Antologia dell'inconsueto

Antologia dell’inconsueto: Torquato Tasso e il folletto

Uno dei più grandi poeti rinascimentali è sicuramente Torquato Tasso (1544-1595), perciò non può mancare in un’antologia dell’insolito. Se il Tasso è una presenza necessaria, scegliere un passo significativo è molto complesso (non possiamo promettere che in futuro non cederemo proponendo anche qualcos’altro).

Infatti dopo la nostra consueta e breve introduzione troverete, a differenza delle altre volte, non un brano di fantasia, ma una delle famose lettere che Torquato Tasso spedì a Maurizio Cattaneo nel 1585 mentre era rinchiuso all’ospedale di Sant’Anna come “furioso”. Questo era il termine con cui si indicavano i malati di mente violenti, e il Tasso se l’era aggiudicato per un eccesso d’ira contro la corte al matrimonio di Alfonso II d’Este con Margherita Gonzaga. 

La vita tormentata ed errabonda del poeta interessò i contemporanei e influenzò le generazioni successive; ad esempio John Milton (1608-1674), autore del “Paradiso perduto” (1667), che lesse sicuramente l’opera del Tasso “Le sette giornate del mondo creato” o “Il mondo creato” (pubblicato postumo nel 1607), ispirato al primo libro della genesi.

Le vicende esistenziali di Torquato Tasso colpirono fortemente anche i romantici italiani, la sua sofferenza di uomo e poeta divenne la sofferenza del poeta romantico, una figura in bilico tra vita e sogno e, proprio per questo, pieno di guai. Giacomo Leopardi (1798- 1837) ci mostra nelle sue “Operette morali” un dialogo fantastico tra Tasso e il suo genio famigliare a dimostrazione di quanto questa figura si inserisse perfettamente nell’immagine del poeta durante il romanticismo. Per approfondire questo particolare aspetto dell’ “umor nero” dei nati sotto “Saturno”, e in particolare della malinconia del Tasso consigliamo l’articolo del Professor Fabio Giunta che trovate qui.

La lettera mostra come la mente del Tasso sia sconvolta da immagini fantastiche, in particolare un folletto che non smette di impossessarsi dei suoi averi. Se pensate che i folletti siano una prerogativa delle nebbie anglosassoni potrete ricredervi leggendo l’articolo di Roberto Labanti sui “Folletti tra Bologna e Cesena a cavallo del 1500”.

Non mancano però le visioni di tipo religioso, come la Vergine Maria. Ci interessa proprio sottolineare questi due aspetti “visionari” contrapposti: obiettivo della “Gerusalemme liberata” era creare un poema eroico cristiano, depurato dal folklore. Tasso infatti epurò, in un rifacimento, il suo poema dagli elementi del “fantastico” per ampliare i motivi religiosi, ma questa nuova edizione risultò rigida e fu presto dimenticata in favore di quella più fantasiosa che tuttora si studia a scuola.

Tutte le lettere famigliari di Torquato Tasso sono scaricabili gratuitamente qui.

Segue la lettera datata 30 dicembre 1585 e inviata dall’Ospedale si Sant’Anna a Maurizio Cattaneo (Roma):

Oggi, ch’è il penultimo de l’anno, il fratello del reverendo Licino m’ha portato due lettere di Vostra Signoria; ma l’una è sparita da poi ch’io l’ho letta, e credo che se l’abbia portata il folletto , perché è quella ne la quale si parlava di lui: e questo è un di que’ miracoli ch’io ho veduto assai spesso ne lo spedale; laonde son certo che sian fatti da qualche mago, e n’ho molti altri argomenti; ma particolarmente d’un pane toltomi dinanzi visibilmente a ventitré ore; d’un piatto di frutti, toltomi dinanzi l’altro giorno, che venne a vedermi quel gentil giovane polacco, degno di tanta maraviglia; e d’alcune altre vivande de le quali altre volte è avenuto il medesimo, in tempo che alcuno non entrava ne la mia prigione; d’un paio di guanti, di lettere, di libri cavati da le casse serrate, e trovatili la mattina per terra; ed altri non ho ritrovati, né so che ne sia avenuto: ma quelli che mancano in quel tempo ch’io sono uscito, possono essere stati tolti da gli uomini; i quali, come io credo, hanno le chiavi di tutte le mie casse. Laonde io non posso difendere cosa alcuna da’ nemici o dal diavolo, se non la volontà, con la quale non consentirei d’imparar cosa da lui o da suoi seguaci, né d’avere seco alcuna familiarità, o co’ suoi maghi; i quali, come dice il Ficino, possono muover l’imaginazione, ma senza l’intelletto non hanno alcuna autorità o alcuna forza; perché egli dipende da Iddio immediatamente.

E lo stesso si può raccogliere da molti altri filosofi, non solamente platonici, ma peripatetici: e particolarmente Alessandro Afrodiseo non vuole che l’imaginazione sia ne l’uomo imperatrice delconsiglio, ma che sia riposto in lui il consultare e ’l non consultare, perché è signore de l’imaginazione: e conchiude, che tutto quello che si fa con previdenzia, è in noi. Ma forse parrà ad alcuno ch’io contradica a me stesso; il qual nel dialogo del Messaggiero mostro di favellare con uno spirito: quel che non avrei voluto fare quantunque avessi potuto. Ma sappiate che quel dialogo fu da me fatto molti anni sono per ubidire al cenno d’un principe, il qual forse non aveva cattiva intenzione: né io stimava gran fallo o gran pericolo trattar di questa materia quasi poeticamente. Ma da poi i miei nemici hanno voluto prendersi gioco di me, e m’hanno fatto esempio d’infelicità, facendo riuscir in parte vero quel ch’io aveva finto: e chi volesse esaminar diligentemente que’ gentiluomini, ne la casa de’ quali era albergato, potrà ritrovar facilmente ch’io non era allora sottoposto a così fatta miseria. Ed oltre ciò avrei molte prove, se non mi mancassero più i testimoni che le ragioni: né mancano le testimonianze perché non ci sia chi possa farle; ma perché la verità è oppressa da’ miei nemici, che son molti e di molto potere ed implacabili; ed io non mi curo di placarli, se non in quel modo che si conviene a cristiano.

Ma Iddio sa ch’io non fui né mago né luterano giamai; né lessi libri eretici o di negromanzia, né d’altra arte proibita; né mi piacque la conversazione d’Ugonotti, né di lodarne la dottrina, anzi la biasmai con le parole e con gli scritti: né ebbi opinione contra la santa Chiesa cattolica; quantunque io non neghi d’aver alcuna volta prestata troppa credenza a la ragione de’ filosofi; ma non in guisa, ch’io non umiliassi l’intelletto sempre a’ teologi, e ch’io non fussi più vago d’imparare che di contradire. Ma ora la mia infelicità ha stabilita la mia fede, e fra tante sciagure ho questa sola consolazione, ch’io non ho dubbio alcuno; ma confesso aver molti desideri. E se mai fui costretto di far alcun torto a me stesso ed a la verità, ora il timore de la morte non mi potrebbe costringere; perché non amo la vita se non con tutte quelle cose che possono esser concedute da grazioso principe, il qual voglia che s’annulli la memoria del falso, e rimanga quella del vero; non per biasmo d’altri, ma per mia sodisfazione e per suo compiacimento. Fra tanto io sono infelice, né voglio tacer le mie infelicità; perché Vostra Signoria ci rimedi con tutto il suo sforzo, con tutta la diligenza, con tutta la fede.

Sappia dunque, c’oltre que’ miracoli del folletto, i quali si potrebbono numerare per trattenimenti in altra occasione, vi sono molti spaventi notturni; perché, essendo io desto, mi è paruto di vedere alcune fiammette ne l’aria: ed alcuna volta gli occhi mi sono scintillati in modo ch’io ho temuto di perder la vista; e me ne sono uscite faville visibilmente. Ho veduto ancora nel mezzo de lo sparviero ombre de’ topi, che per ragione naturale non potevano farsi in quel luogo: ho udito strepiti spaventosi; e spesso ne gli orecchi ho sentito fischi, titinni, campanelle, e romore quasi d’orologi da corda; e spesso è battuta un’ora; e dormendo m’è paruto che mi si butti un cavallo addosso; e mi son
poi sentito alquanto dirotto: ho dubitato del mal caduco, de la gocciola, de la vista: ho avuto dolori di testa, ma non eccessivi; d’intestino, di fianco, di cosce, di gambe, ma piccioli: sono stato indebolito da vomiti, da flusso di sangue, da febbre.

E fra tanti terrori e tanti dolori, m’apparve in aria l’imagine de la gloriosa Vergine, col Figlio in braccio, in un mezzo cerchio di colori e di vapori: laonde io nondebbo disperar de la sua grazia. E benché potesse facilmente essere una fantasia, perch’io sono frenetico, e quasi sempre perturbato da vari fantasmi, e pieno di maninconia infinita; nondimeno, per la grazia d’Iddio, posso cohibere assensum [Tener la mente salda N.D.R] alcuna volta: la qual operazione è del savio, come piace a Cicerone; laonde più tosto devrei credere che quello fosse un miracolo de la Vergine. Ma, s’io non m’inganno, de la frenesia furono cagioni alcune confezioni ch’io mangiai tre anni sono; da le quali cominciò questa nuova infermità, che s’aggiunse a la prima, nata per simil cagione; ma non così lunga,
né così difficile da risanare: e se l’infermità non è incurabile, è molto somigliante a quelle che non si posson curare. Da poi la malìa fu rinnovata un’altra volta: né v’hanno fatto alcuna provisione, come non fecero la prima. E benchè mi venga fame, abbia gusto de le vivande che son delicate, mi paia dipoter digerire, dorma spesse volte quietamente, e faccia lunghi sonni; nondimeno non mi pare d’aver alcuna sicurezza de la vita: e la qualità del male è così maravigliosa, che potrebbe facilmente ingannare i medici più diligenti; onde io la stimo operazione di mago. E sarebbe opera di pietà cavarmi di questo luogo, dove a gli incantatori è conceduto di far tanto contra me senza timor di castigo […]

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