Quando i sultani rapivano le torinesi
Giandujotto scettico n° 69 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (30/07/2020)
Prima dei timori per i rapimenti delle ragazze per avviarle, drogate, alla prostituzione, dopo averle catturare nei camerini dei negozi di moda, prima delle paure che bambini e giovani fossero portati via per essere privati degli organi in cliniche clandestine, prima che, a inizio XX secolo, si diffondesse nei Paesi anglosassoni la voce che nelle gelaterie le ragazze erano costrette alla perdizione dopo esser state catturate – prima di tutto ciò, fra il XIX secolo e la prima parte del XX, in Occidente dilagò la psicosi della tratta delle bianche, di norma ad opera dei musulmani.
Legata ai tentativi di bloccare la costrizione alla prostituzione cui, sul serio, un gran numero di donne, anche giovanissime, erano soggette (un ottimo articolo sull’argomento si può leggere qui), quella psicosi produsse un vastissimo panorama leggendario, giornalistico, popolare, letterario, al cui centro c’era il terrore del rapimento delle proprie mogli, sorelle e figlie. Nelle sue forme classiche – quelle da romanzo d’appendice – è sopravvissuto sino a tempi recenti. Uno dei libri dell’etnologo e filosofo francese Edgar Morin, un’icona vivente delle scienze umane, con i suoi novantotto anni, La rumeur d’Orléans (1969, trad. it.: Medioevo moderno a Orléans, ERI, Torino, 1979) ha al centro proprio una voce moderna di tratta delle bianche nel cuore della Francia scossa dai mutamenti sociali di fine anni ‘60.
Per raccontarvi meglio il Giandujotto scettico di oggi, che riguarda una vicenda piemontese di questo tipo, dovremmo parlarvi in dettaglio della sua protagonista principale. Dirvi in dettaglio chi era, cosa pensava e cercare di capire meglio come mai narrò la storia drammatica che vi faremo conoscere fra poco.
Invece, non siamo in grado di farlo. Perché la protagonista di questa storia era una donna, e prima ancora una moglie, in un contesto sociale e giuridico in cui le donne erano considerate giuridicamente semi-incapaci: quello dell’Italia degli anni a cavallo della Prima Guerra Mondiale.
La cosa è talmente macroscopica che non siamo nemmeno riusciti a capire come si chiamasse. Per le fonti del tempo era “la signora Bufaletti”, perché quello era il cognome del marito che, oltre tutto, era persona nota e di prestigio.
Si chiamava Federico Bufaletti (1862-1936), era un pianista notissimo e docente, sin dal 1892, al Liceo musicale “G. Verdi” di Torino, dove insegnerà per ben quarant’anni. Compositore affermato, girò il mondo. Le sue partiture sono facilmente reperibili tuttora, anche perché, come esecutore, godette di vasta popolarità pure fra il pubblico comune.
Federico Bufaletti era originario di Napoli. Fu lì che si trovava sua moglie quando, a quanto pare, i giornali cominciarono a spiegare che la donna raccontava una strana storia.
Il 16 dicembre del 1921 il quotidiano partenopeo Il Mattino così scriveva:
I giornali della penisola hanno narrato la notizia della romanzesca avventura toccata ad una giovane italiana, superstite del siluramento del piroscafo “Ancona” avvenuto nel 1915. Essa è Isotta Bufaletti, nata a Torino. Coste, in circostanze misteriose che ancora non sono venute in luce, scampata miracolosamente dal naufragio, fu da alcuni mercanti di carne umana venduta al Sultano turco.
La signorina Isotta viaggiava sul piroscafo “Ancona” insieme alla madre ed alla sorella. Queste ultime furono salvate e sbarcate a Genova. Esse fino ad un anno fa hanno creduto sempre che la loro Isotta fosse perita nel naufragio. Improvvisamente però la madre apprese che l’Isotta è viva e che è diventata una delle favorite dell’harem del Sultano. La signora Bufaletti ha tentato tutti i mezzi per riavere la figliola ed ha interessato anche la Santa Sede, ma, fino a questo momento, senza nessun risultato.
La signora Bufaletti, che si trova attualmente a Napoli, interrogata, ha dichiarato di ricevere notizie della figliola a mezzo di un alto personaggio turco, che però si è rifiutata di nominare. La figliola vive tra i fasti e le ricchezze: è libera di uscire ma non è mai lasciata sola. La signora Bufaletti ha dichiarato inoltre che ella si è rivolta con una supplica a S. M. la Regina per avere protezione nella tutela dei suoi diritti di madre italiana.
Nella supplica la derelitta donna narra in questo modo i fatti:
Il 5 novembre 1915 mi trovavo a bordo dell’”Ancona” insieme alla mia figlia Isotta, diretta in America, allorquando il piroscafo fu silurato. Nella confusione del salvataggio fui staccata da mia figlia e, per quante ricerche facessi dopo non potei averne nessuna notizia e la piansi morta per ben cinque anni. Ma l’anno scorso, nella riviera ligure, una signora turca, parlando di Torino, accertò che nell’harem del Sultano, a Costantinopoli, si trovava da cinque anni una italiana, figlia di un noto pianista di Torino, scampata al siluramento di una nave. Questa inattesa notizia sconvolsero l’animo mio e ricercai notizie della mia Isotta.
Un’altra signora mi confermò che Isotta, ferita nel naufragio, fu trasportata nell’ospedale di Biserta, dove venne isolata completamente e poi fatta sparire ed in seguito venduta al mercato di carne bianca a Biserta a scopo di lucro. Essendo la mia figlia appena sedicenne, bellissima, dal mercato di Biserta la portarono al Sultano di Turchia dal quale fu acquistata.
Queste notizie mi sono state inoltre state confermate da una persona residente a Costantinopoli, la quale mi ha detto che mia figlia vive colà e che è la preferita fra le donne del Sultano.
Nella supplica alla Regina la signora aggiunge che è sicura che la sua figlia Isotta ha avuto due figli, che contano rispettivamente uno cinque e l’altro tre anni, entrambi nati nel periodo della sua schiavitù. La supplica termina invocando aiuto e protezione dalla Regina.
Già così il racconto è disarmante. La madre della scomparsa si rivolge ad altissime autorità, perché varie fonti le hanno rivelato non solo che sua figlia (che non sarà mai ritrovata, purtroppo) è scampata al naufragio, ma che è stato portava al mercato delle bianche di Biserta – città di una colonia francese – e da lì trasportata dall’altra parte del Mediterraneo dove, tanto per gradire, è stata acquistata dall’ultimo Sultano ottomano, che poi l’ha resa… nonna dei suoi successori al trono del (morente) dominio turco!
Il quadro generale è fumettistico: il mito della tratta delle bianche, diffusissimo in Occidente per tutto l’Ottocento ma ai primi del XX via via ridotto al rango di tema per letteratura, cinema d’accatto e associazioni per la tutela della giovane; la presenza delle sorti dell’Impero ottomano, ormai nel 1921 giunto alla fine e in via di trasformazione nella moderna Repubblica di Turchia, l’imminente cacciata dell’ultimo sovrano, ormai ridotto a macchietta dalle nuove generazioni di politici occidentalizzanti.
L’intervista fatta alla donna dal Mattino ebbe grande risonanza sui maggiori quotidiani nazionali. Il giorno dopo comparve in sintesi sul Corriere della Sera e, per esteso, su La Stampa.
Ma ecco il colpo di scena. In termini secchi, da buon pater familias dell’epoca, Federico Bufaletti prendeva la parola con la volontà di chiarire i contorni di quel racconto su cui i giornali si erano precipitati. Il 18 dicembre il Corriere della Sera riprese, quasi identico, il testo che aveva usato il 17, ma solo, per aggiungervi di seguito, in corsivo, una precisazione che intendeva lasciare poco spazio a una replica.
Notizie da Torino dicono che il padre della signorina, maestro Federico Bufaletti, il quale vive colà dove insegna al Liceo musicale, ha asserito non doversi prestar fede alla notizia che la figlia si trova nell’harem del Sultano a Costantinopoli. Il Bufaletti ritiene inverosimile che la figliuola sia libera di uscire per Costantinopoli e che non abbia mai potuto far pervenire durante i sei anni della sua prigionia notizie alla famiglia, e che comunque le autorità italiane residenti nella capitale turca non abbiano avuto modo di trovare la ragazza. Secondo il maestro Bufaletti la sua figliola è rimasta vittima del siluramento dell’”Ancona”. Tutto il resto è fantasia.
Una fantasia cui non si doveva prestare fede, basata su assunti inverosimili. Non diceva a chi fosse da attribuire questo impiego di una diffusissima leggenda contemporanea del tempo, ma solo per un minimo di pudore.
L’affondamento del piroscafo su cui viaggiava la ragazza dispersa fu uno degli episodi più tragici della fase iniziale della nostra partecipazione alla Prima Guerra Mondiale. L’Ancona era stato varato nel 1907 e faceva servizio fra Genova e gli Stati Uniti per conto della Compagnia Generale di Navigazione. Requisito dal governo al momento del nostro ingresso in guerra, a fine maggio 1915, stava compiendo l’ennesimo viaggio Genova – New York, carico di emigranti e di cittadini statunitensi che volevano rientrare nel loro Paese, ancora neutrale.
La mattina del 7 novembre, mentre navigava fra la Sardegna e la Sicilia, fu intercettato da un sommergibile tedesco battente bandiera austro-ungarica, l’U-38, che, in emersione, prima lo cannoneggiò e poi lo affondò con un siluro. S’inabissò a circa 60 miglia nautiche a nord del porto tunisino di Biserta. Nell’attacco perirono 206 persone. Le altre furono salvate da un incrociatore francese, mentre molti altri riuscirono a raggiungere le coste tunisine a bordo di scialuppe.
Si trattò di uno shock per l’Italia e per gli Stati Uniti. Il fatto che a bordo vi fossero sudditi americani, e che l’attacco fosse stato compiuto da un sommergibile di un Paese (la Germania) che in quel momento non era in guerra con l’Italia e che però aveva inalberato la bandiera austriaca, che invece era belligerante con noi, riaccese lo sdegno per l’affondamento del traghetto britannico Lusitania, avvenuto sei mesi prima nell’Atlantico, in occasione del quale i morti americani erano stati innumerevoli.
Inutile dire che la stampa italiana diede amplissimo spazio all’episodio. I giornalisti, accorsi in Sicilia e in Tunisia, raccoglievano le testimonianze dei sopravvissuti. Ed è sul Corriere della Sera che si trovano due note che ci paiono importanti per inquadrare meglio il racconto della madre della ragazza.
Nell’edizione del mattino del 13 novembre, un servizio particolare da Tunisi per il quotidiano milanese datato “12 novembre, ore 18.30”, si occupava del dramma di tanti che non avevano notizie dei loro cari e di quelli che invece si erano salvati. Nel primo gruppo rientrava la protagonista della nostra storia:
La famiglia del professore Bufaletti, di Torino, è stata ricoverata all’Hotel Regence, dove la penultima figlia è curata per una scheggia di granata al piede. La signora apparisce come inebetita: il suo dolore, accresciuto dalla probabilità della perdita dell’ultima figlia, è straziante. La contessa Caccia Dominioni, moglie del console, l’assiste amorosamente…
La madre della ragazza, stando a questo resoconto, non trova più la figlia, ed appare in stato di grave stress emotivo, probabilmente afasica.
Ma ecco l’edizione del pomeriggio dello stesso giornale, con un nuovo servizio da Tunisi, con pari data ed ora del primo. I toni sul caso che ci interessa sono del tutto diversi.
La signora Bufaletti, che pur ha perduto nel disastro ogni suo avere, ha oggi l’occhio sfavillante di gioia perché pare che la figlia Isotta, che ella già piangeva come perduta, sia sia invece salvata approdando a Malta con altri 50 compagni.
-Salva, salva – ella mi dice appena mi scorge – ho ricevuto or ora un telegramma di mio marito!
Come sappiamo, invece, la ragazza non sarà mai più ritrovata. Se Federico Bufaletti abbia sul serio mandato quel telegramma non lo sappiamo. La cosa più plausibile, purtroppo, è che la donna non sia riuscita a elaborare il lutto e che il trauma abbia provocato in lei l’insorgere di fantasie che, in qualche modo, la sostenessero. Subito, la salvezza a Malta con una scialuppa. In seguito, la costruzione culturalmente più complessa, quella che su cui ci siamo fermati.
Si trattava di narrazioni ben presenti nelle menti degli occidentali e degli italiani da lungo tempo, già grottesche nell’Ottocento (lo storico e folklorista Francis Young le sta studiando per l’era vittoriana, in cui ce ne sono di simili alla nostra), e tanto più nel 1921, quando l’ultimo sultano turco, Mehmet VI (1861-1926) era in pratica in balia dei nazionalisti repubblicani. Meno di un anno dopo la narrazione della madre di Isotta – che, si noti, seguiva di poco l’eco per il nuovo matrimonio di Mehmet VI con la diciannovenne Nevzad Hanim – il povero sultano fu definitivamente deposto. Espulso da Istanbul, andò in esilio.
Per colmo dell’ironia, visse gli ultimi anni della sua vita proprio sulla costa ligure, dove la Bufaletti aveva detto di aver avuto le rivelazioni sulla seconda vita della figlia. A quel tempo le cittadine rivierasche erano il paradiso dei villeggianti di lusso, cosmopoliti e colti. Mehmet VI Morì a Sanremo il 14 maggio 1926, dove abitò come un ricco borghese europeizzato.
Quasi superfluo aggiungere che della presunta prigioniera torinese nessuno seppe mai niente.
Purtroppo, la cosa più probabile è che la madre di Isotta abbia cercato, utilizzando il materiale culturale a lei disponibile, di trovare una ragione per l’interminabile assenza della figlia. Invece di trovare conforto nelle sedute spiritiche o presso i primi psicoanalisti, cercò di affrontare il trauma ricorrendo ad un altrove che non era né quello dell’aldilà, né quello delle contraddizioni della psiche, e così via.
La trovò in un Oriente oscuro, sconosciuto e assetato di purezza da profanare, ma dal quale, forse pagando un riscatto, o ricorrendo ai buoni uffici di papi e regine, sarebbe stato possibile ottenere il viaggio di ritorno.
Immagine: Donne di Algeri, dipinto di Eugène Delacroix (1798–1863), da Wikimedia Commons, pubblico dominio