Cronopareidolia: dai meme sui tamponi alla fantarcheologia
Sono arrivati anche a voi? Circolano da un po’ di tempo alcuni meme su “tamponi dell’antichità”, fatti apposta per strappare un sorriso in questi momenti di preoccupazione. Uno dei più divertenti è senza dubbio quello del tampone naso-faringeo egizio (Tutantampon).
Per i più curiosi: come ha chiarito Mattia Mancini, autore del bel blog di divulgazione egittologica Djed Medu, l’immagine originale è in realtà una copia moderna su papiro di una scena che si trova nella tomba egizia di Ipuy (TT217) a Deir el-Medina. Per chi non ne avesse mai sentito parlare, si tratta del “villaggio operaio” costituito da artigiani e maestranze che lavoravano alle tombe della valle dei Re, e grazie a cui abbiamo potuto scoprire tantissime cose sulla vita di chi ha costruito quelle piramidi (e no, non erano schiavi).
Il dipinto che ci interessa si trova sulla parete nord della camera funeraria, ed è purtroppo molto danneggiato: la scena fu però ricostruita da Norman de Garis Davies in Two Ramesside tombs at Thebes (New York, 1927, pp.66-70). Mancini ce la illustra:
Nel registro inferiore del muro sono rappresentati alcuni carpentieri che costruiscono un naos e un catafalco per il tempio funerario di Amenofi I. […] Uno degli artigiani che si sta occupando del catafalco si volta verso un altro uomo, forse un medico, che lo trucca con un bastoncino. Il kohl, infatti, oltre ad essere un cosmetico, serviva a prevenire le infezioni dell’occhio. In alto si vede proprio il tipico doppio tubetto per il kohl, insieme a una cassetta che forse conteneva le materie prime in polvere.
Un’altra immagine, anche quella piuttosto popolare in rete, ci mostra invece un altro “tampone”, questa volta effettuato da un bellicoso San Giorgio su un povero drago.
Il dipinto in questione è il celebre San Giorgio e il drago di Paolo Uccello (National Gallery di Londra, 1460 circa), e non ha bisogno di presentazioni: il santo, come la Leggenda aurea insegna, sta chiaramente trafiggendo il mostro con una lancia.
Sono immagini divertenti, perché colpisce la loro possibile – ed errata – lettura: rappresentano con ogni evidenza cose diverse da un tampone naso-faringeo, eppure i nostri occhi moderni non faticano a vedervi un oggetto che abbiamo ormai imparato a conoscere. Sono cronopareidolie, paradossi della nostra percezione.
Qualcosa del genere è accaduto già da parecchio con i cellulari avvistati in dipinti e film vintage prima della loro scoperta: nessuno di noi ha difficoltà a identificare il gesto del nativo nel murales di Umberto Romano o quello della donna nel documentario del 1928 su Charles Chaplin (ma gli esempi sarebbero moltissimi). Anche in questi casi sono i nostri occhi a riconoscere una forma nota e attuale in un oggetto, che, posto invece nel suo contesto temporale, aveva un significato completamente diverso: uno specchio, un apparecchio acustico, una borsetta, un libro di preghiere.
Se alcune di queste immagini sono finite su pagine e video dedicati al mistero, mentre per i meme sui tamponi non è accaduto, è merito della cornice di riferimento: nessuno pensa che gli egizi usassero davvero i tamponi nasali come facciamo noi, né che qualcuno possa viaggiare indietro nel tempo per farsi immortalare nell’atto di impiegarli. I cellulari dell’antichità vengono invece inquadrati nella categoria del mito dei viaggi nel tempo, oppure in quella degli OOPArt (Out of Place Artifacts, Oggetti fuori posto), un classico dell’archeologia misteriosa: l’idea, cioè, che i nostri progenitori possedessero tecnologie avanzatissime, poi dimenticate, frutto di legami con civiltà molto più evolute (alieni, atlantidei, ecc).
Ovviamente, la stessa immagine può essere percepita in modo diverso quando ad osservarla sono persone diverse: circa un mese fa, ad esempio, si è diffusa su internet una rappresentazione del dio Krishna su un antico monopattino, scolpito in un bassorilievo nel tempio ad Hampi, India (in realtà, era un carro). Se per una parte degli utenti si trattava solo di un meme giocoso, per altri era invece un’occasione per ribadire la presunta superiorità tecnologica degli antichi indiani (un’idea pseudoscientifica cara ai nazionalisti del Subcontinente, come ha spiegato Stefano Bigliardi nel suo dossier per Query 41).
E ancora, pensiamo al classico sputnik di Salimbeni, ai dischi volanti individuati un po’ ovunque nell’arte, allo schiacciasassi di Vicus, allo stegosauro di Angkor Wat – che diventano tanto più “possibili” quanto più li inquadriamo nella cornice di una visione del mondo e della storia (la clipeologia, l’archeologia spaziale, la convivenza tra umani e dinosauri propugnata da alcune correnti del creazionismo protestante). Per capire cosa rappresentassero davvero, è consigliabile l’uso del “contestualizzatore”, un elemento fondamentale della cassetta degli attrezzi dello scettico, come racconta Andrea Ferrero su Query 23:
I fantarcheologi descrivono immagini reali, che però fanno parte di una cultura a loro estranea. Senza conoscere i contesti religiosi, artistici e storici delle immagini nelle culture che le hanno prodotte, non sono in grado di interpretarle correttamente e il modo in cui le descrivono ci dice molto di più su quello che sta nella loro testa piuttosto che in quella degli antichi artisti che le produssero. Come scrive Kenneth L. Feder, queste descrizioni assomigliano molto di più al test di Rorschach che a un’analisi scientifica […] Di fronte a oggetti apparentemente inspiegabili bisogna usare il “contestualizzatore” per riportarli nel contesto in cui sono stati concepiti: cioè non dobbiamo chiederci che cosa queste raffigurazioni sembrano a noi, che siamo immersi in una determinata cultura, ma che cosa avesse in mente l’autore
Insomma, a ben guardare non c’è molta differenza tra pensare che gli antichi Egizi conoscessero l’uso dei tamponi e ipotizzare che quelle di Dendera fossero davvero lampadine giganti. In entrambi i casi stiamo facendo un gioco, quello di guardare al passato con occhi moderni, senza preoccuparci del contesto. Un’operazione divertente, che si presta a meme e battute di spirito: basta non prenderla troppo sul serio.