Quando il cancro del parabrezza invase l’Italia
Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
Vetri di autoveicoli che esplodono senza un motivo apparente. Isolati o a gruppi, in pochi giorni o settimane, fino a diventare centinaia o migliaia. Esplosioni silenziose o accompagnate da scoppi, in qualche caso da lampi o da nuvolette… Diffuse sul territorio di intere nazioni, oppure concentrate su brevi tratti di strade “maledette”.
Una mania collettiva che fu presente a lungo e che in Italia assunse il nome di cancro del parabrezza, ma che diventò un fenomeno planetario nella primavera-estate del 1954, dopo aver raggiunto livelli incredibili negli Stati Uniti, in particolare negli Stati che si affacciano sul Pacifico, con il massimo nello Stato di Washington.
Un fenomeno che assunse caratteri senza precedenti il 16 aprile di quell’anno, quando il sindaco di Seattle, città industriale di mezzo milione di abitanti con al centro le attività aeronautiche della Boeing, dopo lunghe ore in cui il controllo della situazione gli era sfuggito di mano, alla sera inviò un telegramma urgente al presidente Eisenhower chiedendogli un intervento personale, giacché in quella parte d’America stava succedendo qualcosa di “misterioso”.
Fu quello il giorno in cui le agenzie di stampa statunitensi fecero conoscere al mondo quanto stava succedendo – anzi, lo fecero mentre i casi nella zona di Seattle stavano già diminuendo.
Il “cancro” americano giunse sui giornali italiani come una tempesta il 17 aprile sotto l’etichetta di “pallottole invisibili”, come le chiamarono le prime fonti, per le quali le ipotesi per spiegare le migliaia di casi che stavano colpendo la costa dell’oceano erano vandalismi di massa, oppure effetti degli esperimenti termonucleari nelle isole del Pacifico (e nell’immagine in evidenza ecco una donna misurare la radioattività del parabrezza della sua auto con un contatore Geiger a Seattle, dal Corriere d’Informazione del 22-23 aprile 1954), o ancora microscorie volatili derivanti dalle attività produttive delle cartiere di quella zona.
Un chimico, però – e non uno scienziato sociale – il professor David M. Ritter, già in quei giorni di enorme eccitazione non aveva perso la bussola. Intuendo fin da subito la natura psicogena dell’ondata di segnalazioni, aveva già parlato, usando un linguaggio senza sfumature, di “una colossale allucinazione collettiva”.
Mentre gli episodi si estendevano come un lampo alla Columbia Britannica canadese, l’ipotesi “definitiva”, presentata con grande enfasi dal Corriere d’Informazione del 22-23 aprile 1954, fu quella avanzata biologo canadese Paul H. D. Parizeau, secondo il quale il fenomeno era reale ed era causato dalla contaminazione radioattiva di enormi masse di radiolari presenti nel fondo del Pacifico, scagliate nell’atmosfera dalle esplosioni delle bombe sperimentate dai militari americani e sospinte dai venti verso la costa americana, dove ricadevano… rovinando in modo selettivo i parabrezza.
Oggi sappiamo che ciò di cui vi abbiamo parlato finora era parte di una mania generale che negli anni ‘50 del XX secolo ma soprattutto nel 1954 colpì un gran numero di Paesi. A parte quelli del Nordamerica, fu descritto in Gran Bretagna, in Francia, Belgio, Olanda, Svizzera, America del Sud, Germania, Danimarca…
Poco dopo il picco americano dell’aprile 1954, comunque, il fenomeno raggiunse anche l’Italia.
Invasione!
Quando fece la sua comparsa italiana il cancro del parabrezza? Con precisione non lo sappiamo. La prima volta lo vediamo sui giornali italiani il 15 maggio 1954, ma le fonti non lasciano dubbi sul fatto che le voci su episodi nel nostro Paese circolassero almeno da un paio di settimane.
Fu il Giornale del Mattino di Firenze ad aprire le danze, e non con un trafiletto o con qualche cenno vago, ma con un grosso articolo che, di colpo, parlava di “un certo allarme” creatosi per la comparsa del fenomeno. Stando all’articolista, che si siglava F. A., il cancro del parabrezza si era manifestato diverse volte in provincia di Macerata nel giro di pochi giorni. Il primo caso era della sera del 2 maggio: il guidatore di una “Topolino”, sul ponte della Statale 16 che attraversa il fiume Cesano, aveva sentito uno scoppio e aveva visto formarsi una macchia bianca sul vetro, che subito dopo era andato in mille pezzi. Anche il bollo dell’auto, al momento dello scoppio, era sparito! Ma non era il solo: il responsabile di un’impresa di costruzioni aveva visto esplodere il parabrezza della sua “Ardea” mentre era tra Ancona e Falconara. Un ciclista di passaggio gli spiegò che a lui era capitato il giorno prima, mentre guidava un grosso autocarro oltre Falconara. A un ingegnere era successo ancora sulla litoranea, a Rocca Priora, a qualcun altro nell’interno, a Ostra Vetere, ma addirittura si raccontava che il guaio avesse colpito alcuni piloti della Mille Miglia, sempre nella zona di Cesano (il Corriere della Somalia spiegava, sempre il 15 maggio, che le auto danneggiate durante la corsa erano state quattro)…
Ma che cosa preoccupava, al di là del danno subito?
Tanto per cominciare, anche da noi le notizie sui fatti americani avevano fatto pensare alla “cenere atomica”, ma anche a non meglio precisate “irradiazioni dell’atmosfera marina”. Il responsabile di una vetreria diceva cose ancora più curiose: a lui, per l’America la “fantasia” degli effetti atomici gli sembrava plausibile, per le Marche no! Doveva trattarsi di difetti di composizione del vetro temperato… Ma il panorama in cui, a quanto pare, il panico del cancro del parabrezza arrivò anche da noi fu complicato da altre voci concomitanti. Nelle Marche, in quei giorni si diceva che nella notte fra il 24 e il 25 maggio Ancona sarebbe stata travolta da un maremoto e da un terremoto e che, contemporaneamente, il tranquillo monte Conero si sarebbe trasformato in un vulcano in eruzione che avrebbe incenerito vaste zone!
Fu soltanto in giugno, comunque, che le presunte rotture anomale cominciarono ad assumere diffusione generale. Il 1° giugno, vicino a Legnago (Verona), dopo uno scoppio va in minutissimi pezzi il parabrezza di una Lancia “Artena”. Radiazioni atomiche dovute agli esperimenti americani, si chiedeva La Nazione Italiana del giorno seguente? La mattina del 25, infatti, un altro incidente si era verificato a Forte dei Marmi (Lucca), stavolta in pieno giorno. Una Fiat 500 Giardinetta finisce fuori strada per l’improvvisa frammentazione del vetro anteriore, e subisce lievi danni. Nell’accennare a casi simili anche in Lombardia, La Nazione Italiana del 26 preferiva lasciar da parte le atomiche per concentrarsi su “non meglio precisate vibrazioni capaci di vincere la coesione molecolare” dei vetri. Nella cittadina versiliese era forte la curiosità. Il giorno dopo, il 26, il cristallo di un’auto in movimento presso Nova Milanese si sbriciolò completamente senza causa apparente, tanto che il guidatore uscì di strada, sia pure senza conseguenze (Libertà e L’Unità, 27 giugno 1954).
Luglio segnò il periodo di maggior eccitazione collettiva. La sera del primo di quel mese, il Corriere d’Informazione uscì con un articolo dettagliatissimo su un episodio che si era verificato qualche giorno prima sul tratto stradale Ancona-Rimini. Il furgoncino di una ditta di prodotti alimentari con due uomini a bordo si trovava nei pressi di Marzocca (Ancona) quando
All’improvviso i due videro venirsi incontro nell’aria qualcosa come un cerchietto azzurrognolo, quasi una nuvola di fumo di sigaretta. Il cerchietto sembrava dirigersi verso la macchina e, infatti, i due videro che superava il cofano dell’auto e andava a finire sul parabrezza, ma non udirono alcun rumore. Appena il cerchietto misterioso toccò il parabrezza, questo andò in frantumi, come per incanto, producendo nel cristallo un’ampia frattura di strana forma, mentre i pezzi di vetro cadevano nell’interno della macchina.
Fermatisi e scesi per verificare, non trovarono nessuna traccia di “quell’oggetto volante”, e scartarono, per la forma della lesione del vetro, che potesse essersi trattato del lancio di un sasso. Alla stazione dei Carabinieri di Marzocca fu steso un verbale dettagliato.
La cosa da notare è che questo singolare evento, sia per la dinamica sia per le condizioni meteo in cui si verificò (grosse nuvole, strada bagnata di pioggia) potrebbe anche far pensare ad un fulmine globulare, ma a noi qui interessa che esso attirò l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale sul nostro “cancro”, tanto più che furono gli stessi Carabinieri di Marzocca a spiegare ai due autisti che negli ultimi tempi si era verificata almeno una dozzina di casi analoghi fra Ancona e Rimini.
Il 4 luglio, da Libertà si apprese che mentre giovedì 26 un nobile piacentino, il conte Filippo Zanardi Landi, era alla guida della sua Alfa 1900 sulla Milano-Piacenza aveva visto di colpo il cristallo “farsi opaco, come se l’auto viaggiasse nella nebbia, ed un attimo dopo sbriciolarsi in minutissimi pezzi”.
Il commento del quotidiano dava spazio all’ipotesi dei radiolari portati in alto dalle esplosioni nucleari nel Pacifico e che intaccavano le resine dei vetri, ma senza crederci troppo. All’elenco degli episodi ne aggiungeva altri: ne risultavano su alcune strade della Romagna e uno in Piemonte, mentre nel Piacentino circolavano voci su un altro incidente capitato a un automobilista di Castelsangiovanni.
Da quel momento in poi il numero dei casi riferiti crebbe rapidamente. Il 6 luglio un furgoncino che viaggiava presso Gorgonzola (Milano) ebbe il parabrezza distrutto di colpo (ma senza “nuvoletta azzurrognola” come quella di Marzocca, precisava Corriere d’Informazione dell’8-9 luglio). Per la prima volta era mostrata anche una foto della vettura danneggiata. Lo stesso faceva La Nazione Italiana del 10, mostrando la Lancia “Aprilia” di un medico fiorentino che, la mattina prima, era rimasta danneggiata (un “fragore” aveva preceduto la “polverizzazione” del vetro) presso il casello autostradale di Lucca.
Il commento era interessante: rotture improvvise dei parabrezza c’erano da sempre, ma prima dei fatti della costa del Pacifico americano nessuno ci faceva caso: ora nemmeno uno sfuggiva agli onori della cronaca, di quelli che per il giornale fiorentino erano comuni danni della struttura molecolare dei vetri temperati, aggravati da urti, lievi deformazioni dei telai, dilatazioni termiche dei metalli delle scocche delle vetture…
L’ampio articolo del Corriere d’Informazione dell’11-12 luglio indica che fu allora che l’attenzione raggiunse il culmine. Il giornale si divertiva abbastanza a ricostruire con due foto l’”incontro con la nuvoletta azzurra”, quello di Marzocca, che era l’elemento davvero “misterioso” della narrazione, ma poi non riusciva a trovare un competente che non attribuisse gli episodi a fatti convenzionali male interpretati.
Il vice-presidente dell’Automobile Club di Milano raccontava due episodi di cui aveva saputo di recente (un avvocato che rientrava da Genova, sua suocera sul litorale adriatico), ma per lui si trattava di rotture normali, dovute a lanci di sassi saltati via dal sedime stradale. Un bicchiere infrangibile gli era esploso di notte, sul comodino, ma non per questo aveva pensato a qualcosa di particolarmente strano. Un ingegnere, direttore tecnico di una grande industria, pensava che il fenomeno fosse dovuto “alla fantasia di chi ha subito l’incidente e non sa spiegarselo… Per me questa storia del ‘cancro’ è un po’ come quella dei dischi volanti”. Un tecnico del reparto carrozzeria di una fabbrica di automobili alzava le spalle e pensava anche lui a cedimenti dopo incrinature anche marginali, causate da urti con sassolini.
Ma nelle fasi culminanti delle manie collettive, di norma queste perorazioni incontrano scarso ascolto. La curva dell’interesse seguì il suo percorso anche quella volta, e quindi nei giorni successivi le segnalazioni piovvero anche più fitte. Il mattino del 14, a Firenze esplose il parabrezza del furgoncino di uno spedizioniere, e a Pistoia due autisti di camion si presentarono alla Polizia dichiarando che la sera prima, mentre si avvicinavano a Mantova:
…furono improvvisamente abbagliati da una luce bianchissima e dopo pochi istanti il parabrezza – divenuto di un colore niveo – si sbriciolò. (Libertà, 15 luglio; Corriere della Somalia, 17 luglio 1954).
Pochi giorni prima del 18 – è ancora Libertà a scriverlo – una Fiat 1100 dopo uno schiocco aveva visto il vetro diventare completamente opaco e poi andare in pezzi nei pressi di Melegnano (Milano). La mattina del 22 addirittura a essere colpito fra lo spavento dei passeggeri era un tram della linea 17 dell’ATAF, l’azienda di trasporti fiorentina (La Nazione Italiana e Corriere della Sera del 23 luglio 1954).
Ma il cancro non riguardava solo i vetri dei veicoli. Cominciarono a scoppiare anche altri oggetti, nelle case! In una sala da ballo di Piacenza alcuni bicchieri di esplodevano da soli, lo stesso accadeva ad un posacenere di cristallo in una casa, e sembra, casi dello stesso genere si erano verificati in altri punti della città e un vassoio di cristallo era scoppiato in provincia, a Pontemure (Libertà del 24 e 25 luglio 1954). Insomma, ogni minima presunta anomalia diventava degna di essere notata e letta con le lenti del fenomeno “nuovo”.
La cosa che colpiva di più, comunque, restava quella delle modalità “straordinarie” di disintegrazione che alcuni descrivevano e che, pur rari, diventavano motivo per confermare la novità di quanto stava accadendo. Vicino Casalpusterlengo (Lodi), la sera del 24 luglio, mentre una Fiat 1100 procedeva ad andatura normale
quando d’improvviso dal cristallo parabrezza partiva una fortissima detonazione seguita da una violenta fiammata che quasi accecava il guidatore dell’automezzo il quale tuttavia riusciva ad arrestare la macchina senza subire alcun incidente… il cristallo si incrinava come una vasta scacchiera… per poi trasformarsi in un unico fitto mosaico di pezzi di cristallo, che finivano per autofrantumarsi… (Libertà, 25 luglio 1954)
L’idea che potesse trattarsi di uno scoppio dovuto ad un guasto non pareva sfiorare nessuno.
Altro camioncino danneggiato ad Este (Padova) il 28 luglio (Libertà, 29 luglio 1954), e un’auto della quale era alla guida l’attore teatrale e di cinema Carlo Croccolo, sull’autostrada nei pressi di Bergamo, il 5 agosto (Corriere d’Informazione, 6-7 agosto 1954). Il 2 agosto, di notte, con “un’esplosione” si era frantumato il parabrezza di un filobus in via Nemorense, a Roma (L’Unità, cronaca di Roma, 3 agosto 1954). A mezzanotte del Ferragosto esplose una porta in vetro del Caffè Pedrocchi di Padova, mentre ancora vi si teneva il concerto dell’orchestrina del locale (Corriere della Somalia, 17 agosto 1954).
C’è di tutto, come si vede. Non mancano nemmeno gli equivoci riconosciuti, e anche abbastanza divertenti. Il Corriere d’Informazione del 3-4 settembre raccontava che a un impiegato di una ditta di Desio era esploso il parabrezza e per conseguenza la capote, disancorata, era volata via mentre viaggiava. Motivo: il tappo di una bottiglia di spumante che il datore di lavoro gli aveva regalato, insieme ad altre, per il suo imminente matrimonio, era saltato via ed era partito come un proiettile, facendogli temere di esser rimasto anche lui vittima della malattia del vetro.
Con settembre, comunque, i casi cominciarono a diminuire.
Ancora nella notte sul 6 settembre il parabrezza di un pullman esplose nella galleria di Giovi, fra Piemonte e Liguria (L’Unità, edizione Firenze, 7 settembre 1954). Curiosamente la proporzione di mezzi commerciali o da trasporto pubblico coinvolti negli incidenti è assai elevata: lo conferma lo sbriciolamento in pezzi minuscoli del parabrezza di un grosso autocarro a Camposanto (Modena), con un passante che se ne porta a casa un pezzo soltanto per vederlo ridursi “in frantumi minutissimi” dopo circa un’ora (La Nazione Italiana, 9 settembre 1954). Intorno all’11 settembre un autocarro che si dirigeva verso San Marino vide il ritorno della “nuvoletta azzurra”. Il parabrezza andò in frantumi all’improvviso in pezzi minutissimi, e da quelli si sprigionò la nuvoletta che da luglio era diventato un elemento di particolare interesse per i giornalisti (Corriere della Somalia, 13 settembre 1954).
Il 17 un’autocorriera (dunque, di nuovo un mezzo di trasporto diverso dall’automobile) dovette arrestarsi di colpo perché il parabrezza si era frantumato mentre passava nel paese di Zimarino (Chieti). Dettaglio con un solo parallelo nei casi italiani dell’ondata del ‘54 – almeno sino al 1958, come vedremo – per L’Unità del 18 settembre 1954 il fenomeno si ripeteva “da qualche tempo nella stessa località con una certa frequenza”.
Mentre in Italia si scatenava un’enorme ondata di avvistamenti di dischi volanti (bolidi, palloni sonda, cadute di secrezioni di ragni migratori portati dal vento, palloncini per il trasporto di volantini di propaganda sui paesi comunisti…) il cancro del parabrezza, quasi di converso, andava scomparendo.
Fatto interessante, ma che ci è noto soltanto dal quotidiano torinese Gazzetta Sera del 9-10 settembre: lungo la strada litoranea adriatica marchigiana sarebbero stati effettuati test con contatori Geiger circa l’eventuale presenza di radioattività insolita. I controlli, non si sa effettuati quando e da chi, avrebbero dato esito del tutto negativo.
Per l’ultimo trimestre del 1954 sappiamo ben poco.
A metà ottobre la sorte toccò ad un’auto a Terranova (Alessandria) (Il Nuovo Monferrato, 22 ottobre 1954), il 23 novembre ad un’Alfa Romeo 2500 al chilometro 8 della via Aurelia, a Roma (L’Unità, cronaca di Roma, 24 novembre 1954). L’ultimo episodio dell’anno presenta anche interesse particolare. Sembra che nella prima decade di dicembre sul breve tratto di strada provinciale fra Motta e Conche, nel comune di Chioggia, ben cinque auto avessero avuto il parabrezza frantumato. Si tratta della stessa idea circolata a Zimarino, in Abruzzo: quella che il fenomeno fosse connesso a una particolare località.
A parte questo, un’altra caratteristica della psicosi del 1954 è che non si estese all’Italia del sud. La località “colpita” con latitudine più meridionale, infatti, è rappresentata dalla capitale. Come si vede dal rapido panorama che vi abbiamo fornito, gran parte degli episodi si concentrò a nord dell’Appennino Tosco-Emiliano, con l’eccezione della costa settentrionale delle Marche.
La sopravvivenza del mito del cancro del parabrezza dopo il 1954
Dunque, il 1954 fu l’anno della grande mania. Ma, per quello che ne sappiamo, in Italia l’interesse per queste storie continuò a lungo, e di sicuro, almeno sino al 1958 diede ancora origine a un gran numero di articoli e di riprese di attenzione, anche se le vette toccate nel 1954 non furono più sfiorate.
Il numero dei casi diminuisce, ma gli episodi comportano conseguenze più gravi, con incidenti e feriti. Oltre ai parabrezza degli autoveicoli, poi, saranno attribuiti anche ad altri generi di vetri.
Nella tarda serata del 6 febbraio 1955, un’auto sbanda e urta altre due vetture in via Paolo Sarpi, a Milano, quando di colpo il cristallo va in mille pezzi (Corriere d’Informazione, 7-8 febbraio 1955). A metà novembre 1955 l’auto di un commerciante finisce fuori strada a Pontemolino (Mantova) per lo scoppio improvviso del parabrezza (Corriere della Somalia, 24 novembre 1955); a Floresta (Messina), il 2 maggio 1956 si teme un caso speciale di cancro del parabrezza, perché, durante un forte abbassamento della temperatura, numerosi vetri vanno in frantumi (Corriere d’Informazione, 3-4 maggio 1956); a Lodi, il 7 luglio dello stesso anno, le vetrine di due negozi di due quartieri diversi esplodevano “misteriosamente” (e una donna restava lievemente ferita), e pure in questo caso si pensava al nostro fenomeno (Corriere della Sera, 8 luglio 1956), e “bicchieri atomici” esplodevano in una casa di Garbagna (Il Popolo, Alessandria, 6 dicembre 1956). Un altro episodio con conseguenze sulle persone connesso dalle nostre fonti al cancro del parabrezza è invece quello che si verificò il 16 maggio del 1957 a Carpiano (Milano). Lo scoppio improvviso del vetro tolse la visibilità alla guidatrice, che investì un operaio, rimasto ferito gravemente (Corriere della Sera, cronaca di Milano, 17 maggio 1957).
Gli ultimi episodi che conosciamo descrissero episodi per certi versi ancora più allarmanti. Il 17 luglio del 1958, mentre viaggia sulla provinciale Vercelli – Biella, è il turno del vice-prefetto di Vercelli a subire gli effetti del “cancro”. Riesce a frenare prima di finir male, visto che ha la visibilità ridotta. La Stampa, il giorno dopo, ipotizzerà essersi trattato di qualcosa causato dal caldo estivo.
Ma l’ultimo fatto della nostra serie doveva far davvero paura a chi leggeva. Il 24 settembre del 1958, a causa del cancro del parabrezza, spiegava quella sera il Corriere d’Informazione, un uomo aveva perso il controllo della sua utilitaria nel centro di Roma, in via del Corso. Risultato: lui in fin di vita, un uomo investito in condizioni gravissime, altri due feriti portati in ospedale.
Non sappiamo se l’uomo sia sopravvissuto al sinistro. Di certo, quest’episodio di chiusura getta un’ombra sinistra sulla paura per la “malattia del vetro” che caratterizzò il mondo degli anni ‘50 del secolo scorso.
Il botto finale
A parte tutte queste cronache a tratti quasi drammatiche, non si può negare che in apparenza la saga del cancro del parabrezza, che come traccia sporadica è comunque giunto sino ad oggi in racconti orali e nella memoria, si sia chiusa in bellezza. Stando a un dispaccio ANSA trasmesso da Carrara il 27 giugno del 1958, infatti, un fenomeno singolare si verificava da una settimana in un tratto della statale Aurelia lungo poco più di mezzo chilometro posto fra il torrente Parmignola, che segna il confine tra Liguria e Toscana, e il bivio per il viale che conduce alla zona Paradiso, verso Marina di Carrara. In quei pochi giorni, si diceva, i parabrezza di circa duecento autoveicoli erano scoppiati rumorosamente e alcuni guidatori avevano riportato lievi ferite al viso e alle mani. Lo stupore cresceva quando si rifletteva sul fatto che il cancro del parabrezza fino ad allora (ma, come abbiamo visto in un paio di casi del 1954, la cosa non è del tutto vera) si manifestava in occasioni sporadiche e non era legato a particolari zone. La confusione regnava sovrana: visto che era stato rifatto il fondo stradale, si pensava che il bitume potesse contenere sostanze in grado di alterare la tenuta dei vetri! Il 26 giugno diversi pullman erano stati colpiti dagli scoppi, e – dulcis in fundo – lo era anche un autobus di un’altra linea, quella che da Carrara porta a Fivizzano.
Che cosa ci suggeriscono i precedenti del cancro del parabrezza?
Sul cancro del parabrezza i sociologi e gli psicologi sociali – per non dire degli appassionati di cose occulte, non ultimi alcuni ufologi – hanno scritto parecchio. Degli studi scientificamente degni di nota parleremo fra poco, però prima vorremmo far notare una cosa. Tutti questi lavori si sono concentrati sulla grande ondata che abbiamo presentato agli inizi, quella che nel marzo-aprile 1954 ebbe per centro lo stato americano di Washington.
In questo modo, però, si potrebbe pensare che la credenza nelle rotture misteriose dei vetri dei veicoli sia nata lì, e che allora si sia diffusa nel mondo.
Le cose non stanno così: questo mito era già presente in Europa negli Stati Uniti da ben prima della Seconda Guerra Mondiale, anche se con caratteristiche in parte diverse da quelle di cui abbiamo parlato per la fase che abbiamo discusso. Fra tutte quelle che si potrebbero menzionare, eccovi due storie importanti sviluppatesi negli anni che precedettero l’arrivo del fenomeno anche da noi.
La prima fu raccontata agli italiani dal corrispondente de La Stampa dalla Germania il 4 agosto del 1950. Da una settimana, lungo la strada che collegava le cittadine di Konzen e Roetgen, al confine francese, quando due veicoli s’incrociavano, in un certo punto del percorso si sentiva uno scoppio, si vedeva un lampo [2] e il parabrezza di una delle due vetture si apriva un grosso foro circolare. Ne erano già rimasti vittime tredici veicoli, autocorriere comprese. La polizia escludeva si trattasse di scherzi, e per questo si era rivolta al Dipartimento di Fisica dell’Università di Aquisgrana, che aveva mandato degli studiosi sul posto. Intanto circolavano voci di ogni tipo: raggi gamma, radiazioni di altro tipo, magari “provenienti dal sottosuolo”, o anche una più tradizionale presenza di spiriti burloni.
Caratteristiche parzialmente diverse da quelle del 1954, dicevamo, perché qui l’accento non era posto sul fenomeno, ma sulle eventuali caratteristiche insolite del luogo, individuato con precisione, in cui si manifestava l’evento. Emergevano al contempo elementi legati ai tempi (i raggi gamma, segno del terrore atomico), ma sempre incorniciati dall’idea antica del luogo infestato (dagli spiriti o dalle radiazioni). Per essere colpiti da questi effetti nefandi, in altri termini, bisogna intrufolarsi, più o meno per errore, in quello spazio. Nel 1954 e in seguito, invece, il “contagio” è quello di un virus che non conosce frontiere né è fermato dagli oceani.
Cosa analoga per la storia, ancora più complicata, relativa al cosiddetto “cecchino fantasma” che rompeva vetri di ogni tipo (non solo parabrezza di auto, ma anche vetri di case e di negozi) in Inghilterra, nella contea del Surrey, in un tratto di circa 700 metri fra Cobham ed Esher. Sebbene le fonti inglesi menzionino casi sin dal dicembre del 1950, fu nella primavera-estate del 1952 che la storia raggiunse notorietà internazionale. A marzo si disse che il “proiettile misterioso” era sparato da qualcuno che possedeva una pistola di piccolo calibro assai diffusa in Italia, ma il clamore divenne ben presto tale che Scotland Yard, che seguiva il caso dall’autunno precedente, ricevette da un presunto ragazzo un pacchetto che conteneva una piccola catapulta. Una lettera anonima che l’accompagnava – rivelava il News of the World del 3 agosto – diceva che era servita per lanciare “proiettili di ghiaccio” che, una volta fatto il loro lavoro, si scioglievano senza lasciar tracce. Visto che la famiglia del lanciatore stava per cambiare casa, tuttavia, secondo la lettera i lanci sarebbero ben presto cessati. Ma non accadde niente di tutto ciò: gli episodi si susseguirono al ritmo di un paio al mese. Sembra che nel febbraio del 1954 si fosse già arrivati a quota 103. Nel luglio del 1952 c’erano stati pure due feriti. La cosa che ci preme sono le teorie che circolavano al riguardo: dopo un certo periodo Scotland Yard aveva convocato esperti di case automobilistiche, ma anche loro non riuscivano a venire a capo: per ora ci si muoveva fra l’idea dei “proiettili di ghiaccio” e quella degli effetti della rottura della barriera del suono da parte di qualche aereo militare, ma ben presto sarebbero comparse l’idea del poltergeist o dei raggi lanciati dalla macchina di qualche scienziato pazzo.
Alla fine di febbraio 1954 sul caso dovette riferire alla Camera dei Comuni lo stesso segretario agli interni, Sir David Maxwell Fyfe, che spiegò come non ci fosse alcuna evidenza che le rotture dei parabrezzi fossero fatte da qualcuno che voleva provocare danni in maniera intenzionale. Il 23 febbraio si fece avanti il pilota di un piccolo aereo privato che riferì che la bussola del suo velivolo si era sfasciata mentre volava sopra il “miglio dei proiettili”: poco dopo un altro pilota dichiarò di aver visto un oggetto volante misterioso proprio sopra l’aereo che aveva avuto la bussola danneggiata!
Lo studio dell’Automobile Association
L’11 maggio, però, l’Automobile Association britannica diramò un comunicato del suo ingegnere capo secondo il quale tutto era dovuto a motivi convenzionali: cattiva tenuta dei telai dei vetri, cattiva pavimentazione stradale che faceva schizzare via sassolini come proiettili, dilatazione termica, e – un po’ più curiosa – forti emissioni sonore, magari da parte di grossi camion o di aerei in transito a quote basse. Si erano ormai contati addirittura 300 casi, e l’87% avevano riguardato vetture di costruzione recente, dalle qualità costruttive più modeste. In realtà, aggiungeva l’ingegnere, sulla strada Londra – Brighton era stato registrato il doppio dei casi avvenuti sul troppo noto “miglio dei proiettili”, ma solo quello, per vari motivi, aveva attirato l’attenzione dei mezzi di comunicazione.
Da allora in poi, il “cecchino fantasma” di Esher cadde nell’oblio [1].
Per nostra fortuna, quella psicosi inglese, ampiamente pubblicizzata in Gran Bretagna e altrove anche poco prima che esplodesse la mania dei parabrezza di Seattle, è stata analizzata in modo esaustivo dallo scettico australiano Robert Bartholomew, che gli ha dedicato un capitolo del suo libro del 2001 Little Green Men, Meowing Nuns and Head-Hunting Panics (McFarland & Co, Jefferson, North Carolina, pp. 169-182).
Le spiegazioni
La psicosi americana della primavera 1954 è stata assai studiata e, anzi, è diventato un caso di scuola nella ricerca sui panici e sulle manie collettive transitorie. In questo senso, non si possono trascurare due lavori che, anche se ormai superati, hanno fatto storia.
Gli studi classici sono dovuti a due sociologi, Nahum Z. Medalia (1920-2007) e Otto N. Larsen (1922-2007), che raccolsero dati sulle dimensioni della mania usando i registri delle chiamate alla Polizia della zona di Seattle, cuore iniziale della questione, e la copertura che i due maggiori giornali cittadini dedicarono al fenomeno, misurandoli in centimetri per colonna di ogni singola edizione. Il primo lavoro, firmato da entrambi, uscì sull’American Sociological Review (vol. 23, n. 2, aprile 1958), l’altro, prodotto dal solo Medalia, l’anno dopo sulla rivista Social Problems (vol. 7, n. 3, inverno 1959-60).
Le fonti usate per realizzare quegli studi erano assai parziali rispetto alla reale portata della storia, ma comunque da esse risultò che la mania era durata dal 23 marzo al 18 aprile e che aveva raggiunto il parossismo fra il 14 e il 15 aprile. La sera del 15, ai limiti del panico, il sindaco di Seattle lanciò un appello pubblico al presidente, Dwight D. Eisenowher, perché si cercasse di capire quanto stava accadendo.
Il 10 giugno 1954 il Laboratorio di ricerca ambientale dell’Università dello Stato di Washington pubblicò gli esiti delle ricerche condotte sui vetri rotti. Non c’era nessuna evidenza che i vetri si fossero frantumati per cause insolite: si trattava di danni normalissimi, che di norma risultavano più frequenti al crescere della vetustà dei modelli dei veicoli. Le misteriose “sferette” erano cenosfere, che si formano come sottoprodotto nella combustione – ad esempio – dei carboni usati a quel tempo nelle centrali termiche.
L’intera vicenda era dovuta a cause psicogene. Per Medalia e Larsen il ruolo fondamentale nel diffondere il panico fu dovuto ai quotidiani, che diedero al pubblico il senso di un progressivo avvicinamento del “cancro” dalla provincia verso la grande città, Seattle. Quando i casi si manifestarono nel centro urbano, i mezzi di comunicazione interpellarono un gran numero di tecnici, di scienziati ed esperti, così facendo precipitare la situazione e alimentando il senso di urgenza..
Quattro giorni dopo il “picco” del 15 aprile Medalia e Larsen condussero un sondaggio telefonico sulla popolazione: il 50% del campione risultava essere formato da “credenti”, ossia da chi riteneva che le rotture dei parabrezza fosse dovuta a cause insolite (la più creduta riguardava le esplosioni nucleari nel Pacifico). Legavano il tutto, a loro volta, sulla base dei pochi dati di cui disponevano, a caratteristiche psicologiche individuali (la suggestionabilità) e a un rapporto inverso con il grado d’istruzione formale.
La loro ipotesi (piuttosto speculativa, a dire il vero) sul perché la mania cessò così rapidamente è che gran parte di quelli che ci credevano, legandola a una causa dagli effetti ritenuti transitori (quelli successivi alle esplosioni nucleari), dopo un po’ avrebbero pensato che la “parabrezzite” sarebbe cessata, e non se ne sarebbero preoccupati più.
Larsen riteneva che una buona parte degli individui che avevano chiamato la Polizia per segnalare gli episodi della primavera 1954 avessero le caratteristiche di coloro che foggiano gli “pseudo-disastri”, quelli, cioè, che “gridano al lupo” e che, secondo lui, erano soprattutto coloro che allertavano la polizia per dar notizia di danni subiti da veicoli diversi dal loro, di cui magari non conoscevano nemmeno il proprietario. In un certo numero di casi non avevano neppure constatato di persona il momento della rottura dei vetri.
Uno dei molti limiti dell’opera dei due psicologi sociali stava nel fatto che non solo disponevano di universi di dati cui attingere piuttosto limitati, ma soprattutto limitato a una sola parte dell’America, mentre il fenomeno dallo Stato di Washington si era diffuso subito ad altre parti del territorio statunitense, e, un po’ dopo, all’Europa occidentale e a parti dell’America Latina (senza aggiungere che di interi continenti non sappiamo niente).
A parte l’Automobile Association inglese, anche in altri Paesi europei in cui il fenomeno era comparso si ebbero spiegazioni che in sostanza consideravano del tutto normali le rotture. Il direttore della grande impresa vetraria francese Saint Gobain fece notare che difetti nei processi di tempera dei vetri in uso allora cui si accompagnavano urti con corpi anche molto piccoli, in certi casi a distanza di tempo potevano dar luogo all’improvvisa frammentazione delle lastre, culmine di un processo iniziato magari parecchio tempo prima (Corriere della Somalia, 5 luglio 1954). A fine anno, dopo casi analoghi in Svizzera, alle stesse conclusioni giunse pure il Touring Club elvetico (La Stampa, 1° gennaio 1955; Corriere della Somalia, 3 gennaio 1955).
Con analisi più moderne le prospettive di studio sono in parte cambiate – pur tenendo per solide – alcune conclusioni degli studi “classici” di Medalia e Larsen di cui si è detto.
A parte un fondamentale database di un migliaio di articoli creato da Roberto Labanti e purtroppo inedito, di sicuro il lavoro di documentazione più vasto realizzato al mondo sulla questione (prende l’avvio con le storie di “cecchini fantasma” della fine degli anni ‘20 del secolo scorso), è stato quello che nel 2009 Hilary Evans e Robert Bartholomew, pur attingendo ai lavori di Medalia e Larsen, hanno realizzato con la voce dedicata alla paura delle “rotture di parabrezza” nel loro Outbreak! The Encyclopedia of Extraordinary Social Behavior (Anomalist Books, pp. 728-731). Nel loro saggio hanno posto l’accento sul fatto che dal 18 aprile 1954, mentre nello Stato di Washington il fenomeno evaporava, pervenivano segnalazioni dall’Oregon, dalla California, dal Kentucky, ma anche da aree assai più distanti come l’Illinois e il Maine. Facendolo, hanno sottolineato che quanto stava accadendo non era comunque di una novità, ma piuttosto la versione da era atomica della paura del “cecchino fantasma” nel cui ambito, ricordavano, anche la storia del “miglio dei proiettili” inglese del 1950-1954 era stata inquadrata dapprima, per poi passare a letture più “paranormali”.
Nemmeno loro, però, avevano idea di che cosa era successo in Paesi come il nostro. Anche noi ne abbiamo una conoscenza limitata. Sufficiente, però, a gettare uno squarcio di luce su una delle tante manie degli anni ‘50 del XX secolo, sulle sue paure, sul suo immaginario scientifico e sul rapporto contraddittorio che intrattenne con l’innovazione tecnologica.
Note:
[1] Sul “miglio dei proiettili” inglese: Daily Herald, Inghilterra, 22 marzo 1952; Corriere d’Informazione, 4-5 agosto 1952; Mirror, Australia, 16 agosto 1952; Stampa Sera, 4-5 febbraio 1954; Brisbane Telegraph, Australia, 24 febbraio 1954; Sydney Morning Herald, Australia, 8 marzo 1954; Gazzetta del Popolo, 21 marzo 1954; Corriere della Somalia, 22 marzo 1954; Birmingham Daily Post, 12 maggio 1954; Corriere d’Informazione, 12-13 maggio 1954.
[2] Il “lampo che disintegra i parabrezza”, poi raccontato anche in Italia, figura comunque almeno dal 1936, come raccontava l’ultimo giorno di quell’anno il quotidiano australiano Kyogle Examiner, che descrisse una testimonianza del genere da Young, nel Nuovo Galles del Sud.
Si ringraziano per i suggerimenti e per le fonti fornite: Thomas Brisson, Kay Massingill, Theo Paijmans, Bob Skinner.