Chernobyl, la storia mancata
Articolo di Massimo Andretta (UniBo)
Recentemente è andata in onda, anche in Italia, su alcune reti on demand, la miniserie televisiva anglo-statunitense Chernobyl, what is the cost of lies – Chernobyl, qual è il costo delle menzogne, creata e sceneggiata dal produttore cinematografico americano Craig Mazin e diretta dal regista svedese Johan Renck. In cinque episodi, dalla durata di circa un’ora ciascuno, si racconta la storia del disastro di Chernobyl, da una prospettiva, però, del tutto inedita rispetto alle numerose altre ricostruzioni storiche e giornalistiche che, in oltre 30 anni dall’accaduto, sono state realizzate per descrivere e cercare di comprendere il più grave incidente del “nucleare civile” del dopoguerra. Le vicende narrate nelle diverse puntate televisive si basano sulle dichiarazioni di diversi testimoni, abitanti della cittadina di Pripyat, raccolte dalla scrittrice, Premio Nobel per la letteratura, Svetlana Alexievich nel suo libro Preghiera per Cernobyl[i], pubblicato, in Russia, ad 11 anni dalla tragedia.
La serie televisiva non può essere vista, ed il libro, ancor più, non può essere letto senza provare un notevole coinvolgimento emotivo ed una profonda commozione. La realizzazione televisiva è caratterizzata da colori per lo più cupi, chiari-scuri tipici delle riprese documentaristiche di qualche decennio fa. Molte inquadrature ed i dialoghi fra protagonisti sono realizzati come se fossero filmati realizzati a scopo probatorio in un processo. In molte scene, specie quelle che riproducono la tragedia nel reattore nucleare, l’atmosfera potrebbe essere definita “gotica”. Altrettanto coinvolgente e, forse, ancor più commovente, risulta il saggio dell’Alexievich. È un libro che, almeno a parere di chi scrive, non può essere letto tutto d’un fiato; necessita di pause, di tempi di riflessione per essere interiorizzato, per poter passare da una testimonianza alla successiva. Una serie televisiva, un libro, realizzati per far pensare, per riflettere sulla natura umana, sul significato di progresso, sulla meschinità dei potenti e l’incapacità dei “sapienti”, contrapposti al valore e all’eroismo della “gente comune”.
Dal punto di vista tecnico-scientifico, a distanza di più di trent’anni, la sequenza di azioni e di processi fisici che portarono, nella notte fra il 25 ed il 26 aprile 1986, all’esplosione del Reattore 4 di Chernobyl sono oramai noti. Come, per altro, ben spiegato nel quinto ed ultimo episodio della miniserie televisiva, le ragioni tecniche conseguenti alla catena di eventi che portò al disastro nucleare possono essere così riassunti[ii].
L’impianto di Chernobyl era composto da 4 reattori da 1000 MW elettrici ognuno, e produceva circa il 10% dell’energia elettrica ucraina. Si trattava di reattori del tipo RBMK-1000 (Reaktor Bolshoi Moshchnosty Kanalny, che significa “reattore di grande potenza a canali”), prodotti solo in Unione Sovietica. La centrale fu progettata per produrre principalmente plutonio di grado militare, ma anche energia. Utilizzava acqua naturale per il raffreddamento e grafite come moderatore dei neutroni: in tale configurazione era possibile adoperare, come combustibile, l’uranio naturale, composto dal 99.3% da uranio-238, che non dà luogo a reazione di fissione a catena, e solamente da 0.7% di uranio-235, che è il combustibile nucleare vero e proprio. Il fatto di non richiedere né uranio arricchito né acqua pesante abbassava notevolmente i costi di costruzione ed esercizio, anche se, nel caso del reattore n. 4, l’uranio era debolmente arricchito (circa il 2 % di uranio-235). Questo tipo di reattore è caratterizzato da una peculiarità tecnica estremamente pericolosa, come vedremo tra breve: il così detto “coefficiente di vuoto” positivo che lo rende instabile e, quindi, molto delicato nel funzionamento. Tale parametro misura come varia la reattività (e quindi la potenza) di un reattore nucleare se aumenta il volume di vapore nel suo sistema refrigerante.
Si tenga, inoltre, presente che ad ogni fissione di un nucleo di uranio, si generano neutroni che, però, devono essere opportunamente rallentati da un moderatore per poter dar luogo ad ulteriori reazioni di fissione degli altri atomi di combustibile. Nei reattori di tipo occidentale, l’acqua leggera (H2O) svolge contemporaneamente il ruolo di refrigerante del nocciolo e moderatore dei neutroni (e per tale ragione necessitano di essere alimentati con uranio debolmente arricchito). Nel caso manchi il refrigerante, per qualunque causa, la reazione a catena tende a spegnersi (mancando anche il moderatore dei neutroni). Per tale motivo i reattori di tipo occidentale sono tutti intrinsecamente sicuri, cosa che, invece, non si verifica per i reattori RBMK, dove il moderatore è dato dalla grafite, indipendentemente dal refrigerante.
L’acqua ordinaria, in fase liquida, poi, presenta un’altra caratteristica importante per i reattori nucleari: oltre a rallentare i neutroni, li cattura (impedendo loro di generare altre fissioni), con un‘efficienza circa 100 volte maggiore di quella della grafite. Se l’acqua passa in fase vapore, non avvengono più catture e rimane l’elevato potere di moderazione della grafite. La potenza del reattore quindi aumenta senza che vi sia l’asportazione di calore da parte dell’acqua.
Ne consegue che, nei reattori RBMK come quello di Chernobyl, mancando l’acqua di raffreddamento la reazione subisce una “accelerazione”. In questo caso si parla, a differenza dei reattori occidentali, di “instabilità intrinseca”, dovuta ad un “coefficiente di vuoto” positivo.
La scelta, per altro non riportata nella serie televisiva, di consentire la produzione di plutonio di grado militare in un reattore adibito ad usi civili fu, poi, particolarmente infausta. A tal fine, infatti, fu necessaria l’introduzione di grandi gru sopra il nocciolo del reattore, per consentire la movimentazione del combustibile “in linea” (senza spegnere il reattore). Questo portò, assieme a considerazione di contenimento di costi di costruzione, alla realizzazione di edifici di copertura molto alti (oltre 70 metri), privi delle auspicabili caratteristiche di robustezza e tenuta ai fini della sicurezza nucleare. Per altro, all’epoca, in Unione Sovietica, tali impianti si ritenevano sufficientemente sicuri tanto da non richiedere, come per i reattori statunitensi ed europei, un vero e proprio contenitore di sicurezza. L’edificio di copertura aveva, così, le caratteristiche di una normale costruzione civile (volte a capriata, come i nostri capannoni industriali, con il tetto ricoperto di bitume). La produzione di plutonio militare, inoltre, richiedeva di esercire gli impianti a temperature troppo alte per il mantenimento degli standard di sicurezza: infatti, a regime, la temperatura della grafite era di 600 °C, con punte di 700 °C, superiori alla soglia di reazione aria-carbonio (≈ 450 °C) e prossimi alla soglia della reazione acqua-carbonio (≈ 700 °C).
C’era, inoltre, un ulteriore difetto di progettazione nelle barre di controllo: queste, infatti, terminavano con estensori di grafite di circa un metro che, quando venivano inseriti, rimpiazzavano l’acqua, aumentando quindi, seppur per pochi secondi, la potenza (invece di ridurla immediatamente). Tale comportamento delle barre è assolutamente contro intuitivo ed era ignoto agli operatori della centrale. Si aggiunga, infine, che l’accoppiamento di acqua e grafite risulta particolarmente pericoloso in caso di incidente: ad alte temperature infatti questi reagiscono formando miscele esplosive.
A queste carenze tecnico-ingegneristiche si deve aggiungere anche la componente umana. Gli operatori non erano a conoscenza di problemi del reattore e non erano opportunamente qualificati per i “pericolosi” reattori del tipo RBMK-1000: il direttore, V.P. Bryukhanov, aveva esperienza su impianti a carbone, come pure il capo-ingegnere Nikolai Fomin, che aveva esperienza su impianti convenzionali; anche il capo-ingegnere in seconda e supervisore del test, Anatoliy Dyatlov aveva solo una limitata esperienza con i reattori nucleari, per lo più di piccola taglia e con caratteristiche completamente differenti, per applicazioni nei sottomarini nucleari.
Ora che abbiamo sinteticamente inquadrato gli aspetti tecnico-ingegneristici del reattore di Chernobyl, possiamo descrivere con maggior precisione la catena di eventi che portò al disastro. L’incidente avvenne nel corso di una prova volta a verificare la possibilità di alimentare i sistemi di sicurezza durante il rallentamento del turbogeneratore in seguito a distacco dalla rete. Questa prova era stata richiesta, a livello centrale, da Mosca, ad altre centrali nucleari, ma avevano tutte rifiutato dato l’alto rischio connesso alle operazioni richieste. La titolarità dell’esperimento, per lo più, fu affidata a quello che verrà definito dalla stampa “il folle ingegnere elettrotecnico”, convinto di poter trattare l’impianto in maniera del tutto convenzionale. Il direttore Bryukhanov era uno specialista di turbine, ma purtroppo ignorante in campo nucleare: era stato promosso a direttore della centrale per “meriti di partito”, e tendeva a sostituire gli esperti di centrali nucleari con tecnici provenienti da centrali termiche convenzionali.
I reattori come quello di Chernobyl hanno due sistemi diesel di emergenza, non attivabili istantaneamente. Quello che si voleva verificare era la possibilità alimentare le pompe di emergenza grazie all’inerzia della turbina durante l’avvio dei generatori diesel. Il test era già stato condotto su un altro reattore (ma con tutti i sistemi di sicurezza attivati), con esito negativo. Fermato il turbogeneratore, venne isolato il circuito di raffreddamento di emergenza, che avrebbe potuto invece abbassare rapidamente il contenuto di vapore nel circuito e forse evitare l’esplosione: questo si rivelò un errore madornale, dovuto a ignoranza della fisica nucleare e dei fenomeni che avvengono all’interno del reattore (o ad estrema ed ingiustificabile presunzione). Per una serie di malaugurate circostanze, che descriverò tra breve, la potenza del reattore si ridusse a soli 30 MW termici (circa 10 MW elettrici), ma si scelse comunque di non spegnere il reattore e continuare la prova: qualunque tecnico non digiuno di fisica nucleare avrebbe immediatamente capito l’estrema pericolosità della mossa. Durante il funzionamento di un reattore nucleare, infatti, si forma, tra gli elementi derivati dalla fissione dell’uranio-235, un potente veleno neutronico, lo xeno-135. Quest’ultimo, ad alti regimi di potenza, viene compensato dall’alto flusso neutronico del reattore (a sua volta direttamente legato alla potenza erogata dal reattore), ma a bassa potenza svolge un ruolo significativo. Per poter rispondere alle esigenze di fornitura di energia elettrica alla rete ucraina, il reattore 4 di Chernobyl, per circa 11 ore (dalle 14.00 del 25 aprile alle 23.10 dello stesso giorno), sul bel mezzo delle procedure di spegnimento, fu mantenuto a potenza dimezzata (1600 MW termici) rispetto a quella di normale funzionamento. Al momento di riprendere la prova, l’accumulo di “veleno neutronico” nel reattore fece scendere la potenza molto più rapidamente del previsto. Per contrastare gli effetti di tale avvelenamento, sottovalutato o del tutto ignorato dai tecnici di centrale, furono estratte, in maniera assolutamente avventata, le barre di controllo: le prescrizioni di sicurezza raccomandavano di lasciarne inserite sempre almeno 28÷30, ma al momento dell’incidente le barre inserite si rivelò che erano solo 6÷8. Il personale, dati i ritardi con cui era iniziata la prova, aspirava a terminare presto il test (e questo contribuì a far precipitare gli eventi). Iniziò a formarsi del vapore nelle pompe, diminuendo la portata d’acqua nei canali principali, che, a causa del già citato coefficiente di vuoto positivo del reattore, portò ad un aumento improvviso ed elevato del tasso di reattività e, quindi, della potenza prodotta dal reattore. A soli 36 secondi dall’inizio del test il reattore entrò in grave emergenza. Si decise, allora, di effettuare un arresto di emergenza del reattore (in inglese SCRAM – Safe Control Rods Anticipated Movement “Discesa Anticipata di Sicurezza delle Barre di Controllo”[iii]) inserendo tutte le barre di controllo precedentemente incautamente estratte (attivando il “famoso” pulsante AZ-5 della centrale, più volte citato nella serie televisiva); ma a causa della lentezza di inserimento (18÷20 secondi) e dei follower di grafite che rimpiazzavano l’acqua (descritti in precedenza), ci fu un ulteriore aumento di reattività; inoltre, l’inserimento proseguì per soli 2,5 metri (invece che per i 7 metri di altezza del reattore) dato che i canali entro cui dovevano scorrere le barre di controllo si erano ormai deformati. Fu la goccia che fece traboccare il vaso della tragedia.
Ci fu una escursione esponenziale di potenza pari ad oltre 100 volte quella nominale del reattore, e si verificarono reazioni chimiche che portarono alla formazione di gas esplosivi (idrogeno e metano) in seguito al contatto dell’acqua con lo zirconio e la grafite. La piastra superiore, del peso di 500 tonnellate, fu sollevata e sbalzata in aria. Il livello di radioattività nell’area (ovvero l’esposizione degli operatori nella centrale) salì a 1000-1500 Roentgen/ora[iv] (pari all’effetto di 10000-15000 radiografie all’ora), ma il personale disponeva di strumenti con fondo scala di 1 milliRoentgen/ora. Gli strumenti con fondo scala opportuno giacevano chiusi a chiave in un edificio coperto dalle macerie. Lo scenario che ne seguì fu tragico, e solo l’eroismo delle squadre di soccorso consentì di spegnere l’incendio. Bruciò il 10 % della grafite contenuta nel reattore, che causò la colonna di fumo che si levò fino a 1200 metri di altezza, per effetto della quale le sostanze radioattive furono sparse in tutta Europa (i primi ad accorgersi dell’incidente furono gli Svedesi). Si stima che, nei 10 giorni in cui perdurò l’incendio, ci fu un rilascio complessivo di radioattività di 50 milioni di Curie[v].
Queste, in sintesi, le ragioni tecnico-scientifiche e la sequenza di avvenimenti che portarono al più grave disastro del “nucleare pacifico” mai verificatosi; una tragedia che, secondo alcuni analisti, ha concorso anche ad accelerare la disgregazione dell’Unione Sovietica. Questa è la Storia, così come è stato possibile ricostruire dalle testimonianze degli operatori, dei burocrati di regime, degli scienziati e dai documenti trapelati tra le maglie della cesura. Successione di avvenimenti e relative cause tecnico-scientifiche del disastro che risultano dettagliatamente esposte nell’ultima puntata della serie televisiva, forse l’unica delle cinque a non essere direttamente basata su qualche capitolo del saggio della Alexievich. Ma, come ho avuto modo di dire all’inizio di questo articolo, il pregio della serie televisiva, ed ancor più del libro Preghiera per Chernobyl è quello di aver raccontato, in maniera struggente e commovente ciò che, fino ad oggi, si è conosciuto meno. Vale a dire le impressioni, i sentimenti, le riflessioni, i ricordi, il sacrificio delle centinaia, migliaia di persone che hanno dovuto toccare con mano l’ignoto, ciò che a loro era sconosciuto ed incomprensibile ma che così grande impatto ha avuto sulle loro vite.
La serie televisiva, nei primi quattro episodi propone differenti testimonianze, punti di vista diversi ed emblematici della tragedia umana e sociale collegati al disastro di Chernobyl. Vi è la tragica e commovente vicenda del giovane vigile del fuoco che accorre fra i primi a domare, inconsapevole delle conseguenze, il velenoso incendio della centrale, la cui abnegazione al dovere lo porterà a veloce e terribile “morte da radiazione”, assistito dalla moglie che, nonostante fosse in attesa di una bambina, sfida le regole imposte a parziale protezione dalle radiazioni e lo accudisce amorevolmente fino all’ineluttabile epilogo. Assistiamo all’eroismo dei così detti “liquidatori”, mandati sul tetto della centrale per sgombrarlo dai residui di grafite e cemento radioattivi, in un ambiente ove neanche i robot automatici possono funzionare a causa dell’elevate radiazioni che ne danneggiano i circuiti elettronici. Siamo accanto ai minatori ucraini, precettati dal Comitato Centrale per scavare una galleria che permetta a tre altrettanto valorosi sommozzatori di isolare le vasche di raccolta acque di spurgo a valle della centrale; acque che, se fossero venute a contatto con la miscela di grafite, acciaio e materiale radioattivo che stava percolando, avrebbe provocato un’ulteriore esplosione anche più potente di quella avvenuta nel cuore del reattore, con conseguenze ancor più gravi per gran parte dell’Europa. Assistiamo allo smarrimento di un ragazzo appena maggiorenne, prelevato dalla sua fabbrica ed arruolato nell’esercito per cacciare tutti gli animali domestici e non presenti nelle aree evacuate per le elevate radiazioni, allo scopo di impedire la diffusione delle stesse e di malformazioni genetiche fra gli animali.
Il quinto episodio, come ho scritto poc’anzi, è incentrato sulla ricostruzione del processo che si svolse in Unione Sovietica per appurare le cause e le responsabilità dell’incidente e non è riferito, direttamente, ad alcun specifico capitolo di Preghiera per Chernobyl. Quest’ultimo episodio, nel quale ritroviamo una ricostruzione chiara e dettagliata degli avvenimenti che portarono all’esplosione della centrale, è incentrato sulla figura di Valerij Alekseevič Legasov, interpretato, nella miniserie televisiva, da Jared Harris. Vicedirettore dell’Istituto dell’Energia Atomica Kurchatov, fece parte della squadra che rispose, su indicazione del Comitato Centrale, al Disastro di Chernobyl. Indagò sulle cause dell’esplosione rivelando particolari scomodi al governo sovietico che lo costrinse al silenzio. A causa di questo sottaciuto silenzio, impostogli dall’alto, nel giorno del secondo anniversario del disastro, si suicidò per il rimorso, impiccandosi alla ringhiera delle scale della sua abitazione. Prima del suo gesto disperato, registrò personalmente una cassetta audio nella quale rivelava tutti i fatti relativi alla catastrofe che gli era stato impedito di divulgare[vi].
Quella della serie televisiva “Chernobyl”, così come del saggio a cui è ispirata, è una storia di sentimenti, non di avvenimenti. È il racconto non di tecnici, scienziati o boiardi asserviti al potere, alla sua logica ed alla sua burocrazia; ma la testimonianza di eroi: pompieri, medici, soldati, giovani spose e madri, anziane contadine e perché no, anche scienziati che hanno ripensato al loro ruolo di fronte al “Caos primordiale” ed hanno deciso di seguire il loro cuore. Uomini e donne comuni ai quali, all’improvviso, si è disgregato il “mondo a loro conosciuto”, che hanno affacciato lo sguardo nell’abisso ove si è rotto uno dei sigilli dell’Apocalisse ed hanno avuto il coraggio di reagire, di compiere il loro dovere e di non dimenticare. La loro testimonianza, pur nella desolazione di Chernobyl non è un racconto di morte, ma di amore.
Quasi una postfazione
Delle diverse migliaia di vittime del disastro di Chernobyl (le stime sono, per ovvie ragioni, alquanto variabili da fonte a fonte), oltre al già citato Prof. Valerij Alekseevič Legasov, vorrei qui ricordare anche Nagashibay Zhusupov, uno dei tanti, così detti, “eroici liquidatori” che lavorarono, primi fra tutti, per mettere in sicurezza il Reattore 4 subito dopo la sua esplosione. Dopo aver rivissuto, vedendoli nella serie televisiva a distanza di più di trent’anni, quei terribili momenti, si è suicidato, gettandosi dal V piano di un edificio[vii]. Aveva 61 anni. Quest’uomo valoroso non ha retto, molto probabilmente, all’emozione ed ai ricordi risvegliatisi in lui dalla visione del programma, ed all’umiliazione subita tanti anni prima, quando, a differenza di altri eroi acclarati che erano con lui, il governo sovietico non gli concesse un alloggio pubblico per sé e per i suoi cinque figli.
Anche questi, come tanti altri suicidi dimenticati, sono una conseguenza del disastro di Chernobyl.
Note
- [i] S. Alexievic. 2019. Preghiera per Chernobyl, Roma: Edizioni e/o Le Cicogne.
- [ii] https://www.nrc.gov/reading-rm/doc-collections/nuregs/staff/sr1250/
- [iii] Invero, di tale termine vi è anche un’altra spiegazione “ufficiosa”: SCRAM, che in slang anglosassone sta a significare: chiudi, spegni e fuggi a gambe levate sarebbe l’acronimo di Safety Control Rope Axe Man “Controllo di sicurezza manuale costituito da una corda ed un’ascia”. Tale termine sarebbe stato usato per la prima volta nel 2 dicembre 1942, quando vi fu la prima reazione nucleare controllata progettata da Enrico Fermi. Nel suo reattore prototipale, il sistema di emergenza era costituito da barre appese sopra il reattore con una corda che doveva essere tagliata da un uomo con un’ascia nel caso in cui la reazione fosse andata fuori controllo.
- [iv] Il Roentgen misura l’esposizione alle radiazioni ionizzanti, ovvero la capacità di ionizzazione che può essere prodotta in seguito ad una determinata esposizione a raggi x o gamma. 1 Roentgen equivale, in unità SI, alla quantità di radiazione capace di produrre una carica di 2,58•10-4 coulomb in 1 Kg di aria secca. Per i tessuti molli e radiazioni elettromagnetiche si ha: 1 Roentgen ≈ 1 Rad = 1 REM (Röntgen Equivalent Man, ovvero Röntgen Equivalente per l’Uomo). I primi effetti sul corpo umano si cominciano ad osservare per dosi equivalenti di 5 REM (0,05 Sievert). 1 Sievert è la dose assorbita di un 1 J/kg. Una radiografia convenzionale produce un’esposizione inferiore ad 1 mSv (0.1 REM).
- [v] 1 Curie = 3,7×1010 Becquerel, unità di misura della attività (ossia del numero di disintegrazioni al secondo). 1 Curie equivale all’attività di 1 grammo di radio, mentre 1 Bequerel rappresenta 1 disintegrazione nucleare al secondo.
- [vi] Nel settembre 1996, in occasione del primo decennale della tragedia, il presidente russo Boris Eltsin gli ha conferito il titolo di “Eroe della Federazione Russa” per il coraggio e l’eroismo dimostrati nell’investigazione del disastro.
- [vii] https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/07/15/chernobyl-uno-dei-liquidatori-eroi-vede-la-serie-tv-e-si-suicida-gli-avevano-negato-la-casa-popolare/5325494/.