I vampiri e gli scienziati. Un divertissement estivo
Articolo di Francesco Paolo De Ceglia (Università degli studi Aldo Moro – Bari). Pubblicato originariamente sul Bollettino della Società Italiana di Storia della Scienza
Furioso, soffiava il vento su Mykonos. Graffiandone quella superficie pietrosa come il cuore di chi – dove l’Egeo è dilaniato dalle Cicladi – già mille volte aveva visto i propri morti ritornare. Non lo sapeva, Joseph Pitton de Tournefort, illustre professore al Jardin des Plantes di Parigi, che proprio allo scoccare del secolo, nell’anno del Signore 1700, aveva intrapreso un lungo viaggio in Oriente sperando di raccogliere nuove specie esotiche da aggiungere a una collezione botanica di per sé sterminata. Dopo aver percorso da parte a parte l’Impero Ottomano, spingendosi fino in Georgia, ora, di ritorno, veleggiava alla volta di Costantinopoli.
“Quella che stiamo per narrare”, si legge nel suo diario, “è la storia di un contadino di Mykonos, d’indole violenta e attaccabrighe, ucciso in campagna, non si sa né da chi, né come”.
Potrebbe essere l’incipit di un racconto proto-poliziesco. Non lo è tuttavia. Trattandosi invece di uno degli episodi più celebri della reportistica vampirica. Sì, perché quello dei ritornanti in corpo è un tema significativo della letteratura scientifica – nonché, ça va sans dire, teologica – della prima metà del Settecento. Ma che era successo allo zotico cicladico?
“Due giorni dopo che egli fu sepolto in una cappella della città, corse voce che lo si vedeva la notte camminare a grandi passi e andare per le case a rovesciare mobili, spegnere lampade, aggredire la gente alle spalle e fare mille altre bricconate”.
In breve, era divenuto un vrykolakas, come in quelle terre erano chiamati i ritornanti.
All’inizio vennero giudicate tutte voci incontrollate, messe in giro da gente ignorante e superstiziosa. Poi anche gli uomini di Chiesa si persuasero che un fondamento di verità ci dovesse pur essere. Tanto che
“il decimo giorno venne celebrata una messa nella cappella in cui si trovava il corpo, al fine di cacciare il demone che si pensava vi fosse rinchiuso. Detta la messa, si dissotterrò il cadavere e si decise gli si dovesse strappare il cuore”.
La qual cosa, la fece un macellaio, che in realtà aprì il basso ventre, pensando di trovarlo là.
Paura, paura e ancora paura. Il rituale, d’altronde, non fu sufficiente a tener a bada il vrykolakas, che, a quanto pare, avrebbe ancora a lungo turbato le notti degli abitanti di Mikonos. E ciò, ben prima che l’isola diventasse una delle mete più glamour e vitazzuole del turismo giovanile. Chissà se i tour operator adesso informano di queste antiche credenze i visitatori. E dicono che la zona era così infestata da indurre alla nascita, a Santorini, di una vera e propria schiatta di specialisti nell’eliminazione dei vampiri. Tant’è che l’espressione «portare i vampiri a Santorini» avrebbe, col tempo, perso il significato più stretto, per diventare un equivalente di «a mali estremi, estremi rimedi».
Non era comunque un problema soltanto greco. Si racconta, ad esempio, che nel 1732 fosse praticamente impossibile entrare in una libreria europea senza imbattersi in qualche trattato su quei morti viventi che sempre più spesso stavano facendo la loro comparsa soprattutto nelle terre più a est dei domini asburgici. Non le sole voci, ma veri e propri rapporti ufficiali. Come il Visum et repertum, elaborato dal chirurgo militare austriaco Johann Flückinger in missione nel villaggio serbo di Medwegya, dove egli aveva avuto la possibilità di compiere le autopsie dei presunti non-morti.Vi sarebbero state delle prove scientifiche, pertanto.
Che c’era di vero? Un’ipotesi più volte avanzata negli ultimi decenni è stata quella della protoporfiria eritropoietica, una malattia genetica che, aggredendo i globuli rossi, causerebbe fotosensibilità, anemia e aspetto per l’appunto vampiresco. Però la spiegazione pecca di scientismo e appare un po’ tirata per il bavero, visto che, nelle cronache, con dovizia di particolari si descrivono veri e propri cadaveri che, riesumati, venivano trovati incorrotti e rubizzi, come se avessero realmente potuto continuare a vivere e a nutrirsi. Nonché a operare maleficamente. E, a volerci capir qualcosa, proprio questo inconsueto aspetto post mortem parrebbe la chiave del problema…
E sì, giacché, pur nella loro variabilità, i racconti, ridotti ai minimi termini, riferiscono costantemente, per la dirla con Tommaso Braccini – il quale qualche anno fa ha pubblicato un bel Prima di Dracula. Archeologia del vampiro – di “uno stato di crisi che colpisce una comunità, l’individuazione di un cadavere anomalo come sua causa, e l’annientamento di tale cadavere come modo per superare la crisi”. Insomma, se si guarda alla faccenda da un punto di vista antropologico, è come se quei vampiri li si andasse a fabbricare: qualcosa succedeva nel villaggio – in particolare, una epidemia di «peste», che causava morti improvvise – e, per trovarne una causa su cui si potesse simbolicamente operare, si creava un capro espiatorio. Si dissotterravano i morti. E chi aveva un aspetto un po’ troppo florido veniva giudicato responsabile di tutto. Poi, a seconda dei contesti, lo si poteva chiamare vrykolakas, tympaniaios, upir, Nachzehrer e in mille altri modi.
Anche strigon, per esempio. Nome che mostrerebbe in che misura i vampiri – nell’immaginario connesso all’eziologia e alle modalità di contagio – fossero i corrispettivi slavo-ellenici di quanto in Europa occidentale, in particolare latina, andava sotto il nome di «strega» o, per altri versi, di «untore». Solamente che all’ombra dei Balcani l’azione repressiva, pur ignominiosa, si esercitava sui morti. Da noi, in caso di epidemia, sui vivi.
Tempo, ne è passato, per fortuna. Ma in questo periodo di turbamenti pandemici, qualcuno, tra il serio e il faceto, ha riesumato il termine «untore». Attribuendo a questo o a quell’individuo responsabilità che sarebbero piuttosto del sistema sanitario. Ed è allora che mi è venuta in mente questa storiella, perché l’esecuzione dell’untore, della strega o del vampiro aveva forse una funzione politica, placando in effetti le folle inferocite. Ma, come già nel 1725 precisava il pastore luterano Michael Ranfft nel suo La masticazione dei morti nelle tombe, non modificava in alcun modo il corso dell’epidemia.