Covid-19 e genetica delle popolazioni: intervista a Guido Barbujani
Intervista di Maria Pia Viscomi
Tra le tante voci che circolano sul virus SARS-CoV-2, una delle più diffuse è quella che le popolazioni africane siano meno propense a contrarre la malattia. Sono state formulate varie ipotesi, tra le quali l’età media più bassa, una precedente vaccinazione alla tubercolosi e una causa genetica. Su quest’ultima ipotesi abbiamo pensato di chiedere il parere di Guido Barbujani, genetista delle popolazioni e professore ordinario presso l’Università di Ferrara, nonché socio onorario del CICAP.
Cominciamo dalla premessa di questa ipotesi: è scientificamente fondato parlare di popolazione africana come un blocco omogeneo dal punto di vista genetico, o specularmente di noi europei come caucasici?
No, e lo sappiamo da decenni. Non ci sono blocchi geneticamente omogenei di individui nella specie umana. Per capirci: milioni di basi del DNA sono identiche in tutti i cani della stessa razza e diversi da quelli di altre razze; nell’uomo non conosciamo una singola basa del DNA identica in tutti i membri di una popolazione e differente in tutti i membri di un’altra popolazione. L’Africa, poi, è il continente in cui la diversità genetica è massima: fra i genomi di due africani presi a caso ci sono differenze più grandi che fra due persone di continenti diversi. Insomma: abbiamo bisogno di nomi per definire le cose, e quindi va bene parlare di africani e europei (o afghani, messicani, eschimesi, parigini, perugini…), ma è ora di smettere di credere che a questi nomi corrispondano gruppi genetici distinti.
È circolata anche la voce che negli Stati Uniti siano gli afroamericani ad ammalarsi di più della malattia. In base alle conoscenze disponibili, è realistica l’ipotesi che sia una componente genetica significativa a provocare differenti reazioni dei vari pazienti al coronavirus? Oppure le cause vanno ricercate nei fattori ambientali?
In base alle conoscenze disponibili è possibile quasi tutto, purtroppo. L’infezione da SARS-CoV-2 è complicatissima da studiare, perché la sua diffusione e la gravità dei suoi sintomi dipendono da tanti fattori diversi: biologici (possibili differenze fra ceppi virali, e, appunto, fra popolazioni umane), sociali (dimensioni dei nuclei famigliari, e in generale la rete di rapporti che lega fra loro i membri delle comunità), socio-sanitari (percentuale di persone che non dispongono di copertura sanitaria, rigore delle misure di isolamento sociale) e ambientali (presenza di inquinanti nell’ambiente). Tutti questi fattori sono connessi fra loro, ci confondono le idee, e districarli si è rivelato molto problematico. Detto questo, e da non esperto, la mia sensazione è che questo sia un virus classista, che colpisce più duro dove più deboli sono le reti di protezione sociale e sanitaria: per esempio, in America fra gli afroamericani, e in Europa nei centri per anziani.
Sono state citate anche le proteine ACE2 e TMPRSS2 per l’adesione del virus alle cellule umane e il fattore H del sistema immunitario. Le popolazioni africane avrebbero delle varianti nei geni che codificano per tali proteine in grado di proteggerli dall’attacco del virus. Qual è lo stato dell’arte nella ricerca di tali varianti? Ci sono stati altri casi storico-clinici in cui effettivamente varianti genetiche hanno protetto da una patologia una popolazione meglio di un’altra?
La ricerca su queste due proteine, e sui geni che le codificano, è fra le più promettenti. Per quanto ne so io (c’è un articolo di quest’anno di un gruppo cinese, Yanan Cao e altri, su Cell Discovery 6:11), conosciamo molte varianti di ACE2, e ci sono differenze nella loro distribuzione nei diversi continenti. Però ancora non si è capito se alcune di queste varianti forniscano protezione e altre aumentino il rischio di infezione. Sfortunatamente, ogni paese raccoglie i dati a modo suo, e mettendo insieme dati eterogenei si combinano inevitabilmente pasticci. E sì, ci sono parecchi esempi di varianti di geni che proteggono da malattie. Il caso classico è quello delle emoglobinopatie, come l’anemia mediterranea, i cui portatori, i microcitemici (frequenti in Sardegna, nel delta del Po, a Cipro, in Nepal…), sono meno propensi ad ammalarsi di malaria. Oppure un gene chiamato CCR5, la cui mutazione CCR5-delta 32 è protettiva nei confronti dell’HIV, il vettore dell’AIDS: questa mutazione è più frequente nel nord che nel sud dell’Europa.
Qual è l’approccio più corretto dal punto di vista genetico per esaminare le differenti reazioni alle malattie? Su quali aspetti puntano attualmente la ricerca scientifica e la medicina personalizzata?
L’idea di base è semplice: una volta sgombrato il campo da tutti gli altri fattori, individuare nei soggetti colpiti dal virus, ma asintomatici, le varianti genetiche che li differenziano dagli individui che invece hanno sviluppato sintomi gravi. Se avessimo il catalogo delle caratteristiche genetiche che predispongono a infezioni gravi potremmo individuare precocemente le persone a rischio, e sottoporle a misure particolari di protezione (almeno finché non ci sarà un vaccino). Il problema, al momento irrisolto, è proprio sgombrare il campo dai tanti fattori che confondono le analisi, come una diversa virulenza di diversi ceppi virali, l’effetto della struttura sociale, dei servizi sanitari e dei fattori ambientali, e la mancanza di uno standard condiviso nella raccolta dei dati.