Le ragazze degli aghi di Castelletto Ticino
Giandujotto scettico n° 76 di Sofia Lincos e Giuseppe Stilo (19/11/2020)
Isterismo e superstizione: questo il titolo sulla prima pagina de L’Azione di Novara del 17 maggio 1910, con cui il bisettimanale bollava i curiosi fatti di Castelletto Ticino, nel Novarese, un paesone allora di poco meno di cinquemila anime al confine tra il Piemonte e la provincia di Varese.
Non possediamo fonti precedenti, ma si capisce che la storia doveva andare avanti almeno dall’anno precedente. L’articolo non era firmato, ma toni e lessico erano quelli da medico del paese che conosceva bene – bontà sua – le protagoniste della vicenda, che meriterebbe un’analisi antropologica vera e la ricerca di documentazioni d’archivio.
All’origine di una piccola epidemia di comportamenti “abnormi”, diceva L’Azione, c’era una donna di vent’anni, Carlotta, la quale
cade nel sonno ipnotico parecchie volte al giorno per un nonnulla, alla vista cioè di un uccello, d’una persona sconosciuta, di un punto luminoso.
Un giorno, racconta il cronista, Carlotta fu portata a casa sua. Di colpo rimase immobile sulla porta, mentre digrignava i denti rumorosamente. In quelle occasioni perdeva la sensibilità e s’irrigidiva, e quando si riprendeva, spossata, non ricordava nulla.
Sarebbe un azzardo dire di che cosa soffrisse questa donna. Uno psichiatra forse parlerebbe di disturbo catatonico, che è parte dello spettro dei disturbi schizofrenici. Lo sbattimento dei denti e l’agitazione delle labbra potrebbero esserne un’ulteriore conferma. Ma le diagnosi a distanza senza possibilità di visitare la paziente lasciano il tempo che trovano.
Carlotta però attirava l’attenzione per un’altra peculiarità del comportamento: secondo l’autore, riusciva a ingerire e a inserirsi nel corpo, senza che ammettesse di farlo, centinaia di aghi, spille, spilloni, punte. Nel corso di qualche anno, in più occasioni le erano stati estratti i piccoli corpi metallici appuntiti. La giovane continuava a comportarsi stranamente, e i paesani – e, insieme a loro, i suoi genitori – si erano convinti che la colpa di tutto fosse… delle streghe.
Questa però era soltanto la premessa di una vera, sia pur piccola, “epidemia” di comportamenti analoghi. Nel corso del 1909 a Carlotta si aggiunse un’altra ragazza del paese, anch’ella ventenne, che fu trovata molte svenuta nel letto, con lenzuola e coperte annodate in modo contorto, che la avviluppavano in maniera strettissima, fin quasi a soffocarla. A volte presentava letargia, con risvegli di pochi minuti. Poi anche lei cominciò a presentare “il fenomeno degli aghi” e, scrive l’autore, a rigurgitare ciocche dei suoi capelli, annodati e intrecciati in forme bizzarre, che inghiottiva senza averne coscienza.
Nel maggio del 1910 la situazione precipitò.
Una giovane di 18 anni la notte del 4 c.m. si sentì presa da mani invisibili, che cercavano di soffocarla stringendola alla gola. Il martirio durò quattro ore, e quando potè liberarsi dai nemici… aerei, al collo portava una striscia perfettamente circolare di scalfiture e di abrasioni, più o meno profonde, nelle quali era facile scorgere ancora l’impronta delle unghie delle… streghe.
L’autore dell’articolo aveva avuto modo di osservare la ragazza, e pensava che le sue unghie, lunghe e forti, fossero ampiamente sufficienti a giustificare la presenza di quei segni. Di lì a poco, comunque, anche sua sorella, sposata da poco, cominciò ad avere convulsioni. A tratti fissava con sguardo vitreo un punto della scala di casa, gridando “indietro!” a qualcuno che solo lei vedeva. Le donne del paese ne erano certe: non solo era all’opera una strega, ma erano in grado di farne il nome… Durante “l’orgasmo dei nervi inviperiti” (così proseguiva l’articolo), malgrado si trattasse di una contadina di scarsa istruzione
ama parlare un italiano fiorito e assumere pose romanzesche
Infine, la sera del 15 maggio, il quinto caso di “agitata”. Un’altra giovane abitante a poca distanza dalle altre, “già soggetta a forme epiletticali”, prese a dibattersi con violenza nella sua stanza, “e bisognò il concorso di sei uomini per impedire che commettesse qualche eccesso”.
L’articolo proponeva la sua soluzione: per evitare che Castelletto Ticino diventasse una succursale della Salpêtrière, il grande ospedale psichiatrico parigino, bisognava far ampio ricorso al bromuro, cioè ai sali di acido bromidrico, uno dei pochi sedativi allora disponibili.
Cinque giorni dopo, il 22 maggio 1910, La Stampa riprese nella sua interezza l’articolo de L’Azione (Strani casi di follie a Castelletto Ticino), e questo probabilmente spinse anche il Corriere della Sera ad occuparsi della vicenda.
Il lungo articolo che comparve sul quotidiano milanese il 25 maggio era frutto delle indagini svolte sul posto da un inviato. Il giornalista nutriva dei dubbi sulla natura dei fenomeni: certo, si affrettava a scrivere, niente streghe nel XX secolo, “ma non sono nemmeno in tutto quei sedicenti e comodi fenomeni d’isterismo e di parecchie altre cose in ismo che vorrebbero ragionevolmente parere”.
La ragazza diciottenne trovata con i segni sul collo il 4 maggio si chiamava Rosa L., e abitava in frazione Motto Pollaio, oltre la linea ferroviaria. La giovane aveva urlato all’alba, svegliando i parenti, dicendo che era stata perseguitata per ore dalle mani sul collo, “inchiodata sul letto”, incapace di muoversi e di chiamare il fratello, che dormiva nella stessa camera. Lui, dal canto suo, non si era accorto di niente.
Interrogata in cento maniere, la ragazza venne fuori a dire d’aver trovato, alcune sere prima, tornando dal lavoro della filanda, una vecchia accovacciata presso il focolare della casa in quel momento deserta. Codesta vecchia sarebbe la strega: la fattura sarebbe il tentato strangolamento di quella notte. Ma chi vorrebbe spiegare la cosa potrebbe benissimo obiettare che tale tentativo non può essere stato altro che un incubo…
Dopo, anche la sorella (che si chiamava Pierina L., quella sposata da poco) era stata presa da “convulsioni violente che la riducevano fuor di sé, gettandola in una specie d’estasi”. Quanto alle cose “soavi” che diceva, e che secondo alcuni andavano ben al di là della modestissima istruzione della donna, all’autore invece ricordavano la stampa femminile di certo disponibile anche in paese, e in particolare la prosa di testate come La Farfalla e L’Amore illustrato. A quel punto Rosa, la prima delle due sorelle colpite, sarebbe ricaduta in “assopimenti letargici e attacchi violenti”, che quando capitavano la spingevano a bere grandi quantità d’acqua, visto che diceva di soffrire di “una sete ardentissima”.
Il caso che però colpiva di più il giornalista è quello già descritto su L’Azione di Novara, il vomito di ciocche di capelli. Ma nella versione del Corriere della Sera compariva, come nel caso di Rosa L., l’incontro diretto con un essere semi-soprannaturale.
Un’altra ragazza, abitante nella frazione di Dorbiè, ed il cui nome di battesimo è Leopoldina, si imbatté una brutta sera in una vecchia, che cortesemente le tolse un filo bianco dalla spalla. Da quel momento la spalla divenne sede di un dolore acuto, finché non ne venne estratto un ago a cui aderivano alcuni capelli. Poi incominciarono a uscire, ad essere vomitati, dei capelli raccolti in piccole ciocche di strane fogge, rappresentanti ora una cordicella, ora una treccia, ora una catenella, ora un fiore… La ragazza è bionda ma i capelli erano grigi; misti, cioè, di nero e di argenteo, questo dovuto a canizie non a dissolvimento del pigmento per l’azione dei succhi gastrici; così almeno dicono quei di casa, con parole, si intende, non così leccate.
Poi, come se non bastassero quegli aperitivi, si incominciarono a trovare nella minestra di Leopoldina, nel pane di Leopoldina, nel vino di Leopoldina, nell’acqua di Leopoldina (sempre nei suoi recipienti, e mai in altri) spine di robinia in gran numero. Si provò talvolta a toglierle tutte, e tosto, si vide con immensa sorpresa che in fondo al recipiente ne erano già comparse, come per incantesimo, delle altre. Poi incominciarono fenomeni dello stesso genere di quelli della Rosa L. Si trovava, cioè, allo spuntar dell’alba, la Leopoldina legata strettamente in letto colle sue lenzuola attorcigliate a corda e giranti intorno al corpo in strane spire ed in nodi curiosissimi, che nessuno sapeva poi imitare.
E qui arriva forse la cosa più grave di tutta la faccenda: le donne (ed uomini, a quanto pare) sospettati di essere streghe e stregoni erano stati minacciati di morte dagli abitanti, se non avessero fatto smettere i sortilegi che provocavano quei comportamenti così strani nelle giovani e la comparsa misteriosa di oggettini e ciocche di capelli.
Quanto alla “capostipite” della serie, quella che all’inizio era stata identificata come Carlotta, si chiamava Barberi, ed abitava in frazione Motto Alto. Sul suo conto, ciò che veniva raccontato aveva quasi del fiabesco. Sette o otto anni prima, aveva rotto giocando la trombetta del nipotino di un’anziana e quella l’aveva aggredita, picchiandola. Subito dopo Carlotta aveva accusato dolori atroci. La famiglia capì così che la vecchia era una strega, e che i disturbi psichici e le convulsioni sviluppate dalla ragazza erano colpa sua.
Dopo un anno si aggiunse la comparsa di aghi, cocci di maiolica, forcelle da capelli e ferri da calza che le uscivano “da tutte le direzioni”. Migrando nel corpo, più volte erano state estratte da un medico. Si sarebbero contati, fino a quel punto (e fra gli sguardi impauriti di tutto il paese), ben quindici oggetti metallici, fra cui una spilla di stagno di discrete dimensioni, recante la scritta “G. B. Paris”, che nessuno aveva mai visto addosso a qualche abitante di Castelletto…
La possibilità che in certi casi l’adolescente riuscisse a introdurre gli oggetti nel corpo, a espellerli, e, in altri semplicemente a farli ritrovare fortunosamente, non sembrava preoccupare troppo gli attori di questo lontano dramma.
Nell’ultimo articolo della serie di cui disponiamo il dramma però virò in farsa. Il 28 maggio il giornalista della grande città – l’inviato del Corriere – diede in pasto al pubblico un articolo lunghissimo: Il lato comico e il lato serio degli strani fatti di Castelletto – Una visita alle ragazze “stregate”.
La prima parte del pezzo era una presa in giro degli abitanti di Castelletto, che probabilmente si sentivano irrisi da quel casciaball de giornalista verso il quale, due giorni prima, si erano dimostrati “idrofobi”. L’autore, s. l, (che poi era lo stesso che aveva scritto tre giorni prima), spiegava ironicamente che a lui il diavolo era apparso davvero, ma che era la nonna di Leopoldina, la ragazza di frazione Dorbiè. Era andato a cercare quella “spiritata” a casa, ma la nonna l’aveva accolto insultando giornali e giornalisti. La successiva diatriba sull’aia, fra cani e galline, con il cronista minacciato col mestolo e la sua paterna accondiscendenza, fu descritta con cura nell’articolo, con pochi dubbi sulla possibilità che quelle intrusioni in casa di altri potessero risultare sgradite.
Il “lato serio” della questione, invece, per il giornalista era costituito da ciò che emergeva dai colloqui con Pierina L., in frazione Brabbia. Quest’ultima gli aveva raccontato in dettaglio che sino all’età che aveva allora, 22 anni, non aveva mai sofferto di disturbi nervosi, ma che ora, quando aveva i suoi accessi, diventava incredibilmente aggressiva. Carlotta Barberi, invece, raccontò con maggiori dettagli la terribile aggressione dell’anziana vicina, che l’aveva percossa in maniera selvaggia per un danno da pochi centesimi. Dopo i pugni, aveva preso i quattro ferri da calza di Carlotta e aveva fatto come per colpire l’adolescente. Però non la sfiorò, gridando soltanto “oh, come la infilzerei volentieri!”. La madre ritrovò la calza cui stava lavorando, ma non i ferri.
Secondo il racconto della ragazza, da quella sera cominciò ad esser preda di strani, forti dolori, e da brividi. Solo dopo un anno di sofferenza, ecco che dallo sterno presero ad uscirle degli aghi. Inizialmente sei, poi molti altri. “Sono aghi simili agli altri aghi da cucire, e soltanto macchiati dalla lunga permanenza nei tessuti”.
In tutti quegli anni, mai aghi e spilli erano spariti da casa. Di qualsiasi provenienza fossero, non erano parte della dotazione di famiglia.
Essa passa successivamente per due stati alternantisi: stato di coscienza, nel quale discorre come una ragazza qualunque, un po’ timida, un po’ malinconica; stato di letargo, che dura al più poche ore, e durante il quale il soggetto resta immobile, con tutti i sintomi della catalessi. Questi dovrebbero essere i periodi in cui si introduce gli aghi: nello stato normale essi le fanno paura; ma i familiari, che la sorvegliano bene, non poterono mai in otto anni sorprenderla una volta nell’atto di inghiottire o di conficcarsi nel corpo alcunché di simile.
C’era poi la “coperta toccata dalla strega”, cioè la vecchia che l’aveva percossa: ogni volta che le veniva posta sul letto, Carlotta sentiva dolori atroci; era in grado di riconoscerla fra altre uguali, e di ritrovarla anche se la nascondevano fuori casa. Si parlava anche di chiaroveggenza e di telepatia… Ma un altro fenomeno colpiva tutti più degli altri, anche questo, peraltro, ben riconoscibile da antropologi e addetti alla salute psichica: l’ingestione e la successiva eliminazione di oggetti non adatti all’alimentazione, compresi un coccio triangolare, una matita e una massa globulare di pezzetti di cartapecora su ognuno dei quali era scritta la lettera B. Era quello di Carlotta, scriveva s. l., “un corpo dolorante e straziato di povera contadina”.
Il giornalista era dubbioso: conosceva il responso delle persone colte di Castelletto – il medico e il farmacista. Per loro era senz’altro la ragazza a inghiottire di tutto e a inserirsi gli aghi nelle carni. Quella era, insomma, “la sola conclusione ragionevole”, analoga ad altre emerse in casi simili (vi suggeriamo, ad esempio, la vicenda della “donna degli aghi” descritta qui da Ivan Cenzi, o l’articolo di Davide Ermacora pubblicato su Contemporary Legends: Embedded Pins and Migratory Needles: A Historical Folklore Perspective. Part I. e II).
Ma, un po’ come per l’indemoniata di Cuneo del 1961, dopo aver fatto emergere tutto il disprezzo dei borghesi di città nei confronti dei vinti delle campagne, ai lettori indicava un orizzonte più umano e rispettoso di quelle storie e di quelle dinamiche psicologiche e sociali. Un orizzonte che, anche oggi, richiederebbe uno sguardo più acuto e attrezzato del nostro:
Ad un’altra cosa accenneremo, che ci fa grande impressione: al senso di pietà immensa, profonda, che lasciano nel visitatore gli occhi dell’infelice: uno sguardo dolce, buono, timido e insieme luminoso, d’una luminosità che pare che venga d’oltre terra, e rifletta luci delicate e luci d’altri mondi pieni di mistero…
Foto di Kelly Sikkema da Unsplash