La tubercolosi: colpa del vampiro?
Articolo di Sofia Lincos e di Giuseppe Stilo
C’è vampiro e vampiro. Di vampiri infatti ce ne sono tanti, e di tipi diversissimi. Di solito, noi pensiamo al tizio pallido, coi canini aguzzi, vestito da dandy, che s’infila nel letto delle fanciulle mentre dormono e le morde alla giugulare, per poi tornarsene all’alba a dormire in una bara. Beh, questo è uno stereotipo da Ventesimo secolo. Noi oggi vi parleremo di curiosi, speciali, vampiri che infestavano la parte nord-orientale degli Stati Uniti, in particolare nel Diciannovesimo secolo…
Il catalogo dei vampiri
Il sociologo Robert Bartholomew, alla voce “vampirismo” del volumone Outbreak! The Encyclopedia of Extraordinary Social Behavior (scritto con Hilary Evans), ne individua ben cinque tipi diversi. L’apparizione dei primi quattro può essere collocata lungo una linea temporale che va almeno dalla fine del Diciassettesimo secolo sino ai nostri giorni. Ci sono, infatti:
- i vampiri del folklore, ossia morti che ritornano, percepiti come forze “malefiche” e di cui si ha paura – ma che si possono bloccare applicando varie tecniche sui loro cadaveri (il classico paletto nel cuore, la pallottola d’argento, ma pure molto altro, come vedremo);
- i vampiri delle epidemie, accusati di essere all’origine di qualche morbo, o di periodi difficili dal punto di vista della salute pubblica (di questo genere sarà la storia di oggi);
- i vampiri romantici, in cui il protagonista comincia ad assumere una sua interiorità, una sua psicologia tormentata, ed è oggetto di interesse da parte di occultisti e metapsichisti (e a volte diventa un “vampiro psichico”, un succhiatore di energie, sostituto più “sottile” del sangue vero e proprio);
- i vampiri fantasy, quelli del Ventesimo secolo, inaugurati dal Dracula di Bram Stoker (1897). Come protagonisti della cultura pop, il vampiro può essere declinato in molti modi: icona del sesso (e qui di solito diventa una vampira), eroe anticonformista, simbolo del reietto sociale o di (innocuo) ribellismo adolescenziale, come in film sul tipo di Twilight e del suo lungo seguito di merchandising.
- Infine, il vampirismo clinico. Con la nascita della psicologia e della psichiatria moderna, alcuni comportamenti aggressivi e alcune parafilie sono catalogate come patologie psichiche, sia pur rare. Il vampiro diventa un malato, una persona in carne ed ossa, da prendere in carico da parte delle istituzioni, curato e messo in grado di non nuocere, in particolare di non mettere a repentaglio le donne.
Ben radicati nel folklore dell’Est, i vampiri hanno avuto fortuna nella cultura europeo-occidentale solo in tempi relativamente recenti, ossia a partire dai primi decenni del Settecento. Lo stesso termine iniziò a comparire nella lingua inglese a partire dal 1734, come calco dall’ungherese. I vampiri assursero a gloria generale nel 1746, quando in Francia il monaco benedettino Augustin Calmet pubblicò il suo Traité sur les apparitions des esprits et sur les vampires ou les revenans de Hongrie, de Moravie, &c.: ebbe così tanto successo che cinque anni dopo ne pubblicò un’edizione ampliata, in due tomi. Per quanto ne sappiamo, in Italia il termine vampiro comparve nel 1746, proprio sull’onda del libro di Calmet. Ma in Italia l’idea non ebbe troppo successo. Dall’Inghilterra, invece, scavalcò l’Atlantico, e giunse nei grandi territori coloniali dell’America settentrionale.
I vampiri vanno in America
Nel continente nordamericano, i vampiri spopolarono per meno tempo che in Europa, e soltanto in una parte di quelli che dal 1776 sarebbero diventati gli Stati Uniti. Comparvero per lo più nei territori del New England, la regione che comprende gli odierni Stati del Connecticut, Maine, Massachusetts, New Hampshire, Rhode Island e Vermont.
Questi vampiri avevano una caratteristica speciale: furono incolpati della trasmissione, spesso “familiare”, di una malattia che allora era diffusissima e devastante, ossia la consunzione. In altre parole, quella che da noi sarà detta tubercolosi ossea.
Tutto sommato, i racconti su questi esseri succhia-salute rimasero circoscritti a una porzione abbastanza limitata del territorio americano, e non si estesero ai nuovi Stati che via via si stavano aggiungendo all’Unione. Questa cosa fu interpretata dalla stampa colta, fin dall’inizio, come un indizio della loro natura leggendaria: a crederci potevano essere solo dei primitivi, dei retrogradi come gli agricoltori e i cacciatori che vivevano in quelle regioni così remote.
Anche per questo, i vampiri del New England attirarono l’interesse degli studiosi di scienze umane, e lo fecero quando i testimoni dei fatti più eclatanti erano ancora in larga misura ancora viventi. Uno dei primi a lavorare su di loro fu l’antropologo George C. Stetson, che ne scrisse nel 1896 su American Anthropologist.
Grazie agli sviluppi moderni della ricerca (non ultimo della bioarcheologia e degli studi bioculturali), oggi è possibile spiegare facilmente il ritrovamento di sepolture ottocentesche in cui i resti umani risultavano mutilati, o manomessi, oppure con lo scheletro voltato in posizione prona (consigliamo, a riguardo, questo articolo dello Smithsonian Magazine). Come nel caso di un ritrovamento fatto a Griswold, nel Connecticut, probabilmente si trattava di azioni compiute dagli abitanti del posto nel tentativo di allontanare la Tbc dalla loro cittadina.
Gli studi moderni sul “vampiri del New England”
Con Misteri Vintage cerchiamo di darvi un quadro degli studi moderni sui fenomeni che ci interessano: le nostre conoscenze migliorano, gli strumenti si affinano e le possibilità di verifica oggi sono molto più ampie rispetto anche a solo dieci anni fa.
Nel caso dei “vampiri americani”, un grande lavoro è stato svolto da un folklorista del Rhode Island, Michael E. Bell, che ha dedicato decenni a studiare il “vampirismo” della parte nord-orientale degli Stati Uniti. In questo modo è riuscito a documentare almeno ottanta casi di esumazioni di cadaveri, condotte quasi tutte nel Diciannovesimo secolo (ma alcune sono anche precedenti). Ne restano, probabilmente, ancora centinaia da scoprire, prima che le fonti e i reperti vadano persi.
Già, perché la prima cosa che oggi sappiamo è che si trattò di un comportamento piuttosto diffuso; non erano pochi eventi isolati, azioni estreme, legate a circostanze difficili da replicare.
Più che alle fonti giornalistiche, Bell si è dedicato ai documenti d’archivio, alle anagrafi e alle ricerche nei cimiteri. Ha anche esplorato con molta cura un’altra strada: trattandosi di fatti non antichissimi, in molti casi i racconti sui “vampiri di famiglia” sono stati trasmessi alle generazioni successive. Ed è molto interessante capire come, all’interno dei vari gruppi (famiglie, chiese, comunità locali…), si sia trasformata la memoria di alcune morti, considerate opera dei “vampiri” dai compaesani. Vi raccomandiamo il suo lavoro principale, il volume Food for the Dead, oppure questo suo articolo, uscito nel 2006 sulla rivista Anthropology and Humanism.
Il merito principale di Bell è stato quello di aver inserito il vampirismo del New England nell’ambito della tragedia delle diagnosi di “consunzione”, sulla base di una vastissima documentazione. I timori per la Tbc erano fortissimi ovunque, sia nelle città sia nelle campagne.
Intorno a questa malattia prosperavano credenze e abitudini di ogni genere: nell’estate del 1874, ad esempio, il New York Post raccontava di alcune centinaia di malati che si recavano al mattatoio per bere sangue caldo di animali macellati di fresco. Era, questa, una cosa consigliata sia per la “consunzione”, sia per altre malattie (il giornale ipotizzava che l’abitudine fosse giunta dall’Irlanda, nella cui cucina si usava il sangue bollito; l’usanza, comunque, era diffusa anche da noi, almeno come cura contro l’anemia). Nell’ottobre del 1885, invece, il Chicago Tribune menzionava la crescita di piante di vite sui resti mortali delle vittime della consunzione, le cui bare erano state aperte… Fu però soprattutto nelle zone del nord-est, come visto, che in molte comunità si fece ricorso all’esumazione dei cadaveri di persone affette dal morbo.
Nei suoi lavori, Michael Bell tiene a sottolineare una cosa: non bisogna pensare a folle urlanti che, alla luce delle torce, devastavano i cimiteri alla ricerca dei corpi dei non-morti. Certo, le fonti raccontano vari generi di comportamenti, anche “sopra le righe”. Sovente, però, questi atti erano in qualche modo concordati con i familiari dei defunti. Nel 1791 a Manchester (Vermont), fu il diacono di una chiesa protestante congregazionale a far dissotterrare la sua seconda moglie, morta da poco. Qualcosa del genere accadde, un secolo dopo, nel caso più noto di tutti, quello che suscitò uno scandalo nazionale: il dissotterramento dei membri della famiglia Brown, in particolare della diciannovenne Mercy, ritenuta colpevole da morta del diffondersi della Tbc nella cittadina di Exeter (Rhode Island). Fu un atto a cui, sia pur riluttante, il pater familias assentì quando vide che anche il figlio minore, Edwin, stava per cedere alla malattia, dopo le due figlie e la moglie. Gli organi di Mercy, ritenuti “freschi”, furono poi bruciati, e il fratello Edwin ne bevve le ceneri mescolate ad acqua, con l’idea che questo rimedio potesse risultare salvifico. Purtroppo, dopo qualche mese anche lui morì. Tutto questo, tuttavia, non era opera di “maghi”, stregoni o cacciatori di vampiri in abiti neri. Era una scelta tragica, dura, ma di cui la famiglia del potenziale non-morto era partecipe, dolorosamente concorde.
Certo, scrive Bell, il vampirismo americano ha somiglianze evidenti con quello europeo-orientale, ma i ragionamenti intorno ad esso (ad esempio, le domande sul perché si diventi vampiri, o di quali precauzioni munirsi) erano assai meno sviluppati di quelli presenti nei Paesi slavi o in Romania. Nella nostra storia, quel che conta è la funzione terapeutica della pratica: i dettagli “soprannaturali” sono pochi e vaghi. Soprattutto, manca del tutto l’idea che i morti si alzino dalle tombe per bere il sangue. Lo stesso termine “vampiro” è quasi di certo un’etichetta “colta” usata dai giornali, non da chi era parte del fenomeno.
Per spiegare meglio il contesto di quelle riesumazioni, dice Bell, è necessario occuparsi dei cambiamenti che i concetti di malattia e di morte stavano subendo in America.
Le zone interessate erano decisamente povere e marginali, a fine Settecento, e lo sarebbero rimaste ancora per gran parte dell’Ottocento. Erano anche aree in cui prosperavano convinzioni religiose assai più confuse di quelle diffuse nelle chiese protestanti mainstream della aree urbane. Il folklore e la medicina popolare vi trovavano largo spazio. Ci sono alcuni indizi che l’esumazione a fini medici fosse praticata anche fra gli stessi “addetti ai lavori” (necrofori e operatori sanitari) ancora alla fine del Diciottesimo secolo. Anche se la medicina aveva fatto passi da gigante, la tubercolosi rimaneva incomprensibile, e devastava intere famiglie una dopo l’altra, “consumandole”. Anche le opinioni degli studiosi erano divise: alcuni davano la colpa alle abitudini “malsane” dei malati, altri all’ambiente, alla scarsa igiene, alla mancanza di riscaldamento invernale. Di solito chi si ammalava, dopo anni di condizioni precarie, cominciava a peggiorare all’improvviso, e in qualche mese moriva.
Ecco: Bell colloca il significato della riesumazione dei “vampiri” all’interno delle idee sul morire e sulla morte che allora circolavano. Prima della concezione attuale (quella legata alla cessazione delle funzioni cerebrali) e prima ancora di quella precedente (la cessazione dell’attività cardio-circolatoria), per lungo tempo il paradigma prevalente fu quello dell’avvenuta putrefazione. Il processo del morire, infatti, era completo quando i segni della decomposizione degli organi erano ormai scomparsi, quando non c’erano più “fluidi vitali”. Prima esisteva ancora, in qualche misura, vita.
Un corpo completamente morto è “secco”, non umido. In particolare, la presenza di sangue “fresco” suggeriva che la morte non fosse ancora completa. Se si apriva una tomba e si trovavano segni “vitali”, voleva dire che si era in presenza di un corpo non ancora del tutto morto. Paradossalmente, fu proprio il dibattito sui confini della vita, nel corso dell’Ottocento, che permise (unito al folklore e alle paure per la Tbc) manifestazioni come la riesumazione dei presunti “vampiri”. La ricerca del sangue che sembrava “circolante” negli organi di persone morte da diverso tempo o lo stato di buona conservazione dei resti era dunque un qualcosa di sospetto, comunque da interpretare.
La consunzione era una malattia lunga e misteriosa, che in diversi leggevano ancora come malattia dello spirito, dell’anima. Furono i sintomi, la loro fenomenologia, a far sì che il folklore ottocentesco del New England li collegasse ai “non morti”. Il tubercolotico è un morto che cammina, il vampiro anche. La loro esistenza è simile. Il “vampiro” era propenso a colpire in primo luogo le persone che gli erano state più care, un tempo. Dalle fonti di cui disponiamo, non è chiaro come nel New England del tempo articolassero i dettagli di questa credenza.
L’antropologo Sergey Kan ha scritto un intero libro sul rapporto fra morti e viventi nell’America rurale del XIX secolo. I vari rituali mortuari erano complessi, variegati, pieni di risvolti sociali ed economici. Per lui, nel nostro caso i resti del morto erano in sostanza sottoposti a delle seconde esequie, quelle del dissotterramento e dell’identificazione del “vampiro”. Il rogo delle parti considerate ancora “vive” (il cuore, ecc.) serviva a interrompere una relazione innaturale fra vivi e quasi-morti, una relazione non sana, spiritualmente malata, al punto da produrre nei viventi la malattia della “consunzione”. Queste operazioni potevano interrompere la catena dei contagi, incomprensibili per le conoscenze di allora. Anche il folklorista Paul Barber, come Kan, aveva messo al centro dei suoi studi il tentativo delle persone del tempo di spiegarsi i contagi intrafamiliari di Tbc. Su questo argomento ha pubblicato un libro, Vampires, Burials and Death, ma ne ha anche scritto per lo Skeptical Inquirer, cercando di tracciare la linea di demarcazione fra i “veri” vampiri (quelli del Diciottesimo secolo), e quelli della fiction successiva.
Accanto a tutte queste ragioni, ce n’era anche un’altra: da un certo punto in avanti i malati di tubercolosi cominciarono a non essere più seppelliti direttamente dai familiari, in un primo tentativo di ridurre i contagi. Ma portare il feretro, lavare e vestire il morto, allora erano privilegi, non tabù: l’idea di morire senza che parenti e amici potessero assisterti, accompagnarti nella morte, e seppellirti poteva essere insopportabile. Il disseppellimento era anche un paradossale rimedio a questa mancanza.
A mutare il precario sistema di elaborazione del lutto di cui abbiamo discusso – perché anche quello era, in ultima istanza, il vampirismo del New England – accaddero alcuni fatti fondamentali: il progresso nelle procedure di imbalsamazione dei cadaveri, l’esposizione del corpo conservato del presidente Lincoln (assassinato nel 1865) e il conseguente dibattito sull’ostensione pubblica dei corpi, la necessità di smaltire rapidamente gli innumerevoli corpi di soldati e civili uccisi nella Guerra Civile del 1861-65, la nascita dell’industria mortuaria moderna e di una classe di professionisti del trattamento dei morti, insieme alla scoperta da parte di Robert Koch, nel 1882, del Mycobacterium tubercolosis. Tutte queste cose, insieme, “uccisero” rapidamente i vampiri americani dell’800, e con essi quasi tutte le credenze di quel tipo ancora vive in Europa orientale.
Mentre queste convinzioni tramontavano, però, sulle loro ceneri sorgeva il mito del vampiro contemporaneo: quello raccontato con successo senza pari da Bram Stoker nel suo romanzo del 1897, e che oggi prospera in miriadi di film, serie tv, libri per adolescenti, videogiochi, clip musicali, fumetti e in mille altre forme. Michael Bell sostiene, con un po’ di rudezza, che non gli importa granché di smontare l’immagine del vampiro creatasi nel Novecento: non solo – ovviamente – i vampiri non sono mai esistiti, ma quando la gente ci credeva erano qualcosa di assai diverso da ciò cui oggi siamo tutti abituati.