Le false affiliazioni: scienziati che mettono a rischio la scienza
Science Integrity Digest è un blog interessante. Dovrebbe stare a cuore a chi desidera la promozione della mentalità e della cultura scientifica.
Se ne occupa una microbiologa olandese che lavora negli Stati Uniti, Elisabeth Bik, che fra le altre cose (oltre agli studi sui microbiomi) si è specializzata nella ricerca di dati numerici poco solidi o errati negli articoli scientifici. Ne trova spesso, fra le miriadi di paper che ogni mattina compaiono sui monitor di chi fa ricerca.
Proprio partendo da queste constatazioni, da poco tempo Elisabeth ha aperto il suo blog. In fondo alla home page figura un motto che spiega ciò che muove Bik:
Science builds upon science. Science should be open for self-correction.
“La scienza è costruita sulla scienza. La scienza dovrebbe essere aperta all’autocorrezione”.
Quando, ricorda Elisabeth, la scienza dimentica la sua capacità di autocorrezione, allora rischia di perdere una delle qualità che la rendono diversa e speciale rispetto a tanti altri modi di ragionare.
Anche per questo, potremmo aggiungere, chi vuole contrastare le pseudoscienze, oltre a fare le pulci ai loro promotori, deve interessarsi e sorvegliare i modi di lavorare degli scienziati e di chi si occupa di tecnologia. Oggi anche gli articoli tecnici sono di fatto largamente accessibili al pubblico interessato – e una parte del pubblico è in grado di prendere in castagna gli scienziati, se commettono errori o addirittura scorrettezze volute.
In altri termini, è sempre bene tenere alta la guardia e partire dal presupposto che gli errori presenti nel processo che porta alla pubblicazione, oggi più che mai, possono essere utilizzati con facilità dai detrattori della scienza.
Ai primi di giugno Elisabeth Bik è intervenuta su Science Integrity per parlare di un problema che sta assumendo un’importanza crescente. Si tratta delle false appartenenze (le “affiliazioni”) a istituzioni di ricerca oppure a università, che a volte gli autori di pubblicazioni scientifiche si attribuiscono. Insieme a quello delle false affiliazioni, Bik discute un guaio più macroscopico: la presenza di autori del tutto inesistenti in testa ad alcuni articoli. Eppure questi articoli nella gran parte dei casi erano passati attraverso i controlli dei redattori ed erano regolarmente giunti alla stampa.
Piaccia o meno, il fatto di leggere in testa a una pubblicazione che uno o l’altro autore lavora con un’università o con un ente super-prestigioso crea nel lettore comprensibili aspettative.
Per una rivista è ragionevole supporre che quell’istituzione presso la quale un autore afferma di lavorare ne avrà approvato il razionale, almeno se si parla di studi in cui è necessario un controllo da parte di un comitato etico. E poi, vedere comparire un’affiliazione potrebbe far pensare che quell’università ne sia a conoscenza.
Sulla base di queste premesse, è chiaro che per Bik far uscire un lavoro con un’affiliazione falsa è un grave esempio di cattiva condotta scientifica. La cattiva notizia è che fare una cosa del genere sembra piuttosto facile. Di norma, infatti, le affiliazioni non sono verificate dalle riviste. Nella sua esperienza Bik ha scoperto con facilità diversi casi di false affiliazioni. Ne cita alcuni nel sorprendente settore della dentistica astronautica – non eravate i soli a ignorarne l’esistenza – o in certe peculiari ricerche di virologia tentate da un astrofisico iraniano.
Ci sono poi anche le autoaffiliazioni. In quel caso, un autore dichiara di far parte di un ente di cui in realtà è il solo o il principale responsabile o addetto. Detta senza giri di parole, si tratta di dichiararsi “direttore”, “responsabile scientifico”, “professore” e così via di piccole o piccolissime istituzioni o di organismi privati che in sostanza rappresentano solo una o due persone. La cosa dovrebbe suonare come un campanello d’allarme, più che come una rassicurazione.
Non basta. A parte le false affiliazioni degli autori, ci sono anche gli autori… che non sanno di essere tali. Bik li chiama autori inconsapevoli. È come se io, scrivendo un saggio, accanto alla mia firma accostassi quella di Piero Angela, così da accrescere il mio prestigio agli occhi di chi legge (e se lo facessi, naturalmente, a insaputa di Angela). Beh, questa cosa accade anche in ambito scientifico. Sul punto Bik menziona un lavoro recente di un italiano, Mario Biagioli, storico della scienza ed esperto di diritto delle scienze e delle tecnologie presso la University of California di Davis. Nel suo saggio Biagioli discute sia la questione degli autori inconsapevoli sia quella – ancora peggiore – della presenza, in testa ad alcune pubblicazioni, di falsi autori. Né più, né meno, di studiosi, scienziati, ingegneri… che non esistono.
Fra gli altri casi di quest’ultimo tipo, Biagioli descrive quello di “Javier Grande”, più volte elencato come autore affiliato a importanti istituzioni accademiche spagnole. Purtroppo, di “Javier Grande” non c’è traccia nella realtà. Si tratta dell’invenzione di un ingegnere chimico, firmatario di articoli referati e giunti a pubblicazione.
Un secondo esempio menzionato da Biagioli risale al 2016 e concerne un gruppo di autori che aveva sottoposto ad una rivista ad alto impatto un articolo il cui corresponding author risultava essere un importante economista olandese. L’email indicata per lo studioso olandese, però, non era quello dell’istituzione d’appartenenza indicata dagli altri autori. Poco tempo dopo, alla rivista giungeva una nuova versione dell’articolo in cui l’olandese era sparito, e al suo posto era comparso il nome di uno scienziato iraniano, insieme a quello di tre nuovi co-autori, anch’essi iraniani.
In realtà, contattato dalla redazione, l’economista olandese aveva spiegato che dopo le revisioni subite dall’articolo aveva chiesto di non essere più indicato come autore e che… era la terza volta in un anno che altri autori avevano cercato di sottoporre a riviste accademiche lavori in cui il suo nome vi era associato in modo fraudolento.
Per Biagioli questa tendenza ad “aggiungere” altri nomi (e nomi di “fantasmi”!) al proprio potrebbe essere letta, almeno negli ambiti rilevanti, come un indice della pressione alla conformità alle convenzioni accademiche che pesa su buona parte dei ricercatori. Potremmo chiamarla “sindrome dell’autore individuale”. In altri termini, un lavoro che ha pretese di originalità, o che addirittura vuole indicare vie non convenzionali, può risultare psicologicamente più oneroso se al proprio nome di autore non si affianca quello di altri. Certo, nella scienza odierna l’autore singolo è evenienza sempre meno frequente.
A questi problemi di integrità della scienza Elisabeth Bik propone rimedi tanto semplici quanto efficaci. Occorre verificare con puntualità la congruenza tra affiliazioni accademiche dichiarate e indirizzi email forniti. La presenza di recapiti di posta appartenenti a provider commerciali invece che caratteristici di istituti di ricerca (tipicamente quelli con l’estensione di dominio .edu, per il gli enti d’istruzione) potrebbe rappresentare una red flag, un campanello d’allarme per le false affiliazioni. Non resta che contattare quelle istituzioni e domandare come stanno le cose, pure se la cosa può risultare sgradevole, imbarazzante, delicato per i responsabili della testata cui il lavoro è stato proposto.
Tuttavia l’evidenza crescente – ammonisce Bik – testimonia la necessità, nei casi sospetti, di sopportare i costi di questo controllo. Il rischio è che, non mettendolo in atto, una rivista scientifica si mostri scarsamente rigorosa verso queste forme di cattiva condotta scientifica.
L’approccio scientifico alla realtà ha già troppi detrattori. È dunque bene non offrirgli il destro, per abitudine o per timore di mettere in discussione, con una verifica semplicissima, la reputazione di chi invia un articolo.