La vera storia del fantasma di vicolo Canonica a Novara
Giandujotto scettico n° 73 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (08/10/2020)
Potete trovarla citata in tutti i libri sui misteri di Novara – e negli articoli, nelle conferenze, nei tour da brivido che si fanno per la città. Perché tutti conoscono la leggenda di Celestina, il fantasma di una prostituta uccisa che si sarebbe aggirato per diversi anni in vicolo Canonica, a due passi dal duomo, uno dei simboli della città (immagine in evidenza). Prendiamo la sua storia da un articolo dello scrittore William Facchinetti Kerdudo, pubblicato il 3 aprile 2010 sul Corriere di Novara:
Nel vicolo Canonica, all’altezza di un cancello che permette l’accesso ad un piccolo cortile, è stata posta l’immagine di una Madonna con bambino risalente alla prima metà del 1800. Quest’iconografia tutt’oggi presente, anche se ormai nessuno vi fa più caso, servì a scacciare la presenza della terribile “donna velata”. Facciamo un piccolo passo indietro nella storia. All’interno del cortiletto del vicolo viveva e lavorava un fabbro. Soprannominato Mazzagat, era rinomato per il suo carattere burbero e iroso. Una notte, durante uno dei suoi soventi litigi con l’amante Celestina, colto da furia omicida, la uccise. Il Mazzagat fu arrestato e successivamente condannato all’ergastolo, ma nel vicolo non tornò la pace tanto sperata.
Dalla notte dell’omicidio, nelle vicinanze della casa del fabbro, iniziò a comparire la diafana figura di una donna col viso coperto da un velo nero. Chiunque avesse avuto la sfortuna d’incontrarla riceveva sventura e malocchio. Si diffuse il panico in tutta la città, la gente non osava più incamminarsi per il vicolo dopo il tramonto per la paura d’imbattersi in Celestina, la donna velata. Non è dato a sapersi chi trovò il coraggio di apporre l’immagine della Madonna nel vicolo Canonica, ma da quel giorno le apparizioni di Celestina cessarono. Forse ha trovato pace, forse si è nascosta nei cunicoli sotterranei della Novara romana o semplicemente attende un nuovo momento propizio per ricomparire nella nebbia a qualche malcapitato turista…
Ma, leggende a parte, cosa sappiamo davvero del delitto? Cominciamo col dire il crimine che non risale affatto alla “prima metà del 1800”, ma al 1902. I dettagli furono riportati ampiamente da La Stampa, che dedicò al processo una serie di articoli usciti il 15, 16 e 17 luglio 1903. Ma andiamo con ordine.
È il 18 novembre 1902 quando su La Stampa compare il primo pezzo sulla vicenda, L’assassinio di una donnina allegra a Novara. La “donnina allegra” – come si diceva all’epoca – era Celestina Ragazzi, “donna di facili costumi”, secondo il quotidiano. Proprio quella mattina, un portalettere era andato a consegnarle una missiva; aveva trovato la porta aperta, e la disgraziata svenuta in un lago di sangue. Vennero chiamati i soccorsi, accorsero le guardie, i funzionari di Pubblica sicurezza e il giudice istruttore.
La donna, ancora viva ma in condizioni gravissime, fu trasportata all’Ospedale Maggiore con una carrozza. I primi accertamenti esclusero il movente della rapina: gli oggetti di valore non erano stati portati via. Il letto risultava ancora intatto: probabile che l’aggressione risalisse già alla sera prima. Inizialmente venne arrestato un vicino di casa, ma il quotidiano ipotizzò si fosse trattato di “vendetta di un ex amante della donnina allegra”.
Il 19 novembre, La Stampa forniva già i risultati delle prime indagini. La vittima presentava numerose ferite al collo e alla testa, inferte probabilmente con un’arma da taglio, e segni di violente percosse in tutto il corpo. In ospedale non aveva ancora ripreso conoscenza. Celestina Ragazzi era una donna di 36 anni; abitava da anni in via Pietro Azario (più tardi si scoprirà che casa sua si trovava al pianterreno e che il civico era il 4), in un appartamento di sua proprietà. Era lì che era stata trovata dal portalettere.
Nello stesso palazzo viveva da anni un certo Giuseppe Gambaro (ma su La Stampa del 23 novembre verrà chiamato Giovanni e su quella del 15 luglio 1903 Francesco): un “uomo da osteria”, secondo la definizione del quotidiano torinese, che aveva dato fondo ad “un patrimonio di circa lire 20.000”. L’uomo era stato portato in questura e interrogato, anche perché con la vittima aveva già avuto “parecchie questioni”. Ma Gambaro negava ogni addebito, e non c’erano indizi a suo carico. A quel punto le indagini si concentrarono sul passato della donna:
Già liti e ferimenti erano avvenuti da parte di ex-amanti in casa sua e la Ragazzi spesso aveva fatto parlare di sé. Pochi mesi fa certo Baratelli Carlo, detto Massagatt, suo amante negli anni addietro, uscito di carcere, dove era stato condannato per rissa, offeso per l’oblio della sua bella, si portò nottetempo in casa sua e l’aggredì, inferendole alcune coltellate non mortali, fuggendo tosto alle ricerche dell’Autorità. Attualmente egli è uccel di bosco e contro di lui dal luglio scorso fu spiccato mandato di cattura.
La notte del 23 novembre 1902, Celestina spirò: le poche parole pronunciate dalla donna non erano bastate a risolvere il mistero del suo delitto. A darne notizia fu La Stampa del giorno successivo, che faceva anche il punto della situazione. I principali sospettati erano due: Giovanni Gambaro, amante della donna, già sposato e con figli, che era stato arrestato ma che professava la sua innocenza, e l’ex di Celestina, Carlo Baratelli (altrove verrà chiamato Giovanni), detto il Mazzagatt (cioè “ammazzagatti”, termine che all’epoca poteva anche identificare una pistola a canna corta). In entrambi i casi il movente poteva essere quello della gelosia: peraltro, sembrava che poco tempo prima la donna avesse scambiato promesse di matrimonio con un figurinaio (cioè, un venditore di statuette) residente in via Levizzora (forse Lavizzari?); una circostanza che avrebbe potuto facilmente scatenare la vendetta di uno due uomini.
Per un po’, non ci furono altre notizie. Il 6 dicembre, tuttavia, a Novara un uomo si suicidò: si chiamava Giovanni Battista Galli, era nativo di Mirto (Messina) ed era un ex-militare, poi diventato calzolaio e “accenditore” (erano, all’epoca, gli uomini incaricati di accendere e controllare i lampioni stradali, ma fungevano anche da guardie di quartiere). Si era inferto due colpi con il trincetto da calzolaio, all’interno del suo stesso negozio. Lo aveva fatto, secondo La Stampa dell’8 dicembre, perché si riteneva sospettato del delitto di Celestina Ragazzi, anche se alle autorità nulla risultava a suo carico. Difficile, ormai, decifrare le ragioni di una simile convinzione: nessun giornale sembra riportare alcunché.
Poi, il 10 dicembre, la svolta: Baratelli, il Mazzagatt o Massagatt che dir si voglia, era stato arrestato (La Stampa, 11 dicembre). Era arrivato a Novara a piedi, da Trecate, e si era fermato a riposare a casa della madre e dei tre fratelli, che abitavano “ai piedi del bastione del Dock”. Sperava di farla franca grazie alla fitta nebbia, ripartendo subito dopo. Venutane a conoscenza, l’autorità di Pubblica Sicurezza aveva mandato a prenderlo una squadra di dodici uomini, che lo avevano arrestato e portato in questura. Interrogato sull’omicidio di Celestina, Baratelli aveva affermato di non saperne nulla, e che “se ciò avesse voluto fare, lo avrebbe fatto sei anni or sono”. Ma ormai era lui l’indiziato numero uno, e fu quindi rinchiuso nelle carceri del Castello di Novara, in attesa di processo.
Questo, come dicevamo, venne seguito nei dettagli dai cronisti de La Stampa, che ne parlò in tre lunghi reportage. Anche per il clamore che aveva suscitato il delitto, il pubblico era numerosissimo. La seduta si era aperta con l’enunciazione delle generalità dell’imputato: Giovanni Baratelli detto il Massagatt, 37 anni, di Novara, figlio di Pietro Baratelli e Rachele Ferrara. Venivano poi descritte le circostanze in cui era stata trovata la vittima, nel suo appartamento di via Azario 4: semivestita, in un lago di sangue, con il lume a gas ancora acceso e il letto intatto, una sedia rovesciata nella stanza.
All’Ospedale Maggiore, dove era stata trasportata, le erano state riscontrate tre ferite da coltello: una alla testa, una sotto al mento e una sul braccio destro. Al capo e al petto, presentava invece numerose altre lesioni, probabilmente inferte con un bastone. La morte era stata provocata, oltre che dalla ferita alla tempia, anche dalle percosse, che le avevano provocato lesioni al cervello. Durante il ricovero, Celestina era stata interrogata dal giudice istruttore, ma non era riuscita a parlare: a cenni, in un momento di lucidità, aveva però fatto capire che il colpevole era il Mazzagatt. Era poi morta senza riuscire a dire altro.
Su di lei, non si sapeva molto di più: era nata a Mirandola, in provincia di Modena, e qui aveva frequentato le scuole “fin quasi alla patente di magistero”. Dalla relazione con un ufficiale aveva avuto un figlio; ma nessun’altra informazione veniva data. Per contro, l’imputato aveva un ricco curriculum da presentare: era, secondo La Stampa, un “tristissimo soggetto”, con numerose condanne per lesioni, danni, violenze carnali, minacce. Era stato amante della Ragazzi, ma sembrava che la picchiasse abitualmente. Alla fine lei, stanca delle botte e di mantenerlo nell’ozio, lo denunciò alla procura per minacce e lesioni. L’uomo venne condannato a 27 mesi di carcere e ad altri due di vigilanza da parte della Polizia, e giurò che avrebbe ammazzato la donna. Ai suoi compagni di cella, Baratelli aveva dichiarato di volerla uccidere per poi scappare in America.
Uscito di prigione, “fedele alle promesse”, aveva aggredito l’ex amante ferendola al collo con un coltello, e tanto per aggravare la sua posizione, aveva pensato bene di pugnalare anche altre persone, accorse alle grida della poveretta. Costretto alla fuga, si era dato alla latitanza, venendo condannato in contumacia a 14 mesi e 15 giorni di reclusione.
Poi, alle 23 del 17 novembre, l’omicidio. A quell’ora, alcuni vicini avevano sentito delle grida provenire dall’abitazione di Celestina, ma non vi avevano fatto caso, abituati alle tante scene di gelosia che avevano per teatro quella casa. Sempre quella sera, il Baratelli si era presentato all’osteria di un amico a Galliate, “agitato e misterioso”, chiedendo in prestito del denaro. Una volta arrestato, l’uomo aveva negato ogni addebito: da tempo viveva in Svizzera o in Francia, e il giorno del delitto – diceva – si trovava all’estero. Dall’istruttoria, risultò invece che il 15 era stato visto a Vercelli e il 17 a Novara, non lontano dalla casa dell’uccisa. In quella circostanza, avrebbe tirato fuori il coltello e parlato di un “colpo” che avrebbe presto fatto.
All’udienza, la mattina del 14 luglio 1903, l’uomo si era presentato ben vestito e sicuro di sé. Così lo descriveva il cronista de La Stampa:
Nel gabbione sta il Massagat di Novara. È un tipo volgare; veste assai elegantemente; ha una faccia piuttosto quadrangolare, nella quale spiccano due baffetti neri arricciati. Indossa una giacca bleu con calzoni a piccoli quadretti e porta una cravatta svolazzante con camicia bianca. Ascolta attentamente la lettura dell’atto d’accusa e ogni tanto sogghigna e dondola la testa, quasi volesse significare che tutto ciò che si dice a di lui carico è falso.
Interrogato sulla sua relazione con Celestina, il Mazzagat aveva negato di averla minacciata, e anche di averla ferita quando era uscito di prigione. Solo, c’era stata una lite, e le aveva dato una spinta. Poi si era recato a Briga e infine a Grenoble, ma lì era stato “perseguitato dai gendarmi, i quali pretendevano le carte di riconoscimento”. Tornato a Novara, era stato accusato dalla “voce pubblica” dell’omicidio, ma si trattava solo di calunnie.
Dopo la sua deposizione, il presidente gli lesse le sue prime dichiarazioni agli inquirenti, facendogli notare le numerose contraddizioni in cui era caduto. E così, alle 11.30, la prima parte dell’udienza fu chiusa. Quel pomeriggio sfilarono i testimoni dell’accusa. Venne letta la “commovente lettera” che aveva scritto Celestina Ragazzi all’epoca della sua prima denuncia, per invocare la protezione contro quell’uomo. Poi fu presentata la perizia medica che certificava le percosse. Fu la volta quindi di una vicina di casa, che affermò che Celestina era un’attaccabrighe e che quella sera, verso le 23, aveva sentito rumori di una rissa. Quindi fu la volta del padre della giovane, che narrò le vicende della figlia con assoluta indifferenza (“Non sa chi la uccise. Non accusa”, commenta il cronista).
Francesco Gambaro detto Il Biondo, amante e servitore della donna che era stato arrestato in un primo momento, ammise di aver sentito delle urla verso le 22.45, quando si trovava già a letto, ma di non essere accorso in aiuto, perché temeva per la sua vita. Era, questi, un uomo di circa sessant’anni; aveva abbandonato moglie e figli, e, dilapidato un patrimonio, si era ridotto a fare piccole commissioni e servizi a Celestina. Viveva in una soffitta sopra alla casa della vittima, e secondo la voce pubblica non sarebbe stato in grado di uccidere nessuno. Tre testimoni, tra cui il portalettere che aveva ritrovato il cadavere, parlarono in suo favore, giudicandolo un “brav’uomo” e di “carattere mite”. Seguirono infine le deposizioni di coloro che avevano visto il Mazzagat nel giorno dell’omicidio e nei precedenti, e l’udienza fu tolta.
Riprese il giorno dopo, alle 9.30. Ad aprirla, il promesso sposo di Celestina Ragazzi, un figurinaio di nome Romano Pellicci, residente a Torino. Aveva una relazione con la donna dal 1901, e i due si erano persino scambiati promesse di matrimonio. L’anno successivo c’era stata l’aggressione del Mazzagat, che aveva ferito la donna con un coltello cercando poi di strangolarla: all’epoca lui si trovava a Basilea ed era ritornato subito a Novara. A suo dire era stato Baratelli a ucciderla, per terminare il lavoro che aveva iniziato in quell’occasione.
Della stessa idea era il fratello di Celestina, Attilio. Tra i due fratelli non correvano buoni rapporti, ma l’uomo sapeva che la donna aveva vissuto con Baratelli, e che lui la maltrattava. Una testimonianza simile fu resa dal figlio della donna, 15 anni, che si chiamava anche lui Attilio. Il ragazzo era in collegio a Canale, nel Cuneese, ma al momento del delitto si trovava in Svizzera con Romano Pellicci.
Al processo, testimoniò che Baratelli picchiava continuamente sua madre, che la inseguiva spesso armato di coltello, e che una volta l’aveva rincorsa fino in chiesa. In un’altra occasione, voleva colpirla con una cintura fornita di bottoni di piombo. Non pago, l’uomo maltrattava anche lui, mentre il Gambaro gli aveva fatto da padre. Seguirono altre deposizioni di testimoni che volevano l’imputato a Novara il 17 novembre, e fra queste quella dell’oste presso il quale aveva alloggiato Baratelli il giorno del delitto; e, ancora, quelle dei funzionari di polizia coinvolti nell’arresto, a cui l’uomo aveva dichiarato che il giorno del delitto si trovava a Grenoble.
Infine, al pomeriggio, si passò ai testimoni della difesa. In favore dell’imputato parlò un ex compagno di carcere, il quale dichiarò che il Massagatt mai gli aveva confidato propositi di vendetta. Vennero lette anche due deposizioni in cui si dichiarava che Celestina, in ospedale, mai lo aveva accusato. Alle 19 la seduta fu sciolta e rimandata al giorno dopo.
Il 16 luglio, infine, si passò alle arringhe dell’accusa e della difesa. La prima sostenne che si era trattato di omicidio, peraltro premeditato, essendo arrivato l’assassino a Novara armato di coltello, e che Baratelli era un “cattivissimo soggetto”, che in più occasioni aveva aggredito e picchiato la vittima.
La difesa puntò invece sul fatto che l’imputato si era sempre dimostrato tranquillo, come se non avesse alcun peso sulla coscienza (a quel punto, il Massagatt scoppiò a piangere). Dipinse poi Celestina come una “donna isterica dedita ai pettegolezzi e alle liti”, contestò l’assenza di prove, fece notare che in caso di omicidio premeditato l’imputato non si sarebbe fatto vedere in giro.
Alle 15, giunse finalmente il verdetto: l’imputato era colpevole, condannato a trent’anni di reclusione e dieci di vigilanza. Il Baratelli ascoltò la sentenza a capo chino. Nessun’altra informazione abbiamo trovato sulla sua sorte, al di là del fatto che il Corriere di Novara del 23 luglio 2016 racconta che l’uomo sarebbe morto in carcere.
Questa, insomma, è la storia del delitto di Celestina Ragazzi, un crimine che al giorno d’oggi definiremmo un “femminicidio”. Pochissimo ci resta della vittima, al di là degli epiteti che le riservò La Stampa: demi mondaine, cocotte, donna di facili costumi, donnina allegra.
Le storie sul suo fantasma non compaiono sui giornali, neanche negli anni successivi. Per quanto siamo riusciti a ricostruire, arrivano sulle cronache locali solo nell’ultimo decennio – ma i giornali novaresi sono molti e potrebbero esserci tracce precedenti. Sembrano però leggende fiorite nel tempo, con il ricordo distorto di un omicidio di tanti anni prima.
Di recente uno scrittore novarese, Marco Scardigli, ha scelto di consacrare la vicenda in un romanzo: Celestina. Il mistero del volto dipinto (Mondadori, 2016). Il racconto si concentra su un particolare che La Stampa a suo tempo non riportò: il ritrovamento di Celestina con il volto imbrattato di nero. Il dettaglio potrebbe essere contenuto in qualche cronaca locale che non abbiamo consultato, o potrebbe far parte delle dicerie sorte intorno al delitto, oppure essere né più né meno che una mera invenzione letteraria di Scardigli.
Al di là di questo dettaglio, però, le discrepanze tra cronaca d’epoca e leggenda sono parecchie. La donna non viveva in vicolo Canonica, né ci viveva il Mazzagat. Che il loro domicilio fosse lontano da quella strada sembra confermato anche dall’attuale occupante della casa di Celestina Ragazzi, che avrebbe ritrovato gli originali atti di vendita.
E che dire, infine, della Madonnina di vicolo Canonica? Pare non c’entri. Nel 2017 Franco Ferrario, classe 1934, scrisse a diversi giornali per far cessare quella diceria, rilanciata anche a causa di alcune iniziative volute dal Comune. Riportiamo uno stralcio della lettera:
“Chi cammina per questo vicolo avrà sicuramente notato che circa a metà del percorso, proprio accanto al cancello del n° 6, v’è murata ad una certa altezza un piccola Madonnina di terracotta, che per anni era rimasta deturpata da una brutta macchia nera. Orbene, qualcuno in vena di fantasia e a corto d’ispirazione aveva di recente messo in relazione questa piccola Madonna murata con l’oscura storia del delitto della Celestina, il cui fantasma – dicevano – continuerebbe ad aleggiare proprio in quel posto.
L’uccisione della Celestina è purtroppo vera ed è stata di recente raccontata in un brillante romanzo di un ben noto autore novarese […] Qualcuno sulla base di quella vicenda aveva iniziato a diffondere su alcuni siti novaresi del social network una storia fasulla sul disperato fantasma della povera Celestina dalla faccia nera e sull’antica Madonnina lì allora posta dagli abitanti del vicolo per esorcizzare quella tragica fine e per tenerne a bada lo spettro invendicato. Così dicevano.
Nulla di più falso. Nel romanzo stesso viene precisato che la casa del delitto si trovava in via Azario, sull’angolo con via Brusati e non in vicolo Canonica. Se vi è un fantasma, si trova lì.
Inoltre, la Madonnina è stata murata in quel posto abbastanza di recente, solo vent’anni fa, nell’ottobre 1997. La data, infatti, appare sul soglio di una finestrella raso terra accanto all’entrata del n° 2c, corrispondente al noto negozio di parrucchiere.
Come faccio a conoscere questi dettagli? Semplicemente per il fatto che la casa in questione appartiene alla mia famiglia da alcune generazioni. Io vi sono nato più di ottant’anni fa, vi sono cresciuto e ancora felicemente vi abito. Conosco quindi il vicolo della Canonica come le mie tasche, tutti i suoi angoli e tutte le sue tante antiche storie, sia quelle belle che quelle brutte.
La Madonnina la feci murare io stesso quando fu rifatto il vecchio intonaco della casa, non certo per scacciare un inesistente fantasma, ma per ricordare che quello era il luogo dove per tutto il Medioevo esisteva l’antico Ospedale di s. Giuliano, allora gestito dai Paratici dei Calzolai.
Non è quindi una Madonnina antica, come invece viene falsamente propalato. L’avevo acquistata dalle parti di Pontedera solo qualche anno prima. Artigianato toscano, quindi, di buona qualità. Son vent’anni esatti che è stata lì murata, come ho detto, e per celebrare la ricorrenza è stata ripulita dalle sue brutte macchie nere, riportandola così al suo originale splendore.” (Novara Oggi, 17 novembre 2017)
Era dunque, per lui, ora di
“porre fine a tutte quelle dicerie e a quelle storie infondate che vengono diffuse senza alcun discernimento. Molti infatti finiscono col crederci davvero. Recentemente persino il sito del Comune che organizza le visite del Trekking Urbano le ha riportate come vere. Non è giusto” (Novara Oggi, 17 novembre 2017).
E non pare giusto nemmeno a noi: se vogliamo davvero ricordare la vicenda di Celestina, ricordiamola come vittima di un brutale omicidio, non certo per il suo fantasma – uno spettro, oltretutto, un po’ così, che appare a un indirizzo diverso da dove avvenne il delitto, velato anche se la vittima era semivestita al momento dell’aggressione, scacciato da una Madonna che non era stata messa lì per quello. Un fantasma “da turismo” che, ai nostri occhi, non ha nemmeno il pregio di essere vintage.