Antonella Viola: plasma iperimmune come terapia anti-Covid? Niente di certo, per ora
Antonella Viola è un’immunologa, ordinario di Patologia Generale presso il Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Padova e Direttore Scientifico dell’Istituto di Ricerca Pediatrica (IRP-Città della Speranza, Padova). Le abbiamo rivolto alcune domande circa una delle possibili terapie anti-Covid più discusse nelle ultime settimane: quella basata sul plasma iperimmune.
Ci può dire qualcosa in particolare sulle variabili che potrebbero non far funzionare una terapia basata sul plasma iperimmune? Ad esempio, è possibile dire qualcosa sui processi infiammatori, così importanti nel Covid-19, oppure sulle dinamiche anticorpali che hanno luogo nei pazienti?
Le variabili sono molteplici: la concentrazione di anticorpi nel plasma donato così come la concentrazione di anticorpi nei pazienti che lo ricevono; i tempi clinici in cui il plasma è efficace, cioè capire se funziona nei pazienti con sintomatologia lieve, moderata o severa (per esempio gli anticorpi monoclonali della Lilly sono stati approvati per l’uso nei pazienti a rischio, ma all’esordio della malattia, per evitare l’ospedalizzazione); il profilo infiammatorio del paziente… Gli studi analizzati finora non dimostrano alcuna efficacia di questa terapia ma non è detto che il plasma non funzioni mai: bisogna capire in quali pazienti e in che modalità usarlo.
L’approccio pubblico alla terapia col plasma sembra essere l’ennesimo caso di “fretta” mediatica e di pressioni da parte dell’opinione pubblica perché si ottenga una risposta rapida a questo virus così insidioso. Lei avrebbe suggerimenti da offrire ai comunicatori della ricerca scientifica, in modo da reagire al meglio al “fattore fretta”?
Il fattore fretta nelle persone è comprensibile, perché ogni giorno muoiono centinaia di persone e molte di più sono ricoverate in ospedale. Ma la fretta non aiuta, perché crea confusione e quindi rallenta il processo di comprensione. Bisogna basarsi sui dati e dire le cose come stanno: il plasma potrebbe funzionare ma non sappiamo come usarlo; per capire come usarlo al meglio, bisogna fare ricerca. Ma fare ricerca significa attivare protocolli clinici randomizzati e controllati, altrimenti non arriveremo mai a un risultato. Comunichiamo la verità, senza dover mentire o creare false aspettative. Se spieghiamo bene alle persone a che punto siamo, risponderanno con generosità – donando il plasma – e senza panico.
Abbiamo letto che nel recente passato la terapia basata sul plasma si sarebbe dimostrata efficace nei confronti del virus della SARS e del virus Ebola. Ci può dire in breve la storia di questa terapia, e quali sono i suoi meccanismi fondamentali d’azione?
La terapia con plasma si basa sul trasferimento della parte liquida del sangue e quindi di anticorpi da soggetti guariti a seguito di un’infezione a pazienti con infezione in corso. È una forma di immunoterapia passiva, in cui cioè il paziente riceve la protezione (gli anticorpi) dall’esterno. Il vaccino, invece, è una immunoteraqpia attiva, perchè è il sistema immunitario del paziente stesso che viene stimolato a produrre le difese necessarie. La terapia con plasma immune non è un’invenzione recente.
I primi ad utilizzarla furono Emil Von Behring, che nel 1901 vinse il premio Nobel per la scoperta della cura della difterite, e Kitasato Shibasaburō. I loro studi si concentrarono sugli animali, per curare tetano e difterite. Nell’uomo, il plasma venne usato durante l’epidemia di influenza spagnola del 1918 e, più recentemente, per HIV, SARS ed Ebola, ma senza studi clinici randomizzati e controllati. In assenza di questi dati, è difficile trarre conclusioni.
Per il SARS-CoV-2, a parte le polemiche di questi giorni, si direbbe che l’evidenza scientifica sia controversa. A suo avviso, quali sono i motivi fondamentali per la prudenza? Sotto questo profilo, qualche lavoro recente l’ha particolarmente colpita?
L’analisi della Cochrane (una istituzione no-profit che ha lo scopo di valutare l’efficacia degli interventi sanitari) ha concluso che i dati non mostrano nessun effetto positivo o negativo della terapia con plasma immune. Uno studio recentissimo è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista The New England Journal of Medicine, sempre con dati negativi. Come dicevo prima, è difficile trovare le condizioni ottimali per l’uso del plasma: forse funziona meglio nei pazienti all’esordio della malattia? Andrebbe quindi usato nei soggetti a rischio (obesi, diabetici…) per evitare il peggioramento delle condizioni? Va utilizzato invece in fase più tardiva? Non lo sappiamo. Per questo serve continuare a fare ricerca.
Si fa spesso confusione tra plasma iperimmune e terapia con anticorpi monoclonali. Che differenza c’è? Qual è l’iter che sta seguendo la terapia con anticorpi monoclonali? E insomma, su questo fronte a che punto siamo?
Sono terapie simili, perché si basano sullo stesso concetto: dare al paziente anticorpi neutralizzanti. Solo che nel caso degli anticorpi monoclonali è più smeplice la standardizzazione del trial clinico, visto che l’anticorpo che si usa è sempre lo stesso, sempre alla stessa dose, è un farmaco e quindi ci sono meno variabili negli studi. Per adesso gli anticorpi sono stati approvati dalla FDA americana per uso di emergenza. Staremo a vedere che risultati si otterranno e in quali categorie di pazienti funzioneranno.