Davvero la scienza non è democratica?
Disinformazione scientifica e democrazia
di Mauro Dorato
Raffaello Cortina, 2019
pp. 163, € 16
Mauro Dorato è un filosofo della fisica che ha dato importanti contributi allo sviluppo del dibattito sulla fisica del tempo, sui modelli fisici e le leggi di natura. Dopo la sua introduzione alla filosofia della scienza Cosa c’entra l’anima con gli atomi? (2017), con il suo nuovo libro Disinformazione scientifica e democrazia (Raffaello Cortina, 2019) Dorato interviene in un dibattito di stretta attualità sul rapporto tra la crescita della cosiddetta misinformation, soprattutto sui temi di scienza, e la crisi della democrazia contemporanea. Un tema affrontato già da altri, tra cui recentemente Gilberto Corbellini (Nel paese della pseudoscienza, Feltrinelli, 2019) e Giuseppe Tipaldo (La società della pseudoscienza, Il Mulino, 2019). Dorato sceglie nel suo libro di approfondire soprattutto lo stretto legame tra metodo scientifico e democrazia rappresentativa, cercando di spiegare perché l’uno implica l’altra e perché l’unico modello di dialogo tra scienza e politica risieda, come suggerisce il sottotitolo dell’opera, nell’equilibro tra “competenza dell’esperto” e “autonomia del cittadino”.
Ad accomunare scienza e democrazia è la soluzione dei problemi, spiega Dorato nella premessa. Le due tesi che intende dimostrare nel libro sono che “il buon funzionamento di una democrazia non può prescindere da un livello quanto più possibile elevato di alfabetizzazione scientifica”, a causa del ruolo pervasivo delle tecnoscienze nella società contemporanea; e che la progressiva specializzazione delle conoscenze scientifiche rende “inevitabile il ricorso a forme rappresentative e non dirette di democrazia”. La premessa funge già in parte da conclusione: può esserci democrazia diretta in un consesso dove tutti i cittadini hanno piena comprensione di un problema; ma con il crescere della complessità sociale, l’emergere di una società di esperti richiede di delegare sempre più le questioni complesse a chi ne sa di più. Il rischio, però, è che la democrazia rappresentativa degeneri in tecnocrazia: nel corso del libro, Dorato cerca quindi di spiegare come sia possibile conservare il principio della competenza dell’esperto senza sacrificare l’autonomia del cittadino nelle scelte politiche.
Nel confronto tra metodo scientifico e democrazia rappresentativa, affidato ai primi due capitoli (“Come funziona la scienza?” e “Come funziona la democrazia?”), Dorato osserva come alcuni princìpi mutuati dalla democrazia siano oggi validi anche nella comunità scientifica: è il caso del pluralismo, che si sostanzia nella competizione tra idee scientifiche e programmi di ricerca (che però assume sostanzialità solo se a entrambi i programmi sono attribuiti finanziamenti equiparabili, cosa che non sempre avviene), così come dell’orizzontalità del dibattito che porta la comunità scientifica a stabilire il consenso necessario per accogliere o meno una teoria scientifica. La differenza con la democrazia tradizionale sta naturalmente nel fatto che il principio di maggioranza non si attua nel dibattito scientifico; ma in entrambi i casi la presenza di una minoranza dissenziente – se le sue affermazioni sono ben fondate – dà vigore al dibattito democratico. Non sempre questo avviene, per la verità, nel mondo scientifico, dove anche su temi che hanno scarso o nullo impatto sulla società, come i dibattiti in fisica teorica o cosmologia, diverse voci critiche si sono sollevate di recente sulla presenza di un mainstream che ostacola i programmi di ricerca alternativi (è il caso delle polemiche sollevate dai testi di Lee Smolin, Peter Woit, Roger Penrose, Sabine Hossenfelder, che si rincorrono negli anni, a dimostrazione di un problema tuttora irrisolto).
Dorato affronta questo tema nel capitolo centrale del libro, il quarto (“La disinformazione scientifica e la sfiducia negli esperti”), a partire dal problema posto nel celebre libro di Naomi Oreskes ed Erik Conwey Mercanti di dubbi (2010; tr. it. Edizioni Ambiente, 2019), dove è analizzato il modo in cui diversi scienziati “al soldo” di lobby del tabacco o compagnie petrolifere hanno a lungo rallentato l’acquisizione dell’evidenza scientifica riguardo la correlazione tra fumo e cancro o tra combustibili fossili e cambiamenti climatici. A ciò si aggiunge il problema delle frodi scientifiche, che periodicamente torna in auge in relazione a ricerche taroccate pubblicate su periodi scientifici. Il problema assume una centralità evidente nella discussione delle tesi del libro, perché rischia di inficiare tutto il discorso sulla fiducia negli esperti. Ed è proprio qui infatti che l’analisi di Dorato mostra le sue debolezze. Se infatti la comunità scientifica trascina al suo interno problemi irrisolti riguardo tanto le ipotesi scientifiche quanto (ancor più gravemente) le premesse metodologiche, come nel caso delle teorie fisiche, è la scienza stessa a perdere credibilità agli occhi dei non addetti ai lavori. Questa è una delle spiegazioni principali che sono state avanzate da studiosi di sociologia e comunicazione della scienza alla diffusione di teorie pseudoscientifiche da parte di gruppi che nulla hanno a che vedere con la comunità scientifica propriamente detta, ma che traggono spunto dalle critiche interne alla comunità scientifica per proporre teorie e ipotesi eterodosse (una buona introduzione è il testo di Margaret Wertheim Tutti pazzi per la fisica, Dedalo, 2013).
Dorato non sembra tenere in gran conto, nella sua esposizione, le critiche di filosofi della scienza come Paul Feyerabend e Imre Lakatos sui limiti della concezione “classica” del metodo scientifico; in particolare, nell’ultimo capitolo cerca di confutare la tesi “della relatività delle verità delle teorie scientifiche (e della verità in generale) a periodi storici diversi e – in un dato momento storico – a gruppi ed etnie diverse, a persone di diverso sesso, e a interessi non scientifico di vario genere”. Dorato propone di difendere la “desiderabilità dell’oggettività scientifica”, ritenendo che l’oggettività non sia – come sostengono alcuni critici – uno strumento di oppressione etnocentrico nei confronti del pluralismo dei punti di visita, ma una condizione imprescindibile delle democrazie contemporanee. Qui l’aderenza di Dorato alle tesi di Karl Popper diventa totale: una “società aperta” come quella difesa da Popper non si costruisce con il relativismo delle idee, ma con la condivisione di concetti comuni, tra cui l’adesione al metodo scientifico.
Se questa tesi è sicuramente condivisibile (va ricordato che il “relativismo” culturale della scienza era stato promosso per esempio in Unione sovietica con il caso Lysenko), al tempo stesso appare inadeguata ad affrontare i nuovi problemi che affliggono la società occidentale contemporanea. Dorato infatti, citando di sfuggita, insieme ai terrapiattisti, le teorie del complotto pluto-giudaico massonico, si chiede “perché esse si diffondano, anche se in modalità diversa” rispetto al passato (per esempio rispetto al periodo del nazismo), concludendo però che si tratta di un “compito che non possiamo affrontare in questa sede”. Eppure proprio questo è il tema centrale che il lettore si sarebbe aspettato affrontato nel libro. Dorato è invece più interessato a seguire Popper e Bobbio nella confutazione di ogni forma di democrazia diretta in un’epoca di necessaria iper-specializzazione, senza però cadere nel rischio tecnocratico. Un esempio che egli propone è quello della libera scelta del cittadino, attraverso il testamento biologico, di rifiutare la miglior terapia di supporto palliativa in caso di malattia terminale invalidante (il cosiddetto “accanimento terapeutico”); una scelta che richiede una precisa conoscenza dei pro e dei contro del protocollo terapeutico, quindi l’affidamento su una conoscenza scientifica che il cittadino, di per sé, non possiede, ma su cui si fida per prendere una scelta.
L’esempio, tuttavia, sembra mettere in crisi le tesi di Dorato. Se una forma classica di democrazia diretta è infatti quella del referendum, dov’è la differenza tra il “consenso informato” del paziente, e la scelta che il cittadino opera quando è chiamato a esprimersi su un tema per il quale ha necessariamente bisogno di acquisire informazioni scientifiche esperte? La differenza sottintesa è che spesso il cittadino non si informa, o meglio sceglie fonti di informazioni alternative non affidabili per prendere la sua decisione, a detrimento del valore dell’oggettività scientifica. Ma questo vale anche per il paziente, il quale potrebbe opporsi o al contrario accettare l’accanimento terapeutico per ragioni culturali, per esempio religiose, senza considerare l’aspetto meramente scientifico.
Per difendere le sue tesi, Dorato fa ricorso al teorema della giuria di Condorcet, un celebre “esperimento mentale” che dimostra come al crescere della maggioranza aumenti la possibilità che venga espressa la decisione più giusta; nella formulazione di Dorato, il teorema viene modificato per affermarne la validità non solo al crescere della maggioranza (quindi in presenza di una società democratica) ma anche in presenza di un certo livello di conoscenze necessarie a prendere la decisione (principio di competenza). Se ciò è vero – non è il caso di entrare nel dettaglio delle possibili confutazioni analizzate da Dorato – non si vede perché ciò si applichi solo a una democrazia rappresentativa e non anche a forme di democrazia diretta, come nel caso dei referendum: anche in questo caso, i cittadini in linea di principio scelgono sulla base di un’opinione assunta dopo aver sentito i pareri degli esperti, e anche in questo caso la maggioranza dovrebbe essere più portata a prendere la scelta corretta.
Il problema vero che emerge qui è la presenza di questioni scientifiche che non sono necessariamente vere o false. Il primo assunto di base del teorema della giuria è che il giurato sia o colpevole o innocente; nel caso di specie, tra due ipotesi scientifiche contrapposte deve esisterne una vera e una sbagliata. Ma se questo è vero, allora la scelta della maggioranza è irrilevante, perché non abbiamo bisogno dell’opinione di una maggioranza (che sia di scienziati o di cittadini) per decidere tra il modello tolemaico o quello copernicano. Viceversa, esistono fatti scientifici su cui non è possibile un’interpretazione univoca. È il caso della scienza postnormale teorizzata da Silvio Funtowicz e Jerry Ravetz in contrapposizione alla scienza normale di matrice kuhniana, che poi è quella che prende in considerazione Dorato nel suo libro. La scienza postnormale si occupa di questioni scientifiche dove l’incertezza dei fatti, il ruolo dei valori, la presenza di interessi e la potenzialità dei rischi implicano l’abbandono di un’idea di oggettività della scienza. È il caso, per esempio, dei temi riguardo la costruzione di centrali nucleari, o del dibattito sulla linea TAV in val di Susa. Un esempio ancora più chiaro è quello del referendum sulla procreazione medicalmente assistita nel 2005, dove la questione in gioco non riguardava tanto l’obiettività dei fatti scientifici quanto l’importanza superiore attribuita da una parte dei cittadini a questioni bioetiche, spesso di orientamento religioso. Pensare di poter definire i temi della scienza postnormale con un approccio fondato sull’oggettività della scienza è illusorio.
La soluzione del dilemma posto nel libro, ossia una dialettica tra autonomia di scelta e fiducia negli esperti che rafforzi la democrazia senza scadere nella tecnocrazia né nel populismo, è trovata da Dorato in un’alfabetizzazione scientifica che non si limiti a fornire conoscenze tecniche, ma privilegi piuttosto l’orientamento al metodo scientifico. Per riuscirci, diventa importante introdurre fin nelle scuole superiori (l’autore si limita a parlare di “licei”) la storia e la filosofia della scienza. Non è un’idea nuova; da tempo chi si occupa dei problemi della disinformazione scientifica promuove una maggiore insistenza sulla questione metodologica in chiave storico-critica nelle scuole (un esempio tra i tanti è Marco Ciardi, per es. nel libro Galileo & Harry Potter. La magia può aiutare la scienza? Carocci, 2014). Illusoria è tuttavia la speranza di Dorato che basti conoscere i concetti di probabilità, causalità e correlazione per salvare scienza e democrazia. Non è nel positivismo logico che risiede la soluzione a questo grande dilemma dei nostri tempi.
Disinformazione scientifica e democrazia è dunque un testo che, pur fornendo una rigorosa ma non sempre condivisibile analisi del tema scienza-democrazia, affronta in modo meno convincente il tema della disinformazione scientifica annunciato nel titolo. Sul primo tema, se la difesa del principio democratico da parte di Dorato come argine alla tentazione tecnocratica è ampiamente condivisibile, la sua argomentazione secondo cui soluzioni di democrazia diretta sono inadeguate ad assumere decisioni relative a ipotesi scientifiche non è sufficientemente solida e va anzi nella direzione esattamente opposta a quella desiderata dall’autore: se il cittadino, infatti, deve necessariamente delegare a un esperto la decisione su un determinato tema, come potrà mai essere spinto ad acquisire una maggiore conoscenza del tema? Se invece deve farlo per poter esprimere la sua decisione, perché, anziché decidere direttamente, deve delegare un esperto di cui condivide l’opinione? Infine, il tema-chiave della società della disinformazione, vale a dire la crescente diffusione di teorie pseudoscientifiche e complottiste pur in presenza di un aumento dell’alfabetizzazione scientifica, non viene toccato nel libro. Qui infatti viene a essere inficiato il terzo assunto che Dorato aggiunge al teorema della giuria di Condorcet: che i giurati non si influenzino l’un l’altro prima di assumere una decisione. Sappiamo invece che le cose non stanno così, e che bastano un po’ di fake news diffuse in Rete a orientare una parte della cittadinanza verso una decisione scientificamente sbagliata, per esempio quella di non vaccinarsi. Il libro di Mauro Dorato rappresenta insomma un ottimo inquadramento del problema; ma per trovare le soluzioni la strada è ancora molto lunga.