Fate scienza! Un modo per aiutare i bambini a diventare scienziati
Come mai tanti bambini non se la sentono di pensarsi come futuri scienziati? Perché parecchi fra loro, rapidamente, la considerano una prospettiva impossibile, o che non li riguarda?
Se lo sono chiesto alcuni psicologi dell’età evolutiva, cioè Ryan Lei, Emily Green e Marjorie Rhodes, del Dipartimento di psicologia della New York University, insieme a Sarah-Jane Leslie, del Dipartimento di filosofia di Princeton. Per cercare di capirne di più hanno progettato una ricerca uscita il 21 aprile sulla rivista accademica Developmental Science.
La ricerca parte da una constatazione spiacevole: crescendo, fra i 6 e gli 11 anni, i bambini perdono fiducia nelle loro capacità di occuparsi di scienza. Un buon numero di studi recenti ha mostrato che questo slittamento è lento ma costante, e che è più forte per il sesso femminile e per le minoranze etniche.
Da questo fatto possono conseguire conseguenze indesiderabili: non solo limitazioni nella crescita del numero di coloro che si occupano di scienza e tecnologie, ma anche problemi economici per i gruppi che in quei settori risulteranno sottorappresentati (donne e minoranze etniche, appunto).
Insieme alla forza degli stereotipi culturali su quali “tipi” di persone potranno aver successo nelle scienze (il maschio, il bianco, ecc.), infatti, questo declino della fiducia dei bambini fra i 6 e gli 11 anni diventa purtroppo un buon predittore del “come andranno a finire le cose” per ciò che riguarda gli esiti occupazionali, i tipi e gradi di istruzione formale e la condizione retributiva dei bambini più “pessimisti”.
Ma come mai i bambini perdono fiducia, quando si tratta di immaginarsi scienziati del futuro prossimo? Un grosso guaio, anche se non il solo, è costituito dal fatto che i bambini in breve tempo fanno propri un gran numero di stereotipi su chi diventerà uno scienziato: sarà un bianco, un maschio, uno piuttosto facoltoso, brillantissimo, introverso, e “particolarmente portato per la scienza”…
Alcuni metodi per contrastare queste tendenze e dunque per impedire che “blocchino” i giovanissimi prima che cerchino di intraprendere le carriere di scienziato o di ingegnere sono ben noti. Si può esporre i bambini a modelli di ruolo differenti da quelli stereotipati, oppure si può provare a integrare nelle loro identità in sviluppo alcuni principi caratteristici del lavoro scientifico.
Invece che proseguire su queste strade già ampiamente tracciate, Ryan Lei e i suoi collaboratori si sono concentrati su un altro approccio: agire fin dall’inizio sui fattori cruciali per questa perdita di fiducia. Per questo, si sono chiesti se non sia meglio che i bambini pensino alla scienza come “cose che si fanno” piuttosto che a un mondo fatto di “persone così e cosà”. In altri termini, cercare di far sì che non pensino in termini di identità personale, ma di azioni e di modalità d’azione.
Quando si parla di identità, scrivono gli autori, le descrizioni generiche, le categorie predefinite, le etichette sono recepite molto in fretta dai bambini, che quasi subito le considerano caratteristiche stabili dell’identità delle persone. Se per i bambini gli scienziati diventano rapidamente dei “tipi”, dei soggetti “fatti in un certo modo”, allora è probabile che s’inneschi il processo psicologico di cui si è detto prima: “io non sono così, e quindi non potrò mai diventare uno scienziato. Inutile che me ne interessi”.
Molto meglio, dunque, descrivere ai bambini scienziati e ingegneri come semplici persone che “fanno” e che scoprono cose nuove del mondo. In questa maniera dovrebbero essere meno inclini a sviluppare convinzioni che li ostacolino in eventuali interessi attivi per la ricerca scientifica. Il nostro gruppo di psicologi dello sviluppo ha quindi testato questa ipotesi su circa 200 bambini di scuole pubbliche newyorkesi.
Più esattamente, ha effettuato sia un’analisi longitudinale (quelle che si fanno su uno stesso campione nel corso del tempo), sia un’analisi cross-section (quelle che raccolgono una o più variabili senza considerare le differenze temporali).
In concreto, ai bambini, divisi in due gruppi casuali, sono stati presentati due video di tipo diverso: uno, centrato sullo scienziato come persona con un’identità fissa, cioè come “tipo”, l’altro, sullo scienziato come persona che agisce e che mette in atto certe procedure. Poi è stata loro rivolta una serie di domande volte a capire che cosa pensavano della scienza, degli scienziati e dell’occuparsi di scienza e tecnologia.
I risultati sono interessanti. Dall’analisi longitudinale si è visto che davvero i bambini (e le bambine) preferiscono “fare scienza” piuttosto che “essere scienziati”, ma che questa buona disposizione verso la scienza declina col passare del tempo. Questa preferenza è stata comunque confermata sotto parecchi punti di vista. Il linguaggio del “fare”, più inclusivo di quello dell’”essere”, per i bambini si trasforma facilmente in una migliore aspettativa di efficacia e di futura competenza. La cosa vale anche per ciò che pensano del rapporto fra la scienza come professione e la loro comunità locale: ci sono molti più bambini che ritengono che i loro vicini e concittadini “facciano” scienza di quanti credono che nei loro dintorni ci siano persone che “sono” scienziati.
Cose analoghe si possono dire per l’analisi cross-section. La propensione alla scienza è maggiore nel gruppo di bambini più piccoli rispetto a quello dei bambini più grandi, ma la forbice fra gruppi di età tende a restringersi quando si presenta la scienza come qualcosa basata su azioni e non su identità.
L’efficacia del linguaggio del “fare“ risulta dunque sostenuta da entrambi i tipi di analisi: si direbbe che l’effetto prodotto sia abbastanza stabile e robusto. Ma c’è di più: usando questo tipo di presentazione, i bambini tendono a pensare che la “torta della scienza” sia più grande, e dunque che pure altri, e non solo loro stessi, saranno titolati a fare ricerca o a produrre innovazione tecnica.
Eppure, a fronte di questi risultati, alcuni studi recenti mostrano che invece la scienza assai sovente è presentata ai bambini nel modo opposto, ossia concentrandosi su etichette, modelli fissi, identità.
Anche se – come succede tante volte, nei disegni di ricerca – pure il campione considerato in questa ricerca andrebbe seguito nel corso del tempo, soprattutto nel periodo dell’adolescenza, e non per un solo anno scolastico, c’è un’altra conseguenza ricavabile da questo lavoro. Proprio quando si tratta di bambini appartenenti a contesti sociali, etnici, geografici ed economici più proni ad aderire a stereotipi culturali sulla scienza, passare all’uso di un linguaggio basato sulle azioni, su comportamenti concreti e su esempi pratici di procedure di tipo tecnico-scientifico potrebbe risultare particolarmente benefico.
Nell’età evolutiva, concludono gli scienziati, la questione dell’identità, del “chi è” uno scienziato o un tecnologo, resta importante, ma si presenta più avanti, quando si ha il transito all’adolescenza, cioè fra i 12 e i 19-20 anni.
Nel frattempo, se vogliamo aiutare i bambini di quell’età che in Italia corrisponde alla scuola primaria e alla secondaria di primo grado, i suggerimenti del lavoro pubblicato su Developmental Science potrebbero risultare utili.