Giandujotto scettico

Una macchina per il moto perpetuo a Torino

Giandujotto scettico n° 66 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (18/06/2020)

Torino, 29 dicembre, notte. Con una deflagrazione, qualche ustione e molto spavento, si è concluso l’esperimento di un inventore convinto di aver trovato la soluzione al problema del moto perpetuo (Corriere della Sera, 30 dicembre 1954).

Parliamo oggi di una strana vicenda circa la quale disponiamo soltanto di due fonti giornalistiche che lasciano più interrogativi che risposte. A darne notizia furono La Stampa il 29 dicembre 1954 e il Corriere della Sera il giorno successivo, ma i due quotidiani differiscono per alcuni dettagli fondamentali. Le cose, però, dovevano essere andate così, almeno a grandi linee.

Centro della vicenda fu un inventore che viveva in via Carlo Marochetti: una zona stretta tra l’arteria di corso Massimo d’Azeglio e il Po, non troppo lontana dal complesso di Torino Esposizioni. Qui il nostro eroe aveva una “modesta stanza” che aveva trasformato, però, in un misterioso laboratorio “chimico-meccanico”. Sulla sua identità le fonti si dividono: secondo La Stampa si chiamava Amedeo Parameci e aveva 58 anni, secondo il Corriere rispondeva al nome di Antonio Parella e di anni ne aveva solo 38. Il che è già strano: non è raro trovare nomi diversi sui giornali d’epoca, anche perché spesso i cronisti dettavano gli articoli al telefono e non sempre ci si capiva; ma in genere si tratta di variazioni minime, mentre tra un Antonio Parella e un Amedeo Parameci (cognome, quest’ultimo, per il quale non abbiamo trovato alcuna ricorrenza, e che suona piuttosto peculiare) di strada ne passa.

Ad ogni modo, La Stampa ne parlava come di “uno strano tipo”: mingherlino, pallido, con due paia di lenti appiccicate al naso. Eppure, al di là dell’aspetto, doveva essere un genio. Aveva scoperto il Santo Graal della fisica, quello che generazioni di scienziati avevano inseguito senza trovare: il segreto del moto perpetuo! Si trattava di una macchina che avrebbe sprigionato energia con un ciclo di reazioni chimiche inesauribili, e che il quotidiano torinese descriveva come “un complicato ordigno” che doveva “produrre energia elettrica senza alcuna spesa”.

Senza quattrini, però, come ben noto non si fa molta strada, ed ecco dunque che il nostro inventore si era messo alla ricerca di un finanziatore. Lo aveva trovato in un salumiere, tale Giuseppe Cernetti (versione Corriere) o Cernovetti (versione Stampa), 42 anni, titolare di un negozio in via Nizza. I due si erano conosciuti proprio nella bottega di quest’ultimo, dove l’inventore si recava quasi ogni giorni a comprare mezz’etto di prosciutto. Questo e una pagnotta di pane erano il magro pasto del rivoluzionario della fisica moderna. Però in macelleria l’uomo si metteva a chiacchierare, e a decantare la sua scoperta:

Parlava sovente di una invenzione sbalorditiva: di un ciclo chimico che non si esauriva mai, di dischi in perpetua vertiginosa rotazione, di una fonte di energia che non costava nulla, eccetto le spese di impianto, e che, con un congruo capitale, avrebbe potuto essere sfruttata su scala industriale per produrre energia elettrica. Il salumaio, ottimo professionista nel campo della carne insaccata ma assolutamente digiuno in questioni tecniche, si estasiava a questi discorsi: sognava di diventare un industriale di rinomanza internazionale. (La Stampa, 29 dicembre 1954)

Così, grazie al “congruo capitale” del salumiere, la macchina fu costruita: doveva essere qualcosa di assai ingombrante, che “troneggiava” in mezzo al laboratorio, con “ruote, storte e serpentini di rame”. La mattina del 29 dicembre, alle 8, doveva finalmente avvenire l’accensione. All’evento assisteva, oltre al genio e al suo anfitrione, anche il figlio di quest’ultimo, Michele, all’epoca diciannovenne. Alle 8 e 10, esauriti i convenevoli, l’inventore introduceva nella “macchina energetica” una polverina biancastra, un reagente a base di fosforo, che doveva fungere da carburante iniziale e inestinguibile.

Alle 8 e 11, la macchina emise uno strano gorgoglio ed esplose con un boato, lanciando intorno acqua bollente, schegge di metallo e frantumi di vetro. Accorsero gli inquilini del palazzo, che trovarono i tre sanguinanti e ustionati, che brancolavano in un’atmosfera – riferisce La Stampa – “pesante” e “solforosa”. Trasportati al vicino ospedale delle Molinette, furono medicati dal dottor De Giorgi: le ferite non erano gravi e guaribili in un mese.

Difficile ricostruire il “dopo”: nessun quotidiano, almeno a nostra conoscenza, tornò sull’argomento, e quindi non sappiamo in cosa consistesse il “metodo” per ottenere il moto perpetuo, né se ci furono altri tentativi, o se il finanziatore chiese indietro i soldi. Forse avrebbe dovuto: la free-energy è da sempre il sogno di ogni inventore, ma è anche un’impossibilità fisica, qualcosa che – ci hanno insegnato nell’Ottocento giganti della scienza come Lord Kelvin e Rudolf Clausius – è in contraddizione con i principi della termodinamica.

Insomma, per dirla in maniera esplicita, è una cosa che davvero non si può fare, nonostante tutti i tentativi che (ancor oggi) qualche dilettante mette in atto. L’esperimento del 1954 rimane un curioso episodio della vita di Torino, che per fortuna non ebbe conseguenze gravi, visto che il finale avrebbe potuto essere ben più tragico (ricordate Un chimico di De Andrè? Son morto in un esperimento sbagliato, proprio come gli idioti che muoion d’amore… E qualcuno dirà che c’è un modo migliore).

Spesso dimentichiamo che, per ogni racconto eroico di invenzione riuscita, ci sono state miriadi di tentativi sbagliati, di vicoli ciechi, di fallimenti. L’esplosione del laboratorio di via Marochetti è una di queste tante storie minime e dimenticate, che, magari in modo naïf e irto di ingenuità, sta a ricordarci la vera natura della scienza: non una linea diretta dall’ignoranza alla conoscenza, ma un complicato groviglio di prove ed errori.

Foto di Pavlo da Pixabay