Antologia dell’inconsueto: Congiunti ai tempi della Peste
Se Mercuzio, nel “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare (1564-1616) maledice le famiglie dei Montecchi e dei Capuleti augurando loro la peste, i congiunti, nostri o altrui, sono un punto cruciale quando si parla di contagi. Certo, mantenere la distanza durante il contagio è fondamentale ma nel brano che vi proponiamo è proprio il mancato ricongiungimento a scatenare la pestilenza.
La nostra antologia non sarà carente di poesie e poemi e tra loro non può mancare l’Iliade, che proprio nel libro primo ci racconta il propagarsi di una pestilenza nel campo degli Achei. Durante gli assedi i contagi sono all’ordine del giorno: molti soldati, poca pulizia e una nutrizione non regolare favorivano il propagarsi di qualsiasi malattia; ma qui c’è di più: c’è una colpa, un errore da scontare.
Crise, sacerdote di Apollo si reca al campo acheo per pagare il riscatto della figlia Criseide, fatta schiava dagli Achei e trattenuta da Agamennone. Il re di Micene non la vuole restituire e non solo, maltratta il padre di lei cacciandolo dal campo in malo modo. Crise allora scatena Apollo a cui chiede di colpire gli Achei con i suoi dardi (la pestilenza).
L’ira d’Achille, il fulcro del poema, è la conseguenza della decisione di Agamennone di ridare a Crise la figlia per far cessare la pestilenza, ma riprendendosi in cambio Briseide, che è schiava di Achille. Scelta che si rivelerà tatticamente devastante.
Quella della Pestilenza come “punizione” per le colpe degli uomini è un tema ricorrente: lo vediamo comparire anche nel romanzo di Albert Camus (1913-1960) “La Peste” (1947) nelle prediche del Padre gesuita Paneloux, e come abbiamo già detto Mercuzio stesso la usa per maledire i suoi assassini.
Ritenere la pestilenza un’arma che un’entità suprema usa con i suoi “figli” disobbedienti non è così sconsiderato, se si dà per certa l’esistenza dell’entità superiore. Crise la usa addirittura per vendetta. Non a caso le persone confuse e spaventate cominciano a sentire e vedere queste entità superiori, oggi come durante la peste di Londra nel 1665 descritta da Daniel Defoe (1660-1731) nel “Diario dell’anno della Peste” (1722).
Diciamolo, colpire il il “peccatore” insubordinato con una pestilenza è averci la mano un po’pesante, ma colpire il nemico avvelenandolo è un’ottima idea: è la guerra batteriologica.
Che una malattia possa essere una buona arma lo pensavano anche gli ateniesi nel 430 A.c. quando, colpiti dalla peste, cominciarono a pensare che fosse opera degli Spartani che avevano avvelenato i loro pozzi, i russi durante la guerra fredda sparsero la notizia che l’HIV era stato messo in circolazione dagli U.S.A.
Insomma Crise ha un’ottima idea, Apollo lo ascolta ed infatti il tutto funziona talmente bene che l’Iliade è nei programmi dei licei di tutta Europa.
Vi proponiamo parte del primo canto dell’Iliade nella traduzione del 1825 di Vincenzo Monti (1754-1828).
Libro Primo
Cantami, o Diva, del Pelíde Achille
L’ira funesta che infiniti addusse
Lutti agli Achei, molte anzi tempo all’Orco
Generose travolse alme d’eroi,
E di cani e d’augelli orrido pasto
Lor salme abbandonò (così di Giove
L’alto consiglio s’adempía), da quando
Primamente disgiunse aspra contesa
Il re de’ prodi Atride e il divo Achille.
E qual de’ numi inimicolli? Il figlio
Di Latona e di Giove. Irato al Sire
Destò quel Dio nel campo un feral morbo,
E la gente pería: colpa d’Atride
Che fece a Crise sacerdote oltraggio.
Degli Achivi era Crise alle veloci
Prore venuto a riscattar la figlia
Con molto prezzo. In man le bende avea,
E l’aureo scettro dell’arciero Apollo:
E agli Achei tutti supplicando, e in prima
Ai due supremi condottieri Atridi:
O Atridi, ei disse, o coturnati Achei,
Gl’immortali del cielo abitatori
Concedanvi espugnar la Prïameia
Cittade, e salvi al patrio suol tornarvi.
Deh mi sciogliete la diletta figlia,
Ricevetene il prezzo, e il saettante
Figlio di Giove rispettate. — Al prego
Tutti acclamâr: doversi il sacerdote
Riverire, e accettar le ricche offerte.
Ma la proposta al cor d’Agamennóne
Non talentando, in guise aspre il superbo
Accommiatollo, e minaccioso aggiunse:
Vecchio, non far che presso a queste navi
Ned or nè poscia più ti colga io mai;
Chè forse nulla ti varrà lo scettro
Nè l’infula del Dio. Franca non fia
Costei, se lungi dalla patria, in Argo,
Nella nostra magion pria non la sfiori
Vecchiezza, all’opra delle spole intenta
E a parte assunta del regal mio letto.
Or va, nè m’irritar, se salvo ir brami.
Impaurissi il vecchio, ed al comando
Obbedì. Taciturno incamminossi
Del risonante mar lungo la riva;
E in disparte venuto, al santo Apollo
Di Latona figliuol, fe’ questo prego:
Dio dall’arco d’argento, o tu che Crisa
Proteggi e l’alma Cilla, e sei di Ténedo
Possente imperador, Smintéo, deh m’odi.
Se di serti devoti unqua il leggiadro
Tuo delubro adornai, se di giovenchi
E di caprette io t’arsi i fianchi opimi,
Questo voto m’adempi; il pianto mio
Paghino i Greci per le tue saette.
Sì disse orando. L’udì Febo, e scese
Dalle cime d’Olimpo in gran disdegno
Coll’arco su le spalle, e la faretra
Tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo
Su gli omeri all’irato un tintinnío
Al mutar de’ gran passi; ed ei simíle
A fosca notte giù venía. Piantossi
Delle navi al cospetto: indi uno strale
Liberò dalla corda, ed un ronzío
Terribile mandò l’arco d’argento.
Prima i giumenti e i presti veltri assalse,
Poi le schiere a ferir prese, vibrando
Le mortifere punte; onde per tutto
Degli esanimi corpi ardean le pire.
Nove giorni volâr pel campo acheo
Le divine quadrella. A parlamento
Nel decimo chiamò le turbe Achille;
Chè gli pose nel cor questo consiglio
Giuno la diva dalle bianche braccia,
De’ moribondi Achei fatta pietosa.
Come fur giunti e in un raccolti, in mezzo
Levossi Achille piè-veloce, e disse:
Atride, or sì cred’io volta daremo
Nuovamente errabondi al patrio lido,
Se pur morte fuggir ne fia concesso;
Chè guerra e peste ad un medesmo tempo
Ne struggono. Ma via; qualche indovino
Interroghiamo, o sacerdote, o pure
Interprete di sogni (chè da Giove
Anche il sogno procede), onde ne dica
Perchè tanta con noi d’Apollo è l’ira:
Se di preci o di vittime neglette
Il Dio n’incolpa, e se d’agnelli e scelte
Capre accettando l’odoroso fumo,
Il crudel morbo allontanar gli piaccia.
Così detto, s’assise. In piedi allora
Di Testore il figliuol Calcante alzossi,
De’ veggenti il più saggio, a cui le cose
Eran conte che fur, sono e saranno;
E per quella, che dono era d’Apollo,
Profetica virtù, de’ Greci a Troia
Avea scorte le navi. Ei dunque in mezzo
Pien di senno parlò queste parole:
Amor di Giove, generoso Achille,
Vuoi tu che dell’arcier sovrano Apollo
Ti riveli lo sdegno? Io t’obbedisco.
Ma del braccio l’aita e della voce
A me tu pria, signor, prometti e giura:
Perché tal che qui grande ha su gli Argivi
Tutti possanza, e a cui l’Acheo s’inchina,
N’andrà, per mio pensar, molto sdegnoso.
Quando il potente col minor s’adira,
Reprime ei sì del suo rancor la vampa
Per alcun tempo, ma nel cor la cova,
Finché prorompa alla vendetta. Or dinne
Se salvo mi farai. – Parla securo,
Rispose Achille, e del tuo cor l’arcano,
Qual ch’ei si sia, di’ franco. Per Apollo
Che pregato da te ti squarcia il velo
De’ fati, e aperto tu li mostri a noi,
Per questo Apollo a Giove caro io giuro:
Nessun, finch’io m’avrò spirto e pupilla,
Con empia mano innanzi a queste navi
Oserà vïolar la tua persona,
Nessuno degli Achei; no, s’anco parli
D’Agamennón che sè medesmo or vanta
Dell’esercito tutto il più possente.
Allor fe’ core il buon profeta, e disse:
Nè d’obblïati sacrifici il Dio
Nè di voti si duol, ma dell’oltraggio
Che al sacerdote fe’ poc’anzi Atride,
Che francargli la figlia ed accettarne
Il riscatto negò. La colpa è questa
Onde cotante ne diè strette, ed altre
L’arcier divino ne darà; nè pria
Ritrarrà dal castigo la man grave,
Che si rimandi la fatal donzella
Non redenta nè compra al padre amato,
E si spedisca un’ecatombe a Crisa.
Così forse avverrà che il Dio si plachi.
Immagine: Crise e Agamennone, da Wikimedia, particolare di un cratere del 360-350 a.C. trovato a Taranto, Museo del Louvre