Giandujotto scettico

L’uomo del 2000 – ovvero, il robot che ci provava

Giandujotto scettico n° 64 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (21/05/2020)

Torino, novembre 1934. L’Italia aveva appena festeggiato l’inizio del tredicesimo anno dell’Era Fascista, Mussolini aveva da poco fatto fronte con successo ad un tentativo di Hitler (non ancora alleato dell’Italia) di estendere la sua influenza sull’Austria mandando truppe ai confini e aveva introdotto la giornata lavorativa di otto ore. Nel capoluogo piemontese la gente si accalcava però per un’altra ragione: tutti accorrevano per vedere la terza, grande, “Mostra meccanica e metallurgica”.

L’evento, che si teneva nei padiglioni della Microtecnica (grande impresa di meccanica di precisione, in via Madama Cristina 149), era stato fortemente voluto dal neo-prefetto Cesare Giovara e attirava visitatori da tutto il Piemonte. Visto il successo, si era deciso di prorogarlo rispetto a quanto previsto inizialmente, per far sì che anche gli operai della provincia potessero approfittare degli sconti sui treni allestiti per andare osservare le nuove meraviglie dell’ingegneria moderna – in specie di quella italica.

Fu in questo clima che Stampa Sera del 9 novembre 1934 uscì con una notizia strepitosa, che a quanto pare circolava da giorni ma che solo in quel momento era stata confermata. Alla mostra torinese sarebbe stato esposto un pezzo unico, uno di quelli che – secondo l’entusiasta articolo del quotidiano – avrebbe fatto esclamare tutti “pare impossibile!”.

Si tratta nientemeno che dell’uomo meccanico, dell’uomo destinato a fare da epigono all’uomo delle caverne, in quanto è il più legittimo rappresentante dell’umanità quale sarà nell’anno 2000… o giù di lì: l’uomo quale un Giulio Verne in collaborazione con un Wells avrebbero potuto immaginare e descrivere: l’uomo creato – come Eva lo fu secondo la leggenda biblica dal costato di Adamo – dal cervello dell’uomo: come dire… autogenerato, immortale.

L’uomo del 2000 è naturalmente venuto fresco fresco dall’America e si presenta con le fattezze e le sembianze di un uomo dei nostri giorni; vestito secondo l’ultimo figurino di moda… in tessuto di alluminio. è veramente di una statura per cui fa la concorrenza al nostro Carnera, in quanto misura più di due metri; è, come si è accennato, costruito interamente di alluminio; cammina, gesticola, agisce, si muove, canta, declama e naturalmente parla di tutto ad eccezione… della crisi, la quale per lui non esiste perché (e questa è la sola differenza tra lui ed i suoi simili, che siamo poi noi) non ha bisogni di sorta.

Insomma, quello esposto alla fiera di Meccanica si presentava in tutto e per tutto come un superuomo: fatto di alluminio (il metallo futuristico per eccellenza!), alto, capace di fare tutto, senza i bisogni materiali di noi semplici esseri umani. Era l’ultima invenzione, un assemblato di leve e congegni invisibili ai profani (per l’esibizione serviva solo un piccolo spazio riservato all’ingegnere, ma tutto il resto avveniva in modo automatico). Era, secondo il cronista, “l’ultima parola in fatto di creazioni meccano-radio-foto-fono-elettriche”. E scusate se è poco.

L’uomo meccanico sarebbe stato mostrato in due occasioni, la prima il 9 per i soli giornalisti e la seconda il 10, al pubblico generale.

Così fu. La Stampa del 10 novembre conteneva una prima descrizione di quel prodigio della tecnica, ammirato dai cronisti nella prima delle due esibizioni in programma:

Davanti a un gruppo di giornalisti ed i componenti del comitato ha fatto ieri la sua prima comparsa l’uomo macchina di cui abbiamo già parlato ieri. Cosa sorprendente l’uomo del 2000 ha parlato: ed essendo tutto d’acciaio ha parlato esaltando la meccanica e la metallurgia. Poi con passo sicuro ha fatto il giro del Salone finché si è fermato davanti a una lavagna sulla quale ha scritto alcune frasi: quindi salutando gli intervenuti si è eclissato. Tutta Torino accorrerà certamente a vedere l’uomo meccanico.

Dell’esibizione per il pubblico generale non sappiamo, però il 18 novembre il Corriere della Sera pubblicò un lunghissimo articolo in terza pagina dedicato a quella per i giornalisti torinesi. Il suo autore si firmava con lo pseudonimo metron, dietro il quale si nascondeva l’ingegner Filippo Tajani (1873-1944), docente al Politecnico di Milano, scrittore e giornalista. Eccolo nella foto qui accanto. L’uomo affermava di essere accorso anche lui a vedere l’Uomo del Duemila, con una “curiosità di fanciullo”. Purtroppo non tutte le sue aspettative erano state soddisfatte. Scriveva infatti con una certa delusione:

[…] non lo avevo visto che disegnato nelle descrizioni dei giornali scientifici e mi premeva farne la personale conoscenza. Speravo, anzi, di potergli fare una visita medica, vederlo, cioè, da vicino, tastarlo, ascoltarlo, e magari esaminarne le viscere; ma gli impresari sono stati inesorabili. Temono che se ne possano scoprire i facili segreti. Sta bene per ora che se ne faccia un lucroso spettacolo da fiera (una scrittura è in corso anche per Milano); ma si vuole anche che il pubblico italiano non sappia come è fatto l’uomo di acciaio e di alluminio, perché creda veramente in una miracolosa imitazione della natura?

Tajani descriveva l’Uomo del Duemila come “un grande giocattolo” – e in effetti il pubblico conteneva tantissimi ragazzini, che si erano guadagnati le prime file e commentavano vivacemente lo spettacolo. Nessuno sforzo era stato fatto per dare all’automa l’aspetto di un uomo in carne ed ossa:

La testa di Robot è una pentola di alluminio con un coperchio a visiera, gli occhi sono fori da cui sporgono due lampadine elettriche, il naso una piccola piramide appiccicata alla faccia cilindrica, la bocca un taglio sgraziato. Il tronco è un grosso tubo nel cui interno si indovina l’esistenza dei meccanismi, gambe e braccia hanno la forma più rudimentale che immaginar si possa. […] Pare che il fantoccio del 2000 non pesi più di sessanta chili, il minimo di un uomo normale.

Di fronte al pubblico l’automa aveva camminato, avanzando e spostandosi di lato, si era esibito in un inchino e poi – segno dei tempi – anche in un saluto romano. Il tutto senza fili e senza mai ruzzolare. Era sicuramente un prodigio della tecnica, ma nell’ingegnere aveva generato ripugnanza, “come ne destano i manichini e le statue di cera dei musei”. Era un’immagine dell’”Americano medio” che, infatuato della macchina, rinunciava a pensare, “degradando la grande concezione del Creatore”. Ma poi, pensandoci meglio, ci aveva visto un’utilità pratica, come quelle delle macchine per cucire o per scrivere.

Tajani, dopo averlo visto, si era convinto che si trattasse di un congegno radiocomandato. Secondo lui conteneva pile a secco o un accumulatore, fili e motorini per arti e membra, dei relais che ricevevano comandi via radio, comandati da una centralina distante qualche metro, magari dietro le quinte. L’equilibrio doveva essere assicurato per mezzo di un giroscopio, lo stesso sistema che si utilizzava già per stabilizzare le navi. Era, insomma, non un’invenzione nuova, ma l’applicazione di tante invenzioni diverse (radio, relais, motorini), “sia la grande officina, sia l’orologio da tasca”. Il tutto era stato unito per creare “un meccanismo di innegabile ingegnosità”.

Sarebbe potuto servire a tante cose quel fantoccio, pensava Tajani: poteva sostituire le persone nei compiti pericolosi, aiutare le guardie a proteggere le banche, venire in aiuto alla polizia e all’esercito contro quel gravissimo problema degli scioperi::

Del Robot si può fare un agente di polizia invulnerabile. Supponete di essere in un paese ove avvengano dimostrazioni, scioperi generali, barricate e simili. I poliziotti veri si nascondono in una casa con le stazioni radiotrasmittenti e schierano sulla strada i loro uomini meccanici manovrandoli da lontano. I dimostranti si troveranno così di fronte ad uomini capaci di colpire e di resistere lungamente ai colpi avversari. La guerra avvenire potrà essere una guerra di uomini meccanici. Beninteso, però, che per vincere occorreranno sempre il cervello, il sangue freddo e in molti casi l’eroismo degli “operatori”.

Spirito dei tempi, la prima applicazione che veniva in mente era quella – e in una guerra gli automi si sarebbero sicuramente rivelati utili. Ma, per carità, che non lo si chiamasse “uomo”:

Finiremo col trovare un nome più adatto a questo meccanismo deambulante che approfitta dei tanti progressi tecnici raggiunti in quest’epoca così feconda di novità meccaniche, senza pretendere di gareggiare con il re dei viventi.

Questa contrapposizione tra le “creature di Dio” e quelle dell’uomo ebbe un immediato successo in tutta la stampa cattolica. L’automa era una minaccia, un emblema di quello che l’uomo stava diventando, sempre più meccanico e sempre meno attento alla religione. Il 21 novembre, con il pezzo non firmato “L’uomo del 2000”, il settimanale cattolico cuneese La Fedeltà coglieva l’occasione per una delle consuete tirate contro la tecnica, perché, come sempre

pare che più meccanicamente si progredisce, più spiritualmente si declini. Peggio dell’uomo meccanico questi fantomatici automi meccanizzano cuore e cervello, anima e volontà.

Anzi, La Fedeltà andava oltre: gli si poteva “intonare la canzone del meccano d’America” (l’antiamericanismo culturale, visti i tempi, era onnipresente):

Viva l’Uomo del Duemila,
con la testa fatta a pila,
l’intestino a radiatore
e le gambe col motore.
Viva l’uomo di lamiera,
con l’esofago a dentiera.

Conclusione ultratradizionale:

A questi biochimici alambicchi si riduce l’uomo che rinnega l’anima e che si ribella a Dio che l’ha creato e che l’ha messo al mondo a sua immagine e somiglianza.

Il testo apparve identico su altri settimanali cattolici, come L’Unione Monregalese del 21 novembre e L’Alfiere di Chieri del 9 dicembre.

Sulla scia del clamore torinese, il 12 dicembre il robot approdò al Teatro Filodrammatici di Milano. Quel giorno, mentre uno dei costruttori forniva spiegazioni al pubblico, l’Uomo del Duemila venne ammirato da varie autorità, tra cui anche il conte di Bergamo, Adalberto di Savoia-Genova (Corriere della Sera, 13 dicembre 1934).

L’esibizione milanese terminò dopo qualche giorno (sappiamo che il misterioso uomo d’acciaio era stato anche a Roma). Tuttavia il Natale 1934 era destinato a portare una sorpresa niente male. Sentiamo ancora il Corriere della Sera:

Pavia, 24 dicembre, notte

Robot, l’uomo meccanico del duemila, l’uomo teleradioelettrico, l’uomo metallico… è ora tenuto in sequestro presso gli uffici della Questura di Pavia, dove si è pure proceduto al “fermo” del suo ideatore e del suo… animatore. […] Ora si sarebbe scoperto che si trattava di un volgare trucco. Da alcuni giorni Robot si produceva sul palcoscenico del Politeama Principe Umberto di Pavia, destando l’interesse di un pubblico sempre più fitto e plaudente. L’ultimo giorno della sua permanenza a Pavia, il custode del palcoscenico, Eligio Giorgi, un po’ mortificato e ingelosito perché durante le rappresentazioni lo si allontanava dal palco dove si impediva a chiunque di mettere piede, fu colto dal dubbio che vi fosse di mezzo qualche trucco.

Bisogna notare che Robot, prima di entrare in scena, per ubbidire ai comandi dell’operatore, era tenuto celato in una specie di cabina costruita appositamente presso le quinte. Il Giorgi volle vederci chiaro e praticò un foro nel pavimento di legno in modo che, stando sotto il palcoscenico, poteva scorgere quel che accadeva in quel luogo così religiosamente custodito. Egli così riuscì ad osservare nell’intimità l’uomo meccanico appena ritornato in cabina dopo la rappresentazione: ebbene, egli afferma che, appena lasciato solo, Robot lasciava uscire dal suo seno un uomo che evidentemente lo aveva animato in luogo del cosiddetto “congegno elettromeccanico”.

Ebbene sì: la gente che era accorsa per ammirare l’automa – il finto uomo, come lo avevano definito i giornali cattolici – si era invece trovata davanti un finto robot. Ce n’era abbastanza per gridare alla truffa:

Il custode ne informò il proprietario del teatro ingegnere Angelo Pollini il quale ne parlò occasionalmente con un agente di Questura. Di qui oggi il sequestro di Robot e il “fermo” per ulteriori accertamenti del suo ideatore e costruttore Giovanni Lazzarini, da Lerici, di 41 anni, residente a Genova, e dell’uomo che sostituiva nel corpo di Robot le pile a secco o gli accumulatori, certo Flavio Massa, di 25 anni, da Crusinallo di Novara.

Da La Gazzetta del Lago di Intra del 29 dicembre sappiamo che in realtà Massa avrebbe avuto 35 anni e che, pur essendo nativo del Novarese, abitava a Genova. Per le sue prestazioni come finto robot pare riscuotesse 30 lire al giorno. Nella sua edizione del 26-27 dicembre, in prima pagina, Stampa Sera commentava che proprio il fatto che Massa con il robot ci guadagnasse da vivere tutto sommato ci rendeva il robot più simpatico: anche lui, in fondo, aveva un’anima. Non sarebbe stato lui a sostituirci – e la paura dell’automa senz’anima, inutile dirlo, è il filo conduttore di un’infinita narrativa dell’epoca e del primo cinema di fantascienza.

Il periodo era quello giusto. Il robot, dopo il successo dello spettacolo teatrale R.U.R., di Karel Čapek (1920), da cui come ben noto nacque lo stesso termine, era diventato un’icona delle arti d’avanguardia degli anni ‘20 (in Italia, del secondo Futurismo). Da qui era dilagato nel cinema, di solito seguendo interpretazioni pessimistiche (basti pensare alla robotizzazione di Maria in Metropolis di Fritz Lang, del 1927). Poi passò alla cultura di massa, alla farsa, alla categoria del falso come genere specifico. Già nel 1928 in Inghilterra comparve sui palcoscenici il robot Eric, presentato tra il serio e il faceto come “rivoluzione scientifica”: sul petto recava la scritta R.U.R. e passò poi al pubblico degli Stati Uniti.

Due anni dopo, apparve invece George, sempre dello stesso inventore, che fece il giro d’Europa. Nel 1934 fu la volta di Miss Alpha, robot inglese, che rispondeva a comandi vocali grazie a un altoparlante (in realtà l’automa era connesso via filo ad un microfono, tramite il quale una signora le prestava la voce). Ovviamente, essendo un robot-donna, non desiderava altro che sposarsi…

Se ne avranno esempi anche assai più tardi, con le esibizioni di Anatole, il robot francese, nei teatri di Roma, nel 1955, ben rappresentati dalla tavola che l’illustratore Walter Molino produsse per La Domenica del Corriere del 18 settembre 1955 (potete vederla qui).

L’idea del nostro “Uomo del Duemila”, insomma, non era del tutto originale. Ma gli andò peggio rispetto ai suoi colleghi. Ascesa e caduta del nostro Prometeo moderno da quattro lire sono ben riassunti nella copertina de L’Illustrazione del Popolo, il settimanale de La Gazzetta del Popolo di Torino, che vedete nell’immagine. La storia uscì sul numero del 6-12 gennaio 1935, con una copertina disegnata dal giornalista e regista Aldo Molinari.

Poi gli avvenimenti accelerarono. Il 9 gennaio giunse la notizia che gli atti contenenti l’accusa di truffa commessa dai due (Lazzarini era titolare di un’agenzia pubblicitaria genovese), erano in corso di trasmissione alla Procura di Pavia. Vi era stato associato anche l’impresario milanese Roberto Robertini, organizzatore delle tournée, oltre che nelle città già menzionate, pure a Genova. I due arrestati furono rimessi in libertà quello stesso giorno, e Robot, considerato principale prova del reato commesso, fu sequestrato (Corriere della Sera. 10 gennaio 1935; Stampa Sera, 11-12 gennaio 1935). Tutto era contro di loro.

Eppure le cose, sia pure alla lunga, presero una piega diversa. La posizione del novarese Flavio Massa, esecutore materiale della messinscena (era lui che animava Robot), fu stralciata, e la Procura di Pavia procedette contro Lazzarini e Robertini. Ma – colpo di scena! – il 26 giugno del 1936 entrambi furono assolti dal Tribunale della città lombarda per insufficienza di prove (Corriere della Sera, 27 giugno 1936). La Procura fece ricorso. Il 3 febbraio del 1937, “in una atmosfera di contenuto umorismo”, davanti alla Corte di Appello di Milano

il Robertini e il Lazzarini hanno sostenuto la loro buona fede dichiarando di esibire una trovata reclamistica e nulla più.

La Corte si mostrò convinta, perché assolse con formula piena i due: il fatto non costituiva reato. Quello era uno spettacolo, non un vero tentativo di guadagnare illecitamente facendo credere il pubblico e gli imprenditori di essere davanti a un nuovo ritrovato tecnologico (Corriere della Sera, 4 febbraio e 29 dicembre 1937).

Apprendiamo comunque proprio dall’ultima fonte alcuni dettagli divertenti sull’aspetto del Robot ormai finito in un cestone di vimini:

Flavio Massa […] lo azionava muovendo brevi passi, mentre altra persona, dietro le quinte, parlava in un amplificatore collegato al capo dell’armatura nella quale un altoparlante riproduceva le parole dal suono metallico… che il pubblico credeva di “Robot”: i cui occhi, frattanto, per effetto di pile azionate dal Mazza, sfolgoravano, mentre brillavano circostanti lampadine e si illuminavano gli oggetti che l’automa avvicinava curvandosi: frattanto una ballerina piroettava intorno ed una suoneria elettrica trillava…

Alla fine, la breve carriera di Robot il robot ci è parsa meno banale di quello che pensavamo all’inizio. I giudici che, sia pur dal loro punto di vista, la valutarono, diedero ascolto ai padri del fantoccio da avanspettacolo. Non abbiamo gli atti giudiziari, ma la nostra impressione è che, senza poterlo dire in modo esplicito, i magistrati fossero convinti che solo un ingenuo avrebbe davvero potuto prestar fede a quella farsa.

Per noi, dopo 86 anni, il quesito rimane. Quegli spettatori, quei testimoni che erano sfilati di fronte all’Uomo del Duemila alla Mostra torinese, credevano o no a ciò che vedevano? E che dire, in modo analogo, di tutti quei piemontesi che assistevano alle manifestazioni degli spiriti nelle maisons hantées, e di cui parliamo sovente in questa rubrica? Pensavano sul serio che fosse tutto vero?

Oppure la chiave di tutto, ancora una volta, era stare insieme, commentare, raccontare, lasciarsi sfuggire grida di paura o di stupore, e al mattino dopo tornare ognuno alle proprie occupazioni, come se fosse solo un grande spettacolo?

Foto di Rock’n Roll Monkey da Unsplash