Giandujotto scettico

Allontanare l’animo dalle luttuose impressioni. Le voci sul colera del 1835 a Cuneo

Giandujotto scettico n° 57 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (13/02/2020)

L’epidemia da Covid-19 ha generato voci, dicerie, bufale. Ma cose del genere non sono una novità. Scorrendo la voce di Wikipedia intitolata alla Storia del colera, ci si imbatte in un paragrafo interessante. All’interno del paragrafo Il contagio in Italia, molta attenzione viene dedicata alla prima, grande epidemia italiana di quel secolo, quella del 1835, e al suo arrivo in Piemonte e in Liguria, allora parti del Regno di Sardegna.

In particolare, si legge:

Quando l’epidemia scoppiò in Francia, il ducato di Parma ordinò di disinfettare tutte le lettere e i pacchi che provenivano da essa. Carlo Alberto ordinò alle truppe di stendere un cordone sanitario terrestre da San Remo a Ventimiglia e da Cuneo a Nizza. Furono adottate leggi che punivano con la morte tutti coloro che violavano i cordoni marittimi e terrestri e che aggiravano le disposizioni sanitarie. Nel luglio del 1835 quando il colera, era ormai al confine quasi tutti gli Stati, soprattutto quelli al nord, riorganizzarono il sistema di lazzaretti consapevoli che le misure adottate non sarebbero riuscite a risparmiare l’Italia dal colera. [..] Il 27 luglio 1835 il cordone fu rotto da qualche contrabbandiere e l’epidemia cominciò a diffondersi da Nizza verso Torino e Cuneo.

Ma davvero un ingresso clandestino di “contrabbandieri-porta-colera è all’origine della grande tragedia del 1835? E quali racconti circolarono nel Piemonte dell’epoca, nel tentativo di trovare una spiegazione al dramma?

Concentriamoci sulla città capoluogo della Provincia Granda, cioè Cuneo, che dopo Genova fu probabilmente il centro in cui nel 1835 si registrarono più casi mortali. Esiste un buon numero di fonti del tempo che raccontano cose assai curiose.

Alla fine del 1835, nel numero di dicembre degli Annali di medicina straniera (Milano), il medico Carlo Ampelio Calderini (1808-1856), uno dei sanitari incaricati da re Carlo Alberto di seguire l’evoluzione dell’epidemia visitando ogni luogo colpito, pubblicò un lungo “Cenno istorico del cholera-morbus che ha regnato nel 1835 in Nizza, Cuneo, Genova, Torino e altri luoghi dello Stato Sardo” (pp. 402-475).

Calderini era stato anche a Cuneo e per questo dedicava un bel paragrafo (pp. 426-439) alla città:

S. E. il conte Roberti, che mi onorò di gentile accoglienza, mi parlava di un sospetto che quella malattia fosse stata colà portata per mezzo di alcune coperte di lana, che dalla Provenza diverse donne contrabbandiere vennero nascostamente a vendere sulla piazza di Cuneo, come difatti me lo confermarono non pochi Cuneesi, le quali dappoi il sullodato governatore sottopose ad un interrogatorio per iscoprire la suddetta loro contravvenzione ai vigenti regolamenti sanitarii.

Fatto è che, il 27 di luglio nella contrada in cui abitava tal gente dedita al contrabbando si ebbero i primi casi di cholera bene constatati, e si constatarono in quel giorno a dirittura 9 decessi.

Ecco il primo punto da notare: le “donne contrabbandiere” sono interrogate dal conte Roberti, visto che il sospetto è che abbiamo smerciato “coperte infettate”. Il Calderini, però, tace sull’esito di tale indagine.

Invece, più avanti si sofferma ampiamente sui modi in cui si voleva riportare tranquillità nella popolazione:

[…] le stesse misure igieniche in seguito adottate furono di poca importanza, meno forse le seguenti: di fare cioè portare il Viatico senza pompa esteriore; di non permettere il suono delle campane per gli agonizzanti; di far trasportare i cadaveri colla possibile minore pubblicità; di allontanare l’animo dalle luttuose impressioni colle frequenti manovre militari, collo sparo del cannone, col frastuono dei tamburi, della banda, ecc.

Allontanare l’animo dalle luttuose impressioni: al di là dal terrore per quanto stava accadendo, il seguito ci dirà meglio che cosa intendeva Calderini con questa bella espressione. Infatti per quanto ne sappiamo, in una forma o nell’altra e sia pure fra diverse incertezze, fu lui il principale propalatore delle voci e delle leggende che circolarono a Cuneo. Le donne erano le più colpite dal colera a causa del

patema d’animo, di cui sono per la molta suscettibilità nervosa più fortemente comprese che gli uomini.

Dunque per Calderini le donne erano maggiormente soggette al colera, a causa della loro “impressionabilità”; e non solo, probabilmente erano state proprio loro, le donne disoneste, ad aver portato il morbo in città.

Quanto al conte Roberti – il primo ad aver formulato l’ipotesi delle contrabbandiere – era il governatore militare della piazza di Cuneo, Giuseppe Maria Roberti di Castelvero (1775-1844). Anche a Cuneo i militari svolgevano ruoli fondamentali per la pubblica salute: mantenevano i cordoni sanitari, provvedevano alla repressione dei disordini, controllavano il rispetto delle norme igieniche, le limitazioni dei movimenti e la sorveglianza dei funerali. Non sorprende che l’interrogatorio di individui oggetto di dicerie sul contagio fosse stato condotto di persona dal Roberti stesso, un uomo che pochi anni prima aveva ricoperto una carica elevatissima: quella di viceré di Sardegna, in sostanza governando l’isola, unita alla corona sabauda dal 1720, in vece di Carlo Alberto.

E ora, sempre dalla voce di Calderini, ecco il secondo racconto che ci colpito, quello delle sedici meretrici-infermiere.

Venne in questa città attivato un Lazzaretto in un’ottima situazione a levante. In mancanza d’infermieri, giacché ognuno fuggiva, il Cavaliere Conte Stroppi, zelantissimo direttore di quello Stabilimento, chiamò 16 prostitute a quell’uffizio, delle quali egli non cessava di lodarsi per la loro carità e premura, con che assistettero i malati.

Al conte “Stroppi” (come vedremo il nome era errato) la relazione di Calderini attribuiva anche il racconto di altre dicerie che circolavano in città – alcune più bislacche di altre:

Il sullodato Conte Stroppi, ed altre ragguardevoli persone di Cuneo, eccettuati i medici, lo dico per onore della verità, opinavano che si dovesse attribuire la comparsa di quel flagello, ora al dissotterramento di un vecchio cimitero, ora ad una pervertita condizione atmosferica, ora alla non maturanza ed abuso dei frutti.

C’era poi la storia esemplare di un medico che non credeva al contagio:

La città di Cuneo, fra le molte sue vittime, ebbe un medico, il dott. Ventre, il quale riguardava il cholera come essenzialmente epidemico: egli aveva assistito la dilettissima sua madre cholerica, e le aveva prestato ogni sorta di cura senza poter salvarla. Ben presto quel povero medico fu assalito anch’egli dal Cholera, e prima di morire, fece innanzi a’ suoi amici un atto di fede medica, ricredendosi dalla sua opinione, e promulgando il Cholera come contagioso (“contagioso” nel lessico medico del tempo era opposto a “epidemico”. La malattia epidemica era essenzialmente prodotta da condizioni sociali e morali in individui affini, N. d. A.).

A tutto ciò si aggiungevano osservazioni sul metodo di protezione adottato dagli Ebrei: un vino aromatico che li avrebbe largamente risparmiati, o almeno mantenuti nella fiducia che non sarebbero stati colpiti dal colera – fiducia “morale” che per Calderini, ancora in parte tributario dell’antica idea delle “impressioni” come motivo per le malattie, poteva essere una causa per il mancato attacco da parte del batterio!

Parimenti non tacerò come in un quartiere appartato, ma sicuramente non il migliore della città, ove vi hanno stanza alcune migliaja di Ebrei, (non risulta che a Cuneo vi sia mai stata una comunità ebraica di tali dimensioni, N. d. A.) il Cholera non abbia colpito che 10 o 12 di questi, e non ne abbia fatto che 5 o 6 vittime. Se gli Ebrei furono in tal modo risparmiati dalla terribile malattia, veniva attribuito all’uso, che fecero come preservativo di un vino aromatico composto di assenzio, di rabarbaro, di china, e di teriaca. Per lo meno la confidenza che i medesimi riponevano nel suddetto loro specifico, valeva moltissimo a tranquillizzare il loro morale, e a renderli così meno disposti al morbo. Vuolsi però aggiungere, come gli Ebrei durante l’epidemia cholerosa di Cuneo si siano tenuti isolati nella loro contrada, vivendo sobriamente, come è loro uso.

Nel frattempo, un proprietario terriero cuneese, Giuseppe Calcagno, suggeriva per iscritto ai decurioni di Genova, città colpita in modo davvero devastante dalla malattia, di usare un rimedio già adottato in Spagna: far passare per le strade greggi di pecore, come lui stesso aveva già fatto a Cuneo. Per ragioni di “simpatia”, il morbo sarebbe passato alle pecore. Calcagno racconta anche l’esito dell’operazione, dai tratti quasi magici: la mortalità – aveva constatato – era fortemente diminuita! (Archivio storico comunale di Genova, Amministrazione decurionale, busta 1225, lettera datata 25 agosto 1835).

Dopo quello di Calderini, nel 1837 il medico Domenico Meli pubblicò a Napoli un secondo lavoro di grande portata, ricco di dettagli e di fonti, intitolato Risultamenti degli studj fatti a Parigi sul cholèra-morbus, con appendice sull’itinerario del choléra fino al Regno di Napoli.

Nel secondo volume, alle pp. 30 e 43, ci sono dettagli importanti per noi:

Verso la fine di luglio […] si sparse la voce che il medesimo morbo si era palesato anche in Cuneo, e leggevasi poco stante nei pubblici fogli che sua Maestà aveva spedito il primo agosto in quella città il signor dottore Caffarelli, che noi conoscemmo in Parigi […] Ad esso però io m’indirizzai con lettera […] Scriveva non essersi potuto determinare né a Cuneo né a Nizza come il morbo si fosse nell’uno e nell’altro luogo introdotto; e non esser vere le voci corse sul conto de’ contrabandieri venuti da Tolone: aver cominciato in Cuneo nel quartiere più umido ed in meno stretta relazione colle provenienze dall’estero […]

Il fatto delle donne contrabbandiere che vendettero in piazza coperte di cholerosi asportate dalla Provenza, non si è potuto provare, non ostante che il conte Roberti governatore sottoponesse ad interrogatorio quelle donne. Ma si è provato che nella strada dov’esse abitavano, il 27 di luglio vidersi i primi casi di Choléra da nessuno controversi, e si ebbero in quello stesso giorno nove morti. Sparsasi la malattia in tutta la città, quivi pure in grazia dell’isolamento preservaronsi le carceri ed i monasteri. Si stabilì in Cuneo un lazzaretto pe’ cholérici sotto la direzione di un conte Stroppi; il quale non trovando infermieri i quali assistergli, ricorse a tal fine all’opera di 16 meretrici con ottimo effetto: due di queste soggiacquero al choléra. Vedi varietà di fortuna! Si chiamano le meretrici in Cuneo a soccorso de’ cholérosi: cacciavansi le meretrici fuor da Genova all’apparir del choléra (!!!)

Meno di due anni dopo Calderini, Meli spiegava che la voce delle “donne contrabbandiere” era soltanto una diceria; e, pur in apparenza senza metterla in discussione, sembrava invece sorpreso dalla questione delle “sedici meretrici”. Certo è che l’aneddoto ebbe fortuna: lo menzionò, ad esempio, anche il Giornale scientifico-letterario, n. 31 del gennaio-marzo 1836 (p. 16).

Abbiamo dunque una storia esemplare. Il reclutamento delle prostitute quali infermiere presso il lazzaretto è attribuito a un nobile assai popolare nella Cuneo del tempo, il conte Luigi Taricchi di Stroppo (1795?-1864) – questo il suo nome esatto – che era stato sindaco nel 1821 e nel 1834, cioè sino a pochi mesi prima dell’esplodere dell’epidemia. Suo padre era direttore delle carceri, e anche lui ebbe un ruolo importante nelle misure di isolamento dall’esterno delle prigioni – cosa che a quanto pare valse la salvezza a gran parte delle guardie e dei detenuti.

La storia delle “coperte dei contrabbandieri” comunque, a giudicare dalle fonti doveva essere la più popolare. Si noti un particolare: per Calderini erano state delle donne a portare il morbo in città; in altre versioni si tratta di uomini. E bisogna registrare una curiosa coincidenza: le fonti che menzionano l’origine femminile dell’epidemia sono in genere le più propense a menzionare anche la storia delle sedici meretrici soccorritrici; quasi che fossero un “contraltare salvifico” all’introduzione del colera. Ne è un esempio, fra gli altri scritti, la minuta relazione sul morbo nel cuneese scritta da un medico di Ivrea, Francesco Bertinatti (1803-1840), ossia la Memoria intorno alla contagiosità del cholera asiatico, datata 11 ottobre 1835

Le voci però, scriveva sempre Bertinatti, erano anche di altro genere, ossia quelle di cui aveva già parlato Calderini: il “dissotterramento di un vecchio cimiterio”, la pervertita condizione dell’atmosfera”, “l’abuso di frutti immaturi”. Poi c’era, di nuovo, il caso della morte del retrogrado medico Ventre.

Del resto, già il 24 agosto 1835 la Gazzetta Piemontese aveva fornito una descrizione dettagliatissima dello stato delle cose nella “infelice città di Cuneo”. Molti medici, ufficiali, funzionari, religiosi, erano lodati per la loro opera e per essersi adoperati per mantenere l’ordine. Altri invece erano biasimati, e alcuni (medici compresi) erano stati destituiti dai loro incarichi. Sebbene nel testo non si parlasse in alcun modo di voci e di dicerie, il senso generale della cronaca era tutto improntato alla necessità di conservare il controllo sociale – in primo luogo mantenendo il flusso delle informazioni e delle notizie nell’ambito della realtà. Il caos cognitivo, la contraddittorietà delle voci, anche stavolta preoccupava parecchio.

L’approccio empirico, che intendeva sia far tacere le voci più improbabili sulla malattia, sia far passare in secondo piano le controversie fra medici sulla natura della propagazione del morbo, è al centro di un altro lavoro importante, quello del medico torinese Venceslao Rolando (1805-1838). Giunto a Cuneo il 9 agosto 1835, dunque al culmine dell’epidemia, Rolando era cosciente che presentando in dettaglio numeri, evoluzione della malattia e forza/debolezza delle misure intraprese avrebbe contribuito a portare chiarezza anche nel pubblico, non solo fra gli eruditi e fra i suoi colleghi. Questo farà nel Rendiconto delle cose vedute ed operate nell’ospedale provvisorio dei Cholerosi di Cuneo, pubblicato con grande tempestività nel settembre del 1835.

Parecchi anni dopo, nel 1854, un altro medico illustre, Francesco Freschi (1808-1859), docente di igiene presso la Facoltà di medicina all’Università di Genova, pubblicava la sua Storia documentata della epidemia di cholera-morbus in Genova nel 1854. Lo faceva in occasione di una nuova, terribile epidemia in corso in Italia, all’interno della quale poteva ormai irridere i racconti del 1835 sulle “coperte infettive” (p. 119), così come la fonte principale su di esse, la relazione di Carlo Calderini.

A Cuneo poi si vorrebbe che la malattia “fosse stata colà portata per mezzo di alcune coperte di lana che diverse donne contrabbandiere vennero a vendere nascostamente sulla piazza di Cuneo” (v. Calderini, op. cit.). E si noti che l’ottimo dott. Calderini che abbiamo sempre stimato per eccellente osservatore, e la cui recente perdita fu da tutti compianta era istruito di questa voce niente meno che dallo stesso governatore di Cuneo conte Roberti, e ne udiva la conferma da non pochi cuneesi! Ma poca critica ci vuole a comprendere la improbabilità di questa storiella, di donne cioè contrabbandiere, non si sa se francesi, o piemontesi, andate in Provenza, o da lì venute a vendere delle coperte di lana nascostamente sulla piazza di Cuneo!

Se consultiamo invece il Bonino nell’opera citata [il riferimento è a un lavoro del medico Gian Giacomo Bonino sull’epidemia del 1854 a Torino, N. d. A.], troviamo che invece che essere donne contrabbandiere, erano stati uomini, cioè “alcuni muratori ed altri operai, i quali avevano fatto uso di coperte da letto di lana venute per contrabbando dal lazzaretto dei forzati cholerosi di Tolone” (op. cit., p. 625). Ora dalla differenza dei racconti si desume già un argomento per dubitare della loro veracità. D’altronde questo smaltimento o vendita che si sarebbe fatta delle coperte dei forzati di Tolone, non si sa tanto facilmente comprendere. E chi può assicurare che il fatto fosse realmente quale si narra? Chi se ne è accertato? Nessuno. Si è detto, e ripetuto, e ciò basta.

Per quanto è possibile dire, almeno stando ai Cenni storici sul colera asiatico che l’avvocato e igienista Ottavio Andreucci pubblicò a Firenze nel 1855 (pp. 96-98), l’annuncio pubblico dell’esplosione del morbo fu fatta con grande ritardo. Nonostante il primo caso del morbo a Cuneo fosse stato accertato già l’8 luglio, la notizia venne data solo il 29 del mese, quando ormai le normali precauzioni igieniche e di isolamento dei contagiati avrebbero potuto ben poco. Da lì in poi i casi crebbero a dismisura, senza “coperte”, “frutti immaturi”, “dissotterramenti di cimiteri” e – ahinoi – malgrado il “vino degli ebrei”, le “meretrici misericordiose” o altro.

Andreucci conferma che la voce circolante era davvero quella delle contrabbandiere di coperte, ma che, in ultima analisi, “ciò non fu provato a onta di accuratissime investigazioni”. Le donne, però, qualche stigma lo conservavano: era proprio nella contrada di Cuneo in cui abitavano quelle donne chiacchierate che si erano avuti i primi casi certi, e, lo stesso giorno, nove morti.

Per Domenico Meli in realtà la causa del contagio era il rientro da Marsiglia a Cuneo, loro città, di alcuni facchini, uno dei quali morì; ma Andreucci si preoccupava di confermare, fedele alla misoginia allora prevalente, che

Le donne andarono in Cuneo, come in tutto il Piemonte, più soggette a mortalità, del qual fatto il Calderini crede rendere ragione coll’osservare che le donne dotate di una suscettibilità maggiore degli uomini soglionsi lasciare sorprendere vieppiù dalla paura e dal timore.

Al contrario di Francesco Freschi, vent’anni dopo l’epidemia Andreucci (che comunque medico non era) oscillava ancora fra considerazioni irrazionali e tentativi di allontanare voci e credenze sulla propagazione della malattia. Era consapevole della portata e del danno che producevano quelle leggende tetre, ma non aveva ancora strumenti sufficienti per spiegare la natura della malattia e mezzi con cui batterla. Menzionava di nuovo in toni sconfortati Calderini (i funerali da svolgersi senza formalità e le manovre militari come mezzo principale per confortare gli animi gli risultavano sciocchezze inutili), ma è chiaro che per lui lo sconcerto per l’impossibilità di evitare il caos e le dicerie prevalevano su tutto il resto, anche sulle misure sanitarie in senso stretto.

Non c’è da biasimarlo. Secondo Calderini, nell’epidemia del luglio-settembre 1835 Cuneo aveva avuto 1500 contagiati (su una popolazione che al tempo era di circa 17.000 abitanti). Di questi, circa mille i deceduti. Una vera ecatombe, che aveva raggiunto l’acme fra il 18 ed il 20 agosto, quando in 72 ore c’erano stati 200 morti. Per Domenico Meli, invece, i contagiati sarebbero stati 1123, con 425 morti – cosa che comunque corrisponde al 2,57% degli abitanti della città. L’epidemia sarebbe infine declinata intorno all’11 di settembre, dopo circa un mese e mezzo dal suo esordio.

Dopo il 1835 ci vorranno ancora decenni per comprendere la vera origine del colera. Il batterio responsabile, il gram-negativo Vibrio cholerae, sarà scoperto da Filippo Pacini durante la nuova, virulenta epidemia italiana, quella del 1854-55, ma l’analisi dettagliata dell’agente responsabile giungerà solo trent’anni dopo grazie al padre della batteriologia, il tedesco Robert Koch. A fine XIX secolo, dopo settant’anni di flagelli subiti da buona parte dell’Europa, furono le migliorate condizioni igieniche e la costruzione di una rete moderna delle acque nere a far retrocedere la malattia nelle grandi città.

Prima di allora, il “mostro asiatico” – come lo si chiamava all’epoca – aveva generato innumerevoli morti, ma anche un numero infinito di voci e di recriminazioni più o meno fantasiose. Le convinzioni diffuse a Cuneo nell’estate del 1835 ne sono solo un esempio, ma si potrebbe discutere a lungo delle voci che corsero in altre parti del Piemonte, in primo luogo a Torino città. Un giorno, forse, ne riparleremo.

Immagine: Il colera a Palermo nel 1835, litografia, da Wikimedia Commons, pubblico dominio