una fiamma interna: «Vini nazionali» e io dissi senz’altro a me stesso: Entriamovi, è meglio così, e non è un cattivo rimedio; cercherò nel vino quell’ardimento che non ho più il potere di chiedere alla mia ragione. E cacciatomi in un angolo d’una stanzaccia sotterranea domandai alcune bottiglie di vino che bevetti con avidità, benchè repugnante per abitudine all’abuso di quel liquore. Ottenni l’effetto che aveva desiderato. Ad ogni bicchiere bevuto il mio timore svaniva sensibilmente, i miei pensieri si dilucidavano, le mie idee parevano riordinarsi, quantunque con un disordine nuovo; e a poco a poco riconquistai talmente il mio coraggio che risi meco stesso del mio terrore, e mi alzai, e mi avviai risoluto verso casa.
Giunto in stanza, un po’ barcollante pel troppo vino bevuto, accesi il lume, mi spogliai per metà, mi cacciai a precipizio nel letto, chiusi un occhio e poi un altro, e tentai di addormentarmi. Ma era indarno. Mi sentiva assopito, irrigidito, catalettico, impotente a muovermi; le coperte mi pesavano addosso e mi avviluppavano e mi investivano come fossero di metallo fuso: e durante quell’assopimento incominciai ad avvedermi che dei fenomeni singolari si compievano intorno a me.
Dal lucignolo della candela che mi pareva avere spento, che era d’altronde una stearica pura, si sollevavano in giro delle spire di fumo sì fitte e sì nere, che raccogliendosi sotto il soffitto lo nascondevano, e assumevano apparenza di una cappa pesante di piombo: l’atmosfera della stanza, divenuta ad un tratto soffocante, era impregnata di un odore simile a quello che esala dalla carne viva abbrustolita, le mie orecchie erano assordate da un brontolio incessante di cui non sapeva indovinare le cause, e la rotella che vedeva lì, tra le mie carte, pareva muoversi e girare sulla superficie del tavolo, come in preda a convulsioni strane e violente.
Durai non so quanto tempo in quello stato: io non poteva distogliere la mia attenzione da quella rotella. I miei sensi, le mie facoltà, le mie idee, tutto era concentrato in quella vista, tutto mi attraeva a lei; io voleva sollevarmi, discendere dal letto, uscire, ma non mi era possibile; e la mia desolazione era giunta a tal grado che quasi non ebbi a provare alcuno spavento, allorchè dissipatosi a un tratto il fumo emanato dal lucignolo della candela, vidi sollevarsi la tenda dell’uscio e comparire il fantasma aspettato.
Io non batteva palpebra. Avanzatosi fino alla metà della stanza, s’inchinò cortesemente e mi disse: «Io sono Pietro Mariani, e vengo a riprendere, come vi ho promesso, la mia rotella».
E poichè il terrore mi rendeva esitante a rispondergli, egli continuò con dolcezza: «Perdonerete se ho dovuto disturbarvi nel colmo della notte… in quest’ora… capisco che la è un’ora incomoda… ma…».
— Oh! è nulla, è nulla, io interruppi rassicurato da tanta cortesia, io vi debbo anzi ringraziare della vostra visita… io mi terrò sempre onorato di ricevervi nella mia casa…
— Ve ne son grato, disse lo spettro, ma desidero ad ogni modo giustificarmi dell’insistenza con cui ho reclamato la mia rotella, sia presso di voi, sia presso l’egregio dottore dal quale l’avete ricevuta: osservate.
E così dicendo sollevò un lembo del lenzuolo bianco in cui era avviluppato, e mostrandomi lo stinco della gamba sinistra legato al femore, per mancanza della rotella, con un nastro nero passato due o tre volte nell’apertura della fibula, fece alcuni passi per la stanza onde farmi conoscere che l’assenza di quell’osso gl’impediva di camminare liberamente.
— Tolga il cielo, io dissi allora con accento d’uomo mortificato, che il degno ex inserviente dell’Università di Pavia abbia a rimanere zoppicante per mia causa: ecco la vostra rotella, là, sul tavolino, prendetela, e accomodatela come potete al vostro ginocchio.
Lo spettro s’inchinò per la seconda volta in atto di ringraziamento, si slegò il nastro che gli congiungeva il femore allo stinco, lo posò sul tavolino, e presa la rotella, incominciò ad adattarla alla gamba.
— Che notizie ne recate dall’altro mondo? io chiesi allora, vedendo che la conversazione languiva, durante quella sua occupazione.
Ma egli non rispose alla mia domanda, ed esclamò con aspetto attristato: «Questa rotella è alquanto deteriorata, non ne avete fatto un buon uso».
— Non credo, io dissi, ma forse che le altre vostre ossa sono più solide?
Egli tacque ancora, s’inchinò la terza volta per salutarmi; e quando fu sulla soglia dell’uscio, rispose chiudendone l’imposta dietro di sè. «Sentite se le altre mie ossa non sono più solide».
E pronunciando queste parole percosse il pavimento col piede con tanta violenza che le pareti ne tremarono tutte; e a quel rumore mi scossi e… mi svegliai.
E appena desto, intesi che era la portinaia che picchiava all’uscio e diceva: «Son io, si alzi, mi venga ad aprire».
— Mio Dio! esclamai allora fregandomi gli occhi col rovescio della mano, era dunque un sogno, nient’altro che un sogno! che spavento! Sia lodato il cielo… Ma quale insensatezza! Credere allo spiritismo… ai fantasmi…» E infilzati in fretta i calzoni, corsi ad aprire l’uscio; e poichè il freddo mi consigliava a ricacciarmi sotto le coltri, mi avvicinai al tavolino per posarvi la lettera sotto il premi-carte…
Ma quale fu il mio terrore quando vi vidi sparita la rotella, e al suo posto trovai il nastro nero che vi aveva lasciato Pietro Mariani!
Sbagliato dire nella prefazione la fine e lo sviluppo della storia: si perde la curiosità