1982: La bestia di Rosta
Giandujotto scettico n° 59 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (12/03/2020)
Siamo abituati a pensare che Yeti e Bigfoot siano faccende lontane, strani esseri che vivono tra le nevi del Nepal o nelle foreste del Nord America. E invece no. Creature simili si trovano, tra le pieghe della cronaca, anche nei boschi nostrani. Un esempio è il caso della bestia di Rosta (Torino), in val Susa che si guadagnò l’onore delle cronache agli inizi del 1982. “C’è lo yeti nei boschi di Rosta?”, titolava infatti il 25 gennaio La Stampa.
Gli indizi c’erano tutti. All’improvviso gli abitanti del luogo si erano trovati davanti strane tracce nella neve e, cosa ancor più inquietante, sugli alberi: una cinquantina di piante – riferiva il giornale – erano state ritrovate “scortecciate e graffiate”. A notare il fenomeno era stato per primo un pensionato che aveva commentato:
“Per fare tanti danni alle piante ne deve avere di forza, quella bestia!”
Un cinghiale non poteva essere, perché i segni sugli alberi arrivavano a un’altezza di un metro e mezzo, e poi le orme sembravano indicare che la bestia si muoveva in posizione eretta. E allora, che cos’era? Lo stesso giorno, su Stampa Sera usciva un aggiornamento: il misterioso divoratore di corteccia poteva essere un orso. Ma le ipotesi variavano dall’identificazione con un lupo, un tasso, un cane inselvatichito o un grosso erbivoro (cervo o camoscio). Sicuramente però la Bestia non si faceva notare se non per i tronchi rosicchiati e gli alberi spezzati.
Passò qualche giorno, mentre le voci si rincorrevano sempre più serrate. Un uomo, sceso nel cortile per l’abbaiare dei cani raccontò di aver avvistato un “mostro nero” fuggire per i prati. Il 27 si presentarono sul posto due naturalisti, il veterinario Vittorio Pieraccino del Parco del Gran Paradiso e Piergiorgio Candela, agente zoofilo dell’Enpa. I due esclusero l’ipotesi del cinghiale per la mancanza dei tipici scavi, e quella dell’orso – di cui non c’erano tracce in zona da troppi anni. Rimanevano la possibilità del cane e quella del burlone.
In particolare è su quest’ultima che puntò il dito Piergiorgio Candela:
Qualcuno sta cercando di alimentare la paura fra la gente, perché su alcuni tronchi abbiamo trovato chiare tracce di accetta: c’è dunque chi abbatte apposta gli arbusti per simulare il passaggio di chissà quale creatura. Stiamo vagliando l’opportunità di denunciare il responsabile.
Ma lo yeti torinese non finì in manette: forse impaurito dalle minacce legali scomparve velocemente così come era venuto, e in pochi giorni l’eco della notizia si affievolì. Però, con il passar del tempo accadde una cosa forse ancora più interessante del breve racconto delle voci girate in val Susa. La “Bestia di Rosta” uscì dalle cronache per entrare nella leggenda, finendo per essere identificata con la figura dell’Uomo selvatico: una creatura mitica che, si dice, vivrebbe nei boschi del Nord Italia, ai limiti della società.
La credenza nell’Uomo selvatico era diffusa anche in Piemonte: l’Urciat, nel Biellese, la raffigurazione rupestre definita nel folklore “Il Maometto”, che si trova a Borgone Susa, a venti chilometri da Rosta, l’Om Salvaj nel Canavese, il Sarvage alle Valli Valdesi della provincia di Torino…
Se ne occupò a lungo, in un libro oggi difficile da trovare, Il sapiente del bosco (Xenia edizioni, 1989), l’antropologo Massimo Centini.
Uno yeti italiano che, nel folklore dell’arco alpino, viene rappresentato come un uomo armato di clava e coperto di peli e che a seconda della storia può essere un orco cattivo sempre in cerca di vittime, oppure un essere buono e benevolo, pronto a insegnare ai nostri progenitori i principi dell’apicoltura e della fabbricazione del formaggio. In una versione della leggenda, poi, quello che per certi versi anticipava il mito antropologico del “buon selvaggio” sarebbe stato deriso dagli uomini, che lo avrebbero indotto a scappare con scherzi violenti prima che svelasse il suo ultimo segreto: l’oscura tecnica che permetterebbe di ricavare la cera dal siero del latte. Da allora l’uomo selvatico sarebbe fuggito per sempre concedendosi solo contatti furtivi – come quello segnalato, quale folklore vivente, a Rosta nel 1982.
Una storia, quella di oggi, che, nonostante l’ipotesi di uno scherzo fugace rimanga quella plausibile, compare ancora in alcuni libri dedicati agli yeti nostrani. Perché in fondo in fondo le foreste del Nord America o dell’Asia centrale o del cuore dell’Africa non hanno nulla da invidiare alle nostre, uomini-scimmia compresi, sia in versioni classiche quelle da folklore delle baite d’altura – sia in quelle più vicine alla contemporaneità e ai miti del XXI secolo.