L’inferiorità delle donne e la scienza
Articolo di Tiziana Metitieri
Il quadro che emerge da uno studio appena pubblicato da Marianna Filandri e Silvia Pasqua, dell’Università di Torino, presenta una situazione tangibile e persistente: in Italia ci sono sempre meno donne man mano che si sale di livello nella carriera accademica.
Ancor oggi, la spiegazione di tale divario secondo alcuni sarebbe da rintracciare nell’inferiorità delle donne, che mancherebbero delle abilità cognitive necessarie per farsi strada nelle discipline scientifiche. Questa convinzione arriva da lontano, come spiega Angela Saini, laureata in ingegneria, autrice e giornalista scientifica britannica, nel suo libro Inferiori. Come la scienza ha penalizzato le donne, tradotto in italiano per Harper Collins e apparso a inizio novembre.
In realtà, lo studio di Filandri e Pasqua dimostra che tale disparità non è motivata da una diversa produttività scientifica né dalla riluttanza delle donne a candidarsi per le posizioni di professore ordinario. In altri termini, a parità di pubblicazioni scientifiche e di candidatura, gli uomini hanno più probabilità di essere nominati professori rispetto alle donne.
Come spiegato da Angela Saini:
In uno studio pubblicato nel 2012, la psicologa Corinne Moss-Racusin e un gruppo di ricercatori della Yale University hanno analizzato il problema dei pregiudizi nella scienza: a oltre cento scienziati è stato chiesto di valutare il curriculum di un candidato che si presentava per ottenere un lavoro come responsabile di laboratorio. I curricula da valutare erano identici, tranne per il fatto che la metà era attribuita a un candidato con un nome femminile e l’altra metà con un nome maschile.
Qual è stato il responso della commissione?
Il livello di competenza assegnato ai curricula con nomi femminili era sistematicamente inferiore a quello assegnato alle candidature con nome maschile. Ne conseguiva una disparità di assunzione a svantaggio delle donne.
Saini aggiunge che, come precisato dagli autori
Il genere dei docenti universitari che hanno esaminato il curriculum non ha influenzato le risposte; infatti, i docenti di sesso femminile avevano le stesse probabilità di quelli di sesso maschile di mostrare pregiudizi nei confronti del candidato donna. Il risultato di questo studio lascia intendere che il pregiudizio sia così radicato nella cultura scientifica che le donne stesse attuano discriminazioni nei confronti di altre donne. Il sessismo non è perpetrato solo dagli uomini.
Per Filandri e Pasqua, “senza alcun intervento politico specifico, non vi è dubbio che la strada verso l’uguaglianza di genere sia lunga. La parità di genere non avverrà da sola, e sono necessarie ulteriori ricerche per comprendere meglio tutti i possibili meccanismi alla base del divario di genere nelle università italiane”. Aggiungono che “le quote di genere sembrano essere l’unica risposta efficace al pregiudizio strutturale di genere nel mondo accademico”.
Le donne sono così poco rappresentate nella scienza moderna perché, per gran parte del corso della storia, sono state considerate inferiori dal punto di vista intellettivo e quindi deliberatamente escluse. Non dovrebbe dunque sorprendere che anche l’establishment scientifico abbia dipinto un’immagine falsata del sesso femminile,
puntualmente spiega Angela Saini.
Il suo libro, pubblicato in inglese nel 2017 ha avuto una grande diffusione in tutto il mondo ed è attualmente già stato tradotto in diverse lingue. Con la sua scrittura chiara e con obiettività di metodo, Saini ripercorre le teorie scientifiche e le ricerche sperimentali nei campi della biologia, della psicologia, delle neuroscienze, della primatologia, dell’endocrinologia, ecc. che hanno cercato in tutti i modi di dimostrare l’inferiorità delle donne o, nelle versioni più clementi, le differenze biologiche tra uomini e donne, alle quali appellarsi per giustificare le disparità sociali e nell’accesso alle professioni. Molte di quelle teorie e ricerche hanno trovato grande diffusione sui mezzi di comunicazione e successo di pubblico, quasi a sollievo di tutti i pregiudizi e stereotipi della società occidentale. Non altrettanta diffusione hanno avuto le smentite o l’assenza di replica dei risultati.
Come spiega Saini
replicare la ricerca è fondamentale. Per moltissimi studi nel campo della psicologia, anche per quelli ampiamente riportati dalla stampa, non è stato possibile fare altrettanto. Se un certo numero di scienziati indipendenti arriva alle stesse conclusioni, sulla base di studi diversi su un ampio campione di soggetti, allora si potrà più facilmente essere sicuri dei risultati ottenuti.
Come ho potuto leggere nei suoi documenti originali, lo raccomandava anche Anna Berliner, l’unica donna ad aver ottenuto nel 1913 il dottorato con Wihlelm Wundt, il fondatore della psicologia sperimentale:
A quel tempo qualsiasi esperimento pubblicato da uno dei laboratori sarebbe stato ripetuto immediatamente da altre università e senza una descrizione esatta di tutti i dettagli [metodologici] una valutazione critica non sarebbe stata possibile.
Poi qualcosa dev’essere andato storto nella scienza e hanno prevalso l’inseguimento del risultato più clamoroso e seducente e la demonizzazione delle repliche negative. Questo almeno fino alla nascita, in questi ultimi anni, del movimento per la replicabilità degli studi scientifici al quale hanno aderito molti scienziati ma dal quale molti altri si guardano bene, restando ancorati in qualche modo all’immagine della propria infallibilità.
Quando ci affidiamo agli scienziati per un chiarimento, diamo per scontato che saranno neutrali. Riteniamo che il metodo scientifico non possa essere distorto da pregiudizi contro le donne. Ma ci sbagliamo,
avverte Saini.
Gli stessi scienziati, in quanto esseri umani, sono condizionati dai loro pregiudizi e questo – in assenza di una coscienza critica e del ricorso a misure di correzione – influenza il loro modo di fare ricerca, a partire dalle ipotesi di studio scelte, sino al metodo e all’analisi statistica dei risultati.
Saini fa a questo proposito l’esempio della cosiddetta teoria di Geschwind-Behan-Galaburda. Norman Geschwind è stato un pioniere della neuropsicologia per i suoi studi sulla specializzazione degli emisferi cerebrali, sulle sindromi da disconnessione e sulle epilessie temporali. Era già famoso quando, verso la fine degli anni ’80 del secolo scorso, pubblicò assieme ai coautori le sue tesi sulle differenze di genere nelle abilità cognitive. Per Geschwind, l’esposizione del feto al testosterone era responsabile di un minore sviluppo dell’emisfero sinistro nei maschi. Questa ipotesi forniva la spiegazione biologica al perché gli uomini fossero più predisposti al ragionamento logico e all’astrazione e le donne fossero più inclini alla concretezza e alla produzione verbale. Queste tesi, oltre ad aver fornito ispirazione alle ricerche successive, come quelle di Simon Baron-Cohen per sviluppare la sua teoria sul cervello femminile caratterizzato dall’empatia e quello maschile dalla sistematizzazione, sono passati ormai alle credenze popolari.
Restano, però, tesi non dimostrate.
Saini ha chiesto al riguardo il parere del dottor Christopher Mc Manus, della University College London (UCL):
L’esigua quantità di prove a favore di questa teoria indica che il cervello maschile è davvero modellato dal testosterone, o la realtà è più complessa? «Era uno dei più illustri neurologi» dice Chris McManus, professore di psicologia presso lo University College di Londra, che ha passato anni a studiare la teoria di Geschwind-Behan-Galaburda. In effetti, sostiene McManus, era una parte del problema del lavoro di Geschwind sul testosterone e sul cervello. Il fatto che fosse così eminente nel suo campo ha agevolato la pubblicazione della sua teoria su importanti riviste, anche quando si è scoperto che non sempre c’erano prove a supporto.
Emerge così un altro aspetto del problema: il ruolo del prestigio di uno scienziato, indipendentemente dall’obiettività dei suoi studi, nel condizionare le posizioni dominanti nella comunità scientifica.
La storia della pretesa inferiorità delle donne comincia da Darwin, ma la tesi ha poi trovato terreno fertile nei decenni successivi e si è sempre più strutturata nel mondo accademico e scientifico. Ancora ai giorni nostri c’è chi sostiene che la causa dell’esigua proporzione di donne nei maggiori riconoscimenti scientifici internazionali (Premi Nobel, Medaglie Fields, ecc.) sia da rintracciarsi nella scarsa attitudine femminile per l’astrazione, per la matematica, per la fisica. Insomma, il genio non è donna!
Uno sguardo attento alla storia, però, smentisce rapidamente questa affermazione.
Come ricorda Saini:
Altre donne, come Meitner, si sono viste negare i riconoscimenti che meritavano. L’enorme contributo di Rosalind Franklin alla decodifica della struttura del DNA è stato quasi del tutto ignorato quando James Watson, Francis Crick e Maurice Wilkins hanno condiviso il premio Nobel, dopo la morte di Franklin, nel 1962. E fino al 1974 il Nobel per la scoperta delle pulsar non fu assegnato all’astrofisica Jocelyn Bell Burnell, che in realtà aveva effettuato la scoperta, ma al suo supervisore di sesso maschile. Nella storia della scienza, le donne dobbiamo andare a scovarle – non perché non fossero in grado di fare ricerca, ma perché per molto tempo non ne hanno avuto la possibilità. Viviamo ancora con il retaggio di un establishment che sta, solo ora, iniziando a riscattarsi da secoli di esclusione e di pregiudizi estremamente radicati.
Le donne Nobel non sono certo mancate ma sono davvero pochissime. Fino ad oggi, includendo tutte le categorie, sono stati premiati 866 uomini, 53 donne e 24 organizzazioni. Le scienziate che hanno vinto il Nobel sono state 21 (Marie Curie lo ricevette in Fisica nel 1903 e in Chimica nel 1911), sui 615 Nobel scientifici assegnati.
Dunque, solo le donne straordinarie, che superano eroicamente le resistenze dell’ambiente, possono ambire ai grandi riconoscimenti?
Per rispondere a questa domanda lasciamo solo per un momento il libro di Saini e spostiamoci alla metà del secolo scorso, negli Stati Uniti.
Siamo negli anni in cui Rita Levi Montalcini aveva identificato un fattore specifico di accrescimento neuronale che agisce sullo sviluppo delle cellule nervose dei vertebrati (Nerve Growth Factor, NGF), una scoperta che le valse il Nobel per la Medicina e la Fisiologia, insieme a Stanley Cohen, nel 1986. Era arrivata nei laboratori di St. Louis su invito del biologo Viktor Hamburger, che anno dopo anno sostenne le sue idee, appoggiò le sue richieste di finanziamento presso le agenzie statunitensi e fece in modo che potesse raccontare e documentare quanto andava scoprendo in tutti i consessi scientifici più prestigiosi. Aveva anche il sostegno dell’amico Renato Dulbecco che in quegli stessi anni al Caltech di Pasadena stava conducendo pionieristici studi di virologia e per le cui scoperte fu insignito del Nobel nel 1975. Le idee innovative, la disponibilità di risorse strumentali e finanziarie, il sostegno della comunità scientifica, assieme alle qualità psicologiche furono alla base del successo di Rita Levi Montalcini.
Al Caltech le scoperte più rilevanti che avrebbero dato inizio alla virologia molecolare, furono condotte da Dulbecco insieme a Marguerite Vogt, figlia degli scienziati Cécile e Oskar Vogt (che avevano fondato a Berlino l’Istituto di Neurobiologia che sarebbe poi diventato il Max Planck Institut), nominati per tredici volte al Nobel senza mai riceverlo. Una scienziata, una pianista e un’atleta, Marguerite Vogt, tanto rigorosa e appassionata quanto riservata e generosa, alla domanda su quale fosse stata la sua reazione alla mancata nomina al Nobel assieme a Dulbecco rispose:
Sono felice di non essere stata disturbata, quando diventi troppo famoso, smetti di essere in grado di lavorare.
L’ambiente al Caltech era evidentemente assai diverso da quello di St. Louis. Quando Dulbecco ricevette il Nobel, nei ringraziamenti ai vari ricercatori dimenticò di citare anche solo marginalmente Marguerite Vogt. Le idee innovative, la disponibilità di risorse strumentali e finanziarie, il sacrificio personale e le qualità psicologiche non furono sufficienti a Vogt, in assenza del sostegno da parte della comunità scientifica, per avere successo. Come lei stessa ebbe a dire: Dobbiamo essere molte di più in giro, forse allora sarà difficile ignorarci.
Ma riprendiamo il libro di Saini. Un’altra linea esplorata dall’autrice è quelle per la quale i medici
sconsigliavano le fatiche mentali dell’istruzione superiore perché poteva deviare le energie dal sistema riproduttivo della donna, mettendone a rischio la fertilità.
Negli ambienti universitari, “si pensava anche che la semplice presenza delle donne potesse disturbare il serio lavoro intellettuale degli uomini”, aggiunge Saini nel testo.
A distanza di anni e nonostante le smentite sperimentali, molti scienziati continuano a indagare l’esistenza di differenze biologiche tra i sessi – ad esempio, continuando a confrontare il volume cerebrale che negli uomini è lievemente maggiore (come la circonferenza cranica e altri indici corporei), ma
la ragione per la quale persistono in questa ricerca è semplice: se c’è una differenza fisica tra un uomo e una donna, allora molto probabilmente ci sarà anche una differenza nelle loro menti.
Ma finora sono state trovate solo lievi e specifiche differenze, come illustra l’autrice, che in ogni caso non giustificano in alcun modo l’enorme disparità di genere in ambito professionale, culturale, politico e sociale.
Come si può dunque cambiare il corso del fiume?
Uno dei modi è quello di far conoscere l’altra metà della storia della scienza a partire dalle scuole dell’obbligo, e questo per promuovere una presa di coscienza degli stereotipi che condizionano le scelte quotidiane (ad esempio, proporsi per un intervento in classe o per un progetto innovativo) e quelle future (iscriversi a un corso di laurea in ingegneria) o di sviluppare una lettura critica dei risultati scientifici.
Sono stati questi gli obiettivi di una campagna promossa dalla fisica Jessica Wade e dalla chimica Claire Murray nell’estate 2018 per raccogliere i fondi necessari a distribuire gratuitamente una copia del libro di Angela Saini in ogni biblioteca delle scuole statali del Regno Unito. La campagna ha avuto un grande successo ed è stata ripresa anche a New York e in Canada.
D’altra parte, il mondo accademico è chiamato ad assumersi le proprie responsabilità e a farsi promotore di un cambiamento culturale che sia garante di diversità e di protezione, fautore di azioni radicali per incrementare la presenza delle donne e delle minoranze nelle posizioni più alte della carriera, nei congressi e nei riconoscimenti assegnati. Le università che si assumono queste responsabilità andrebbero premiate anche in termini economici.
Con il suo Inferiori (e poi con Superior, che sarà tradotto da noi nel 2020) ha fatto la scelta coraggiosa di smontare i pregiudizi sessisti e razzisti interni al mondo scientifico e accademico, presentando prove e dichiarazioni dei protagonisti, e dimostrando la fallacia sul piano metodologico delle tesi e degli studi ideologicamente condizionati da pregiudizi le cui conseguenze sono ancora ben evidenti.
In tal modo ha fornito gli strumenti per aprire una discussione nelle aule universitarie, in particolare in quegli atenei e in quelle società scientifiche i cui membri si sono distinti per posizioni sessiste e antiscientifiche.
Con il suo tono fermo e gentile con cui continua a dare voce alle discriminazioni nella scienza – attraverso documentari, lezioni e seminari – Saini rappresenta anche un modello di risposta alle urla degli estremisti e al silenzio di chi li lascia fare.
Tiziana Metitieri è neuropsicologa clinica all’Ospedale Pediatrico Meyer di Firenze; scrive di donne e scienza, di psicologia e di disinformazioni scientifiche; è autrice con Sonia Mele del progetto Untold stories: the Women pioneers of Neuroscience in Europe – http://wineurope.eu/