Antologia dell’inconsueto: sangue a colazione
L’inconsueto talvolta sfocia nell’horror, e qualche volta per noi l’inconsueto assume i tratti di una pratica accettata nel passato. Ad esempio: come si curava l’anemia ai primi del Novecento?
Vi proponiamo al riguardo uno scritto di Salvatore Di Giacomo (1860-1934), letterato verista e poeta, non estraneo a racconti fantastici: nel 1893 pubblica ad esempio la raccolta di racconti “Pipa e boccale”, a tema decisamente fantastico, testo purtroppo difficile da reperire.
Troppi pregiudizi circondano letture che invece noi amiamo, ma noi non ci arrendiamo e vi offriamo dunque “Le bevitrici di sangue”, racconto che nella sua minuta descrizione della realtà tocca i confini dell’horror. Non a caso l’autore oggi è apprezzato come scrittore di novelle “nere”, cioè dai contenuti spesso carichi di violenza. Il testo, molto breve, è inserito nella raccolta “Novelle Napolitane” (1914), in cui lo scrittore descrive l’umanità e le vie della Napoli del suo tempo.
Ragazze di estrazione popolare ma vestite secondo canoni borghesi per l’occasione, anemiche, si recano al macello cittadino per bere il sangue delle mucche appena uccise: non giudichiamole, perché Di Giacomo, l’Autore, non lo fa. Quello che gli interessa segnalare è invece una specie di salto che avviene tra la delicatezza e la grazia delle ragazze e l’orrore della situazione, fra la necessità di curarsi e il recarsi in un luogo terribile. Ricordiamo che il sangue è un emetico, cioè che induce il vomito, ma che la fatica delle ragazze ad ingerire la loro “medicina” non viene descritta. Un gesto di pudore per ragazze che vivono una vita miserevole, che Di Giacomo non manca di descrivere.
Segue una descrizione iperrealistica, senza filtri, delle bestie condotte al macello. La crudezza dello scritto e di ciò che avviene, contrasta nettamente con l’immagine candida delle “curate”. Non dubitiamo che Stephen King, qualora leggesse il racconto, annuirebbe con approvazione.
L’insolito è talvolta anche crudele, e per la prima volta lo diciamo con chiarezza: il racconto non è per tutti.
Molti delle fatiche di Salvatore Di Giacomo sono liberamente leggibili su Liberliber.
Le bevitrici di sangue
Dalle sette e mezzo della mattina fino alle dieci la carneficina delle vacche, al macello di Poggioreale, si compie tra uno strano affollamento di bevitrici di sangue, dura tra i desideri sanguinosi delle anemiche, delle clorotiche, delle povere fanciulle sbiancate in faccia come la cera. Esse accostano alle pallide labbra il bicchiere colmo di quello spumante vin delle vene e bevono d’un fiato, socchiusi gli occhi, la mano che leggermente trema. Intorno seguita la strage, tra un continuo romore di battiture, di tonfi sordi, di catene che si sciolgono, d’argani che rizzano i cadaveri ancor palpitanti delle povere bestie. Dopo bevuto il caldo sangue spicciato dalle carotidi incise, si passa in una stanzaccia nuda e sporca e lì si sciacquano le coraggiose bocche femminili e le mani insanguinate. A parte il bene che può fare questo rimedio novello, lo spettacolo è orribile.
Appena entrati nel macello, come il visitatore si va accostando allo scannatoio, ode un rapido succedersi di colpi sordi, i quali danno la precisa idea di una gran quantità di tappeti sciorinati e battuti da servitori invisibili a un invisibile terrazzo. I tappeti sono cadaveri ancor palpitanti di vitelli, di vacche, di bovi smisurati. I carnefici, appena caduto l’animale sotto il coltello pugnale di questi toreadores del macello, cominciano a menar di gran colpi di mazze sulle reni e sul ventre delle bestie, perché la pelle se ne stacchi. E mentre uno compie codesta bisogna, un altro si vale d’un mantice per gonfiare l’animale, e un altro d’un lungo ferro tondo per frugar nelle viscere. Il sangue scorre d’ogni parte e inonda il pavimento. I garzoni s’accovacciano, radunano con le mani il sangue a pezzi già quasi coagulato, riempiscono scodelle di ferro e queste rovesciano nelle botti preparate in un angolo. Tutto questo è fatto con grandissima rapidità, l’ammazzamento durando tutta la giornata e dovendo i beccai sbarazzarsi in un giorno fin di ottocento animali.
Le vacche entrano malinconicamente nell’ammazzatoio. Piegano fino a terra la testa. Annusano il sangue e si volgono intorno. Un primo leggero fremito inconsciente increspa loro la pelle, gli occhi grandi e dolci s’inumidiscono. Attaccate per le corna ai pali dei cavalletti enormi, alle forche bruttate di sangue rappreso, continuano a dondolare la testa inquieta, lasciando mescolare al sangue, per terra, i fili argentei della bava, ond’hanno tutto umido il muso. Subitamente un carnefice s’accosta: nascoso il pugnaletto nella destra, guardingo. Leva la mano. Il pugnale s’abbassa, colpisce tra le corna, penetra, rapidissimo, fin nel cervello, e riappare fumante. Il carnefice dà un balzo, e si scosta. La vacca cade, fulminata. Una sola, breve convulsione le agita le gambe, ed è tutto; è morta. La sua compagna si agita, cerca di liberarsi, leva il capo, sbarra gli occhi, spaventata. Ma cade anch’essa sotto l’orribile forca, accanto alla prima. Lì per lì comincia la battitura, cominciano ad agire il soffietto, il ferro tondo, il gran coltello sventratoio. Ma prima, appena l’animale piega le gambe e si rovescia sul dosso, il fornisore di sangue, scalzo, sguazzanti i piedi nel sangue, accosta alla viva fontanella il bicchiere e, correndo, lo porta alla fanciulla anemica. E costei beve d’un subito fino all’ultimo gocciolo, e le labbra e il mento le si dipingono d’un rosso fortissimo, e le dita si sporcano, e gli anellini luccicano tra il sangue gocciante.
La gran parte di queste bevitrici si compone di un elemento assai borghese. Sono modistine, sartine, fioriste e simili. Escono dall’ammazzatoio con le punte delle scarpette, coi tomai alti, macchiati. In Napoli l’anemia serpeggia un po’ da per tutto: ora pensate a queste povere ragazze che fanno una vita sedentaria, in un laboratorio, coi lumi a gas d’inverno; pensate a queste giovanette elegantemente vestite che a casa loro dormono in un miserabile sottoscala, senza luce; pensate alle privazioni, alla mancanza dell’aria, del sole, alla mancanza del cibo sano, della carne che costa troppo, e vi spiegherete la mancanza dei globuli rossi.Ma guardatele, quando, nelle prime ore della mattina, queste fanciulle del popolo attraversano Toledo, in cappellino lucente di conterie, vestite come tante marchesine, le calze nere, di seta, lo stivalino verniciato, la punta ricamata d’un moccichino che scappa fuori dalla saccoccia in petto, la mantiglia sul braccio e l’ombrellino in mano. Son quelle che ieri han bevuto, fortemente, il sangue vivo vivo. Ora guardatele; hanno due soldi in tasca per la merenda, ma le labbra carezzano il gambo d’un fiore, o sorridono deliziosamente a un giovanotto cocchiere padronato, che sorride e minaccia con la frusta elegante.
Immagine in evidenza: Mio padre, Piacsek e del vino rosso, olio su tela di József Rippl-Rónai (1907) – Wikimedia Commons