Misteri vintage

La curiosa leggenda delle pecore dai denti d’oro

Articolo di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo

Sembra che la domesticazione della pecora (Ovis aries) sia stato un processo lunghissimo, iniziato nel Vicino Oriente intorno al 9000 a. C. per la carne, e seguito millenni dopo dall’utilizzo per lana, latte e derivati da esso. Una fortuna, per la storia dell’umanità. Simboli e metafore su questo animale sono innumerevoli. Una delle  maggiori religioni al mondo ha al centro il ruolo speciale rivestito da un piccolo di pecora, l’agnello. 

La pecora ci dà di tutto: latte, carne, vello, da tempo immemore. Dunque, anche ricchezza, reddito, commercio. Ma che alcune sue parti potessero valere oro, nel senso più diretto del termine, beh è un’altra faccenda. 

Eppure, questa è la leggenda che si racconta da almeno seicento anni – ma sospettiamo che arrivi chissà da quale tempo remoto. 

La leggenda delle pecore dai denti d’oro.

Le testimonianze più antiche la collocano nell’area mediterranea già verso la fine del Basso Medioevo. Nel 1415 il cartografo e monaco toscano Cristoforo Buondelmonti (1386-1430 ca.), in uno dei suoi viaggi, visitò a lungo Creta, e due anni dopo redasse una Descriptio insulae Cretae che indirizzò al letterato fiorentino Niccolò Niccoli. Fra le altre cose, voleva accertarsi della realtà di una storia che aveva udito: quella per le quali le pecore dell’altipiano di Nida avevano i denti d’oro. Nel testo (che non siamo riusciti a leggere direttamente), Buondelmonti spiegava di non averle viste di persona, ma riportava l’opinione dei locali: intorno al paesino di Psiloritis, sul monte Ida, cresceva un’erba che trasformava i loro denti in oro. Ancora oggi, pur se razionalizzata, la convinzione degli allevatori del posto è che, anche in mancanza d’oro, si verifichi sul serio una decolorazione della dentatura, dovuta all’ingestione prolungata di un’erba localmente nota come nevrida (nome scientifico Polygonum idaeum), che in sostanza cresce soltanto nella zona cretese del monte Ida.

Dunque, ai primi del XV secolo, Buondelmonti aderiva alla credenza locale che i denti d’oro ci fossero davvero, e che la causa della loro trasformazione fosse di tipo alimentare: era merito dell’erba. La fiducia nelle erbe portentose del monte Ida prospererà a lungo: la si trova ancora nel 1755 come fatto certo nel volume Creta sacra, pubblicato a Venezia dallo storico Flaminio Corner (1693-1778).

Una cosa interessante della storia delle pecore di Creta, che è la più antica che conosciamo, è pure il legame che essa possiede con un racconto che localizza in un’altra grande isola – ma stavolta italiana – la presenza di animali da latte dai denti d’oro. Usiamo il termine generico “animali da latte”, perché nel caso del nostro Paese non si trattava di pecore, ma di capre. È una storia a parte, quella delle capre dell’isola sarda di Tavolara, su cui magari torneremo in futuro. Qui ne facciamo soltanto un cenno: per le fonti ottocentesche che ne parlavano, le “nostre” capre dai denti d’oro avevano parenti strette a Cefalonia, nello Ionio greco. 

Dunque, sappiamo che il motivo degli animali dai denti d’oro era molto vivo nel folklore di alcune zone insulari del Mediterraneo centrale. In realtà, lo si ritrova anche in aree culturali diverse dalla nostra: quelle della Gran Bretagna e degli altri Paesi di lingua inglese. Qui queste leggende sembrano essere sopravvissute sino alla modernità e, come vedremo, sono passate al folklore minerario e zootecnico di quei Paesi. 

Anche in quei luoghi, comunque, giungono senz’altro da un passato remoto. Lo storico e filosofo scozzese Hector Boece (1483-1536) nel 1527 completò la sua Historia Gentis Scotorum, tanto imprecisa quanto letterariamente influente. Nella parte iniziale quell’opera contiene parecchie digressioni etnologiche e geografiche e, fra gli altri, questo passaggio:

A Gareoth [Garioch, presso Aberdeen] c’è una collina detta Doundore, che chiamano la collina dorata. Le pecore che pascolano su quella collina sono gialle come oro, le loro carni rosse come se fossero stato messe nello zafferano, e anche la loro lana è simile. 

Ora, se preso in senso stretto, Boece non asseriva che i denti delle pecore fossero d’oro: anzi, legava l’intera colorazione di quegli animali al fatto che le pecore pascessero in una zona specifica. Ma lo schema da lui offerto è troppo simile al racconto ascoltato a Creta da Buondelmonti novant’anni prima, perché possa considerarsi qualcosa di radicalmente differente

Sta di fatto che Boece fu menzionato assai a lungo nel mondo anglofono quale fonte della nostra leggenda, anche se di solito per prenderne le distanze: per naturalisti e studiosi del passato britannico, infatti, assurse ad esempio degli errori in cui gli antichi potevano cadere. 

Ma è con l’avvento del diciottesimo secolo che la storia naturale andrà in cerca delle prove. Già nel dicembre 1785, ad esempio, l’ornitologo inglese Marmaduke Tunstall, scrisse una lettera al naturalista Joseph Banks, a cui unì un pacchetto contenente denti di pecora e di agnello con strane incrostazioni. A suo parere, erano proprio cose come quelle ad aver fatto sorgere la leggenda. Tunstall spiegava anche di aver ricevuto alcuni denti di vitello da uno scozzese, perché li esaminasse per capire quale materiale li ricopriva, ma che ancora non aveva avuto tempo per farlo. 

Terre di allevatori come la Scozia erano il contesto naturale in cui proseguire quei racconti. Già qualche anno prima di Tunstall, nel 1776, nel volume della serie British Zoology dedicata ai quadrupedi, il naturalista Thomas Pennant aveva ricordato che, sulla scorta di Boece, il medico scozzese Robert Sibbald (1641-1722) citava le pecore scozzese dai denti d’oro, ma riconducendo il tutto all’originaria credulità di Boece. E impiegava la sua prospettiva, quella del naturalista, per dare una spiegazione plausibile all’origine della leggenda (ma trascurando, così, del tutto il fondo “mitico” della storia). Per “salvare” in qualche modo la storia, Pennant spiegava che – certo – di pecore dai denti d’oro non ne aveva mai viste; però gli era capitata la mandibola di un bue ad Atholl, ancora in Scozia, che aveva i denti incrostati di pirite: lo stesso forse poteva essere successo agli ovini… Così, attraverso Pennant, assai letto in Gran Bretagna (un esempio), il racconto che si perpetuava almeno dalla prima metà del Cinquecento sopravvisse attraverso l’intero XIX secolo. 

Fu grazie a questa continuità che nella prima metà del Ventesimo secolo le nostre pecore divennero note in tutti i Paesi anglofoni. La circolazione della stampa di massa fu fondamentale per ammodernare la lunga serie di leggende più antiche: i miti antichi, diffusi per lo più tra la popolazione colta, arrivarono al vasto pubblico attraverso le cronache dei giornali, che ne mutarono lunghezza, protagonisti e linguaggi – almeno finché la cultura industriale non trasformò i discorsi intorno agli animali da reddito in questioni altamente tecniche riguardanti la produzione efficiente di cibo a basso costo per tutti, attenuandone la rilevanza folklorica.

Ma la prevalenza della cultura di massa nella loro circolazione significava anche altro, per questo genere di storie: la possibilità che fossero rapidamente soggette, da parte di testate concorrenti o apertamente rivali, a smentite, verifiche, attacchi impietosi, messe in ridicolo.

Uno schema del genere si può intravedere nella prima grande storie di denti d’oro del ventesimo secolo, che esplose in Inghilterra nell’estate del 1904. Nella prima decade di agosto, il quotidiano londinese Daily Mail dava per scontato che in Australia e in Nuova Zelanda si nutrissero le pecore con erbe di “pascoli auriferi”, tanto che alla lunga nei loro denti si trovavano tracce evidenti del metallo. La scoperta – si diceva – era stata fatta a Londra, nell’East End, e in particolare nella zona di Bethnal Green

Come era successo? Giorni prima, un medico, il dottor R. G. Style, era stato in visita a un consigliere della municipalità di Bethnal Green, e aveva notato la mandibola di una pecora ben ripulita dal cane di casa, dopo che la testa era servita da cena al padrone la sera prima. I denti sembrano lampeggiare di un luccichìo metallico: era una testa di pecora congelata importata dall’Australia. Se l’era portata a casa, aveva cavato i denti, li aveva ripuliti con acido nitrico e aveva visto che… erano ricoperti d’oro! Un gioielliere gli aveva confermato che si trattava proprio di oro purissimo. Un gruppo di periti della ditta Johnson, Messey & Co. aveva certificato la cosa, anche se per conto loro le tracce erano minime. 

La voce si era sparsa fra i macellai di Bethnal Green e da qui nelle zone adiacenti (Old Ford, Hackney, Victoria Park, Shoreditch) con conseguente corsa di tutti all’acquisto delle peraltro poco apprezzate teste di pecora. Il bello era, scriveva il Daily Mail, che altre teste di pecora, ma di provenienza inglese o scozzese, non mostravano invece nulla di insolito. 

William Tyler, il proprietario di un ristorante della zona, il Wellington Inn, interrogato dal Mail, aveva asserito che pure lui e i suoi familiari, da un anno a questa parte, avevano notato depositi metallici scuri, sporchi, o bronzei nei denti delle pecore macellate,

Un esperto australiano di questioni minerarie, invece, pensava si potesse trattare di una decolorazione dovuta a sabbie depositate negli interstizi dentali degli animali – un po’ come se avessero avuto frammenti madreperlacei nella dentatura. 

Il 22 settembre il quotidiano neozelandese Press reagì ridendo apertamente della storia: non gli risultava che da quelle latitudini australi teste di pecora fossero portate sino alla madrepatria inglese. Al mercato delle carni di Smithfield, a Londra (dove stando al Daily Mail era stata comprata dal macellaio la pecora “preziosa”), nessuno aveva mai visto pecore congelate provenienti da così lontano, e tanto meno teste ovine dall’altrettanto remota Australia. 

Il 12 agosto, peraltro, dopo l’uscita clamorosa del Daily Mail, già un altro giornale londinese, il Financial News, aveva spiegato in toni assolutamente British che non era la prima volta che giravano storielle di quel tipo:

Si tratta soltanto di una risciacquatura di queste notizie sensazionalistiche. Tempo fa una persona si era presentata agli uffici del Financial News con due teste di pecora e, indicando un deposito iridescente sui denti, aveva sostenuto che se dei periti le avessero esaminate, vi avrebbero scoperto dell’oro. Aveva chiesto di essere introdotta a qualche finanziatore che avrebbe potuto far suo l’affare, ma siccome non conoscevamo nessuno che nel nostro giro avrebbe desiderato esser associato a una simile impresa da asini (with such a wild-cat, or wild-sheep, enterprise), non fummo in grado di aiutarla. Si direbbe che ora abbia scelto di favorire con le sue visite e con le sue scoperte qualcun altro fra i nostri contemporanei. 

A quanto s’intuisce da altri cenni sulla stampa del tempo, la storia delle pecore di Bethnal Green fu sonoramente sbeffeggiata. Un’analisi più accurata della questione fu condotta invece in Australia poco tempo dopo. Il  4 dicembre del 1904 un altro giornale neozelandese, il Marlborough Times, spiegava infatti che a Bendigo il dottor H. C. Boydell, docente dell’Istituto minerario, aveva studiato certi depositi sulla dentatura di alcune pecore, simili nell’aspetto a metallo: erano fatti di fosfato di magnesio con tracce di ferro e di sostanze organiche. Tartaro, né più né meno, la cui sembianza metallica era data in larga misura dal movimento di frizione della ruminazione durante i pasti. 

In questo modo – sorrideva il Marlborough Times – la paura britannica di buttar via con le teste di pecora la loro parte più preziosa poteva dirsi risolta!

In realtà, la storia inglese del 1904 e le sue smentite furono soltanto l’innesco di un lungo ciclo di annunci anche più clamorosi. 

Il 18 gennaio del 1906 un imprenditore di Seattle, L. D. Dillman, che si occupava di ricerche minerarie nel nord-ovest degli Stati Uniti, aveva annunciato di aver ucciso una pecora selvatica sul monte Wrangell, in Alaska, e di aver così scoperto che i denti dell’animale erano perfettamente ricoperti di oro perfettamente levigato e di rame! Doveva averli assorbiti con le acque aurifere di quella zona! C’è bisogno di dirlo, a questo punto? Anche stavolta periti minerari e dentisti spergiuravano trattarsi di depositi assolutamente autentici di quelle sostanze, che i denti erano in ottime condizioni, e così via. 

Il fatto che ad aver ucciso la pecora dai denti d’oro (e di rame) fosse stato proprio un esperto di quelle sostanze e della loro manipolazione (le miniere di rame abbondavano intorno a monte Wrangell, dove Dillman lavorava) non sembrava suscitare nessun sospetto. Non sappiamo, ahinoi, che fine abbia fatto la speranza più grande di Dillman: quella di riuscire a inviare un pezzo della mandibola al presidente americano del tempo, Theodore Roosevelt, a Washington… (Yorkville Enquirer, Carolina del Sud, 19 gennaio 1906; The Seattle Star, 10 febbraio 1906). 

Una vicenda simile accadde a fine maggio 1906 anche a un australiano di Garfield, il signor G. Archer, commerciante di bestiame che aveva portato la mandibola di una pecora agli uffici dell’Argus di Melbourne: l’ennesimo gioielliere gli aveva assicurato che i denti erano ricoperti del metallo prezioso (Evening Star, Nuova Zelanda, 2 giugno 1906). 

Nel settembre del 1912 fu la volta di un alto funzionario statale del Colorado, il maggiore James B. Thompson, il quale asserì con una certa sicurezza che le pecore di montagna presentavano sovente quelle peculiarità, ma che stranamente finora in pochissimi, oltre a lui, sembravano averla notata (The Canyon City Record, Denver, 3 ottobre 1912). Il 22 maggio dell’anno successivo un periodico del Tennesse, Mrs Grundy, annunciava invece che parecchie pecore le cui carcasse erano state acquistate presso un macellaio di Aberdeen, in Scozia e dalle cui teste era stato ricavato del brodo, avevano – e un gioielliere anche stavolta confermava – denti d’oro! 

Nel 1915 – lo schema della “scoperta a tavola” della pecora meravigliosa ricorre con una certa frequenza – fu invece il turno di due coniugi di Swan Hill, in Australia, che si erano ritrovati a pranzo la testa bollita con denti preziosi (The Forbes Advocate, Australia, 23 aprile 1915); la storia si ripetè nel 1933 a Ballance, a Te Aroha e a Mercury Bay, in Nuova Zelanda, sempre associata alla “spiegazione” dei pascoli irrigati dalle acque aurifere (Waihi Daily Telegraph, Nuova Zelanda, 21 febbraio e 4 marzo 1933).

Sia chiaro, non è che i toni fossero sempre così ben disposti. Il clima stava mutando in modo irreversibile. Su Nature  del 9 giugno 1921 (n. 2693, p. 45), W. J. Lewis Abbott scriveva che nella prima parte della Prima Guerra Mondiale, in occasione dei controlli per la macellazione delle pecore, aveva osservato sulla dentizione di diverse bestie che pascolavano presso le paludi di Rye (East Sussex inglese) depositi di tartaro giallo-brillante, che nell’aspetto gli ricordavano le piriti. Si domandava se qualche museo fosse interessato ad analizzarle, ma non si azzardava nemmeno più a pensare che i depositi di tartaro fossero… d’oro. 

La questione comunque era ancora degna di attenzione, ma i controlli di laboratorio stavano assestando colpi micidiali ai racconti sui “materiali brillanti confermati dai gioiellieri”. Nel 1929 il Journal of Chemical Education (vol. 6, n. 3, p. 465) in una breve nota riferiva i risultati delle analisi effettuate su una mandibola di una pecora proveniente dai distretti minerari scozzesi, che sembrava avere denti dall’aspetto d’oro. Sottoposta ad esame da parte di un chimico di un ufficio pubblico, si era rivelata contenere soltanto tracce di piombo: l’aspetto scintillante era dovuto a strutture cristalline laminate, a scaglie, formate soprattutto da fosfato di calcio.

Alcuni minatori inglesi in quegli anni si tramandavano ancora la storia delle pecore dai denti d’oro, ma con divertimento. Il 25 marzo del 1936 il neozelandese Bay of Plenty Times parlava della riapertura delle antiche miniere d’oro di Pumsaint, nel Carmarthenshire (Galles). Il giornalista che le aveva visitate scriveva che quelli che ci lavoravano sembravano come “delle falene nelle viscere della terra”.

Risate nelle gallerie […] Uno scavatore burlone ha raccontato una storia. “Un macellaio giù a Swansea di solito comprava pecore che brucavano sui terreni intorno alla miniera”, ha detto. “Ne ha bollito le teste e in fondo alla pentola ha trovato frammenti d’oro. I denti delle pecore erano ripieni d’oro”. Risate nelle gallerie. Le più strane risate che abbia mai sentito. 

Prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, in Gran Bretagna comparve ancora una variante della storia molto interessante: una donna di Cardiff, sempre nel Galles, spolpando il suo stufato di testa di pecora si era accorta che sui denti inferiori della bestia c’era uno strato d’oro. Il macellaio le aveva detto che le sue bestie brucavano sui terreni da golf di Llanishen, e le aveva suggerito che forse qualcuno aveva perso un anello d’oro, e che poi – non si capisce come – il metallo si fosse fissato sulla dentatura (Evening Star, Washington, 7 dicembre 1938). Una variante che esalta il carattere folklorico della storia: mescola le pecore dai denti dorati ai racconti  – di origine antichissima – sugli anelli recuperati nel ventre dei pesci, una lunghissima vicenda di cui avevamo detto qualcosa qui.

L’ultimo guizzo è del 1950. Il 25-26 febbraio, sul Corriere d’informazione (edizione “Ultima della notte”),  lo schema si ripete, ormai stereotipato. James Keller, un uomo di Portland, nel Nuovo Galles del Sud, in Australia, compra due teste di pecora dal macellaio. Al momento di bollirle per il brodo, vede i denti brillanti: sembrano d’oro. Corre dal macellaio, se le fa vendere tutte. L’attenzione, in questo caso, è tutta rivolta alla scienza che aveva saputo risolvere il mistero:

“E’ uno scherzo di qualche dentista – si disse il Keller – dato che è da escludere che le pecore si facciano curare la dentatura”. […] Nonostante tutte le precauzioni, la voce della fantastica scoperta si propagò, e per un momento si delineò la possibilità di una nuova “febbre dell’oro”. Poi gli scienziati sono riusciti a spiegare il fenomeno: in seguito alla siccità, le pecore sono state costrette a strappare dal terreno anche le radici dell’erba, e così facendo hanno assorbito anche minuscole particelle d’oro di origine alluvionale, che a lungo andare hanno formato uno strato sui loro molari, o, almeno, conglomerati di piccole dimensioni. 

Insomma, la spiegazione classica. Molto meno originale della versione del 1938, quella delle pecore di Cardiff, dove la dentatura era colpa di un anello perduto e poi “trasmutato”. 

Chissà cosa ne avrebbe pensato Cristoforo Buondelmonti che, oltre cinquecento anni prima, ascoltava compunto e stupito gli eredi della civiltà minoica sull’antico monte Ida, a Creta. Se avesse potuto immaginare il macellaio di una cittadina dell’Australia – un continente di cui non sapeva nulla – che inconsapevole, parecchi secoli dopo, continuava a vendere le stesse teste di pecora coi denti d’oro, forse non avrebbe potuto far altro che sorridere. 

A denti stretti.

Un pensiero su “La curiosa leggenda delle pecore dai denti d’oro

  • Il testo originale in latino di Buondelmonti, prima e seconda versione, è leggibile in internet (https://reader.digitale-sammlungen.de//resolve/display/bsb10004149.html) nel libro “Creta sacra sive de episcopis utriusque ritus graeci et latini in insula Cretae. Accedit series praesidum venetorum inlustrata. Authore Flaminio Cornelio”. Volume I. Venezia, typis Jo. Baptistae Pasquali, 1755.
    Pagina 15 (prima versione): Pascua inter scabrosos lapides pinguia existunt et arborum granae magna copia. Hic, ut a pastoribus dicitur, magna copia herbae lunariae invenitur, nam bestiae eam ibi repertam in radicibus pascentes semper dentes auratos habent. Insuper venam auri dicitur fuisse ibi repertam in radicibus montis.
    Pagina 105 (seconda versione): pascua inter scabrosos lapides bona sunt, et arborum grane insurgunt copiose, hic ut a Pastoribus dicitur herba lunaria reperitur, isperientia cujus Bestie ibi pascentes dentes semper tenent aureatos

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